C’è sempre un momento, all’inizio dell’anno, in cui si pensa a ciò che si vorrebbe fare di più nel nuovo anno. Non tanto dei buoni propositi, quanto dei veri e propri piccoli traguardi che speriamo di raggiungere. Nel mio caso, nel mio lavoro, mi piace pensare a quali nuovi progetti potrei realizzare, dove The Italian Rêve si può spingere e dove voglio portarlo.
Lo sapete, per noi The Italian Rêve è connessione, lo è sempre stato. E per me, quando mi metto faccia a faccia con una persona per fargli delle domande, non si tratta più di un’intervista ma di una condivisione. E quando capita che c’è proprio questa condivisione di esperienze, sensazioni ed emozioni, si parla spesso anche di argomenti che hanno a anche fare con la salute mentale. Della sua importanza, di come una persona sceglie un percorso invece di un altro o di come o perché certi argomenti non vengano proprio affrontati.
Mi sono quindi chiesta perché non avessi già creato uno spazio che potesse proprio essere dedicato a questo: alla salute mentale, a persone che hanno affrontato e che affrontano un percorso terapeutico e che hanno qualcosa da dire. Persone che possano essere d’ispirazione, che possano spiegare come i tabù debbano essere polverizzati, uno ad uno. Dai tabù di genere a quelli che ci vedono giudicati per il nostro corpo o per la decisione di andare da un terapeuta. Quei tabù che vedono un fallimento come una cosa prettamente negativa.
Nel cominciare questo percorso mi sono guardata attorno: non volevo creare uno spazio scontato, volevo cercare di dire cose importanti tramite persone che stanno facendo una piccola grande rivoluzione e la prima scelta per me è stata Carlotta Vagnoli che è un uragano di energie, di idee, di parole. Carlotta è attivista, femminista, sex columnist e, per noi, rivoluzionaria. In tutto quello che fa e ha fatto c’è una piccola rivoluzione: dal suo corpo, al suo vaffanculo più grande, per finire con tutto ciò di cui parla ogni giorno e che vorrebbe che cambiasse le cose.
E le cambierà.
Se pensi alla tua infanzia e adolescenza, pensi a qualcosa di felice?
Sì, l’infanzia penso sia il periodo che ricordo con più affetto, in generale, di tutta la mia vita. Ho questa idea cristallizzata, ferma in un tempo, completamente svincolata da qualsiasi riferimento fisico, ma di una condizione di tranquillità, e anche di libertà, sono sempre stata una bambina lasciata libera di fare e di esprimersi come preferiva. Ero molto timida paradossalmente, molto ritrosa, molto solitaria, però molto felice.
L’adolescenza è stato un passaggio che non ho amato particolarmente, proprio perché non sentivo di appartenere a nessun gruppo, sentivo tanta competitività intorno; poi, ho fatto un liceo prettamente femminile, c’erano solo 12 uomini all’interno di tutta la scuola, e sentivo questa sorta di costante input esterno di competizione, come se qualcuno volesse mettere me e le mie amiche sempre in un’eterna guerra, e non mi piaceva. Non mi piaceva dover trovare un confronto estetico, appartenere a una certa estetica, non mi piaceva parlare del niente; mi piaceva molto suonare il pianoforte, l’ho suonato tanto, e poi, ovviamente, è arrivata subito la politica al liceo.
Sono stata rappresentante di istituto sempre, ho organizzato manifestazioni sempre, quella era la cosa che mi faceva bene, quando mi rendevo utile a fare qualcosa di concreto, mi sentivo bene. Poi sono venuta all’università qua a Milano ed è cambiato tutto, la libertà è stata qualcosa di straordinario. Qua a Milano, il primo anno, si è aperto un mondo che non conoscevo.
“La libertà è stata qualcosa di straordinario”.
Quando ti svegli la mattina, o quando vai a dormire la sera, hai dei rituali, delle cose che fai? Ad esempio, ci sono persone che la sera fanno una lista delle cose per cui sono grate, o cose del genere… Ci sono dei rituali o delle cose tue?
Diciamo che io non sono una persona abitudinaria, sono una persona a cui piace vivere fuori dagli schemi, anche e soprattutto per cercare di mettermi in un costante “fuori” dalla comfort zone; per dirti: ho messo i quadri non speciali e non centrati nelle pareti, o anche i mobili, proprio per crearmi anche un disagio visuale, per cercare di abituarmi a non essere proprio sempre rigorosa, simmetrica, anche perché, sulla lunga, mi ammazza a livello creativo.
L’unico rituale che ho, tendenzialmente, è cercare di non parlare con nessuno fino alle 9 del mattino, perché prima è illegale [ride]. E poi, faccio le cose che fanno tutti, o comunque ognuno ha una sua piccola routine: la sera non ho grandi cose, la mattina mi sveglio e leggo le email dal telefono, cerco di rispondere il più possibile finché posso stare a letto; per il resto non ho qualcosa di fisso, e anche l’idea di avere qualcosa di fisso è sempre stata per me molto preoccupante, per questo sono sempre scappata dai lavori d’ufficio, abitudinari, o anche semplicemente matematica, tutte quelle cose affini… non fa per me.
Io in ufficio penso sarei morta. Per un brevissimo periodo ho lavorato in un ufficio… l’abitudine, gli orari, sempre le stesse cose, poca creatività… Le superiori mi strozzavano, ne soffrivo moltissimo, ma non era una ribellione del tipo “non voglio studiare”, assolutamente no, era l’abitudine…
Sì, proprio l’idea di essere sempre nello stesso posto. Quest’anno di pandemia per me è stato strano perché io di solito lavoro sempre in giro, che sia Parigi, Londra, dove ho alcuni clienti, che sia appunto Milano, tantissimo, Roma, tantissimo: sono rimasta ferma un anno in casa e per me è stata una grande sfida, perché lavoravo sempre nello stesso posto, con me stessa, guardando sempre la stessa cosa, ovvero la mia cucina. Ho fatto da sola la quarantena, tutto quest’anno vivendo da sola… e voi siete le prime persone con cui parlo ad essere reali e non finte! Non siete nella mia testa! [ride] Ma è andata bene, ho reagito meglio del previsto. Questa cosa di non avere mai punti di riferimento forse mi ha resa molto più adattabile di quanto io credessi, pensavo sarei impazzita, quattro o cinque anni fa sarei impazzita.
Ho lavorato sodo in questi ultimi anni, anche con tanta terapia, che penso sia la cosa migliore che mi sia capitata nella vita, e la più interessante anche, fatta con una delle donne che io reputo fra le più intelligenti che abbia mai incontrato, e mi ha permesso anche, se mi guardo indietro, di dire: “no, la pandemia io forse non l’avrei affrontata con serenità quattro o cinque anni fa”.
Sono stata adattabile. È frustrante, sulla lunga, sento che sono una tigre in gabbia, ma non ho patologizzato niente, quindi è già qualcosa [ride].
“Terapia… penso sia la cosa migliore che mi sia capitata nella vita, e la più interessante anche”.
Cos’è che ti fa incazzare, tra le tante cose?
La più grande di tutte è la mancanza di rispetto da parte delle persone che ho intorno. Cioè, se sei connesso a me con nessun grado di separazione, allora io esigo, come io metto impegno, impegno dall’altra parte. Se c’è mancanza di rispetto, è una cosa che mi tappa la vena. Penso che per avere un rapporto di qualsiasi tipo, che sia amicale, che sia sentimentale, che sia familiare, ci voglia del lavoro, va fatto un lavoro, e se è unilaterale, allora è un rapporto sbilanciato, a tratti abusante, e io non ho più tempo da perdere, né da dedicare a queste cose: mi incazzo, esplodo e vado.
Tu parli spesso della violenza sulle donne, ma in generale parli di violenza: che cos’è per te la violenza e che percorso hai fatto nella tua vita per arrivare ad essere quella che sei adesso, per riuscire a parlare come lo fai?
Nessuno fa mai parlare una survivor, quindi, a una certa, ogni survivor sa che avrà voglia di parlare. Quando io ho avuto la mia relazione abusante – ho vissuto un anno di violenza domestica, dal quale poi sono scappata – ero come dentro una lavatrice, per assimilare tutto ciò che ti succede ci metti tempo. Spesso i ricordi non sono neanche in linea, perché hai quella che si chiama “rimozione da shock”, ci sono tanti vuoti, periodi completamente bui, delle cose che non sai se sono successe in quel periodo o anni prima, c’è veramente una gran confusione, che infatti va sempre seguita. Nei centri antiviolenza ci sono psicoterapeuti e psichiatri che portano le donne alla fuoriuscita dalla violenza anche e soprattutto a livello mentale.
Nel momento in cui accetti e metabolizzi quello che ti è successo, capisci che è qualcosa di più grande, che non è legato solo a te ma è una cosa sistemica, e ti viene quasi naturale fare divulgazione o formazione all’interno dei centri antiviolenza.
Ogni volta che subisci una violenza, pensi di essere l’unica sfigata che ha avuto quella roba là. Mi ricordo esattamente quando entrai in contatto con le altre survivor del primo centro anti violenza del gruppo di auto-aiuto che frequentavo, e mi resi conto che tutte loro stavano raccontando storie che erano esattamente uguali alla mia, ma con nomi di abuser diversi. È una cosa così culturale, così radicalizzata, che le cose succedono nello stesso modo. Quindi, capire questa cosa ti fa sentire sicuramente meno sola, e ti fa sentire parte di una rete, e fare rete significa anche soprattutto cercare di impedire che questo accada ad altre donne. Quando capita a te, sei sempre da sola e questa è la grande cosa che succede a tutte le donne vittime di violenza: sono sempre sole, isolate.
“Ogni volta che subisci una violenza, pensi di essere l’unica sfigata che ha avuto quella roba là”.
Secondo me, e non solo, stai facendo un lavoro pazzesco, parlando di tabù che spaziano dalle mestruazioni alla violenza sulle donne: come vorresti vedere evolvere questa tua piattaforma? Perché secondo me è potentissima, io ti seguo da molto tempo e dici delle cose che in pochissimi, credo, abbiano il coraggio di dire, e di dirle così schiettamente, poi tu lo fai con la tua faccia, quindi credo sia ancor più potente. Tu immagini che questo si sviluppi ancora di più?
La mia pagina è sempre stata abbastanza improvvisata, non ho mai strutturato niente. Adesso ho capito che devo separare le cose, quindi ci sono i testi tipo giornale, con titolo e caption, e le immagini, che cerco di tenere svincolate, per avere ancora un appiglio ego-riferito, perché ci sta, ho bisogno di avere la mia presenza nel mio spazio, sennò diventerebbe uno spazio per chiunque e di chiunque. Credo che l’evoluzione sia al di fuori di quello spazio, penso che il mio spazio rimarrà così.
La grande cosa che vorrei fare è riuscire ad ampliare il mio spazio dando spazio ad altre voci da invitare all’interno, ma soprattutto voglio iniziare ad andare fuori, voglio andare nei posti in cui non ci sono queste voci, voglio andare nei media canonici, sui giornali, nelle televisioni, ma non soltanto io intesa come io, ma a catena, con tutte le persone che fanno parte di questo movimento, perché sta diventando rivoluzionario, e sono molto contenta di ciò.
Vedo anche le prime copertine, c’è stata anche Donna Moderna con la mia amica Sofia Righetti in copertina a parlare di abilismo, le “Belle di faccia”, Mara e Chiara, che hanno sdoganato un sacco di magazine e stanno entrando a parlare di grassofobia, e ci sono tante altre donne che stanno facendo dei percorsi molto importanti. Quindi ciò che conta è cercare di cambiare la narrazione, e lo si può fare solo nei luoghi di potere, che ci hanno sempre dato una percezione falsata di quella che era realmente la vita.
Quindi noi vogliamo andare lì, noi vogliamo quello.
“Ciò che conta è cercare di cambiare la narrazione, e lo si può fare solo nei luoghi di potere”.
Prima hai parlato del sentirsi soli: hai mai sofferto di solitudine?
Sì. Relativamente alla violenza, sicuramente le donne che subiscono violenza si ritrovano sole, isolate, uno, perché la società non è pronta ad accoglierle, quindi c’è tutta una serie di sovrastrutture sistemiche, tra cui il famoso “victim blaming”, che isolano la donna. Ti cambia la percezione del mondo che non sai più neanche quali sono le tue reazioni. Io porto sempre ad esempio questo episodio: appena uscita dal circuito della violenza, mi sono ritrovata al supermercato, davanti ad uno scaffale, e non mi ricordavo più quali fossero i miei biscotti preferiti, perché non mi ricordavo più se fosse una cosa imposta o se era veramente un mio volere, non avevo l’appiglio sulle cose primordiali. Da lì, poi, ovviamente, ho cambiato vita, ho cambiato casa, ho cambiato regione, città, ho cambiato tutto, ho cambiato lavoro, e trasferendomi a Firenze, come mi sono un attimo assestata, è scoppiata una depressione che poi è durata tre anni e che è stata affrontata benissimo, con la terapia, prima anche farmacologica, poi semplicemente con terapia cognitivo-comportamentale, che è la più adatta a me – ognuno ha il tipo di percorso che trova più consono – ed è stato un lavoro di scoperta incredibile.
La depressione sicuramente porta solitudine, perché ti auto-isoli, la necessiti, e mi ricordo uno stato quasi embrionale della mia vita, in cui avevo momenti in cui avevo bisogno di qualcuno, avevo bisogno della mia mamma, però c’erano certi momenti in cui non volevo quasi parlare, c’erano giornate in cui mi rendevo conto di non aver parlato dalla mattina alla sera mai, neanche una volta. Te ne rendi conto specialmente quando ne esci, che hai fatto una cazzo di fatica a superare tutta quella roba là.
Quello che mi piacerebbe fare è proprio sdoganare certi argomenti, poterne parlare liberamente, e tu sei la prima persona che intervistiamo su certe tematiche. Mi sono accorta anche io, nel mio piccolo, che sono stata cresciuta in un ambiente in cui non c’era nessun problema a dire, “io vado dallo psicoterapeuta” – sono 9 anni che vado dallo psicoterapeuta – non ho problemi a dirlo, per me è una cosa normale, anche perché i miei genitori mi hanno sempre incoraggiata, mi hanno sempre detto, sin da piccola: “ma che problema c’è”. Però vedo che è ancora un tabù enorme, anche quando magari lo consiglio a delle mie amiche, o a persone che vedo soffrire di depressione, ansia o altro. È una lotta bruttissima da fare da soli, anche perché più soffri, più tendi a isolarti da tutto il resto, e poi arriva la depressione, è un lavoro enorme. Però penso che in Italia, come in tanti altri Paesi, ci sia un lavoro enorme da fare. Secondo te, quali potrebbero essere dei passi da compiere, magari anche all’interno delle istituzioni, della scuola?
Da noi manca una cosa che in America è fondamentale: la figura del councelor. La figura del councelor nelle scuole americane è ormai istituita da tempo, anche perché, essendo più soggetti a suicidi, depressione, mass shooting, gli americani hanno capito che arginare anche a livello sistemico qualcosa, cercare di immettere all’interno di un’istituzione una figura di riferimento per le persone in difficoltà, poteva essere utile. È una cosa che molte aziende mettono a disposizione all’estero. In Italia c’è ancora un grande tabù. Noi vediamo la figura dello psicologo solo quando in televisione parlano di reati, chiamano lo psicologo per chiedergli: “ma secondo te, perché questo ha ucciso 18 persone?” Quindi abbinare a livello inconscio, dalla parte dello spettatore, lo psicologo solo a casi rari, che sono poi di solito quelli di cronaca, più violenti, ti fa dire: “okay, dallo psicologo ci vanno solo i malati che poi escono e fanno a pezzi le persone e li nascondono nel baule di una Panda”. No, non funziona così.
Ne ho parlato poco tempo fa con Tia Taylor, una content creator che amo molto, che in Italia abbiamo la cultura del nascondere, siamo sempre stati bravissimi a nascondere. Invece, l’America porta fuori tutto, sono culturalmente abituati a dire tutto; noi, invece, siamo abituati, forse anche per una morale cattolica che abbiamo sempre in casa, a tenere nascosto tutto. Quando qualcuno si ammalava di depressione o, anche nelle famiglie bene, c’erano dei problemi a livello di persone bipolari, o persone con un problema psicologico o psichiatrico, si tendeva a nascondere. “Dov’è?” “Eh, no, è andato in vacanza…”.
Quindi è normale che siamo cresciuti un po’ timorosi di avvicinarsi alla figura professionale dello psicologo o dello psichiatra, quando in realtà io credo sia la cosa più liberatoria. Io mi ricordo che già il momento stesso in cui ho chiamato quella che poi è ancora la mia terapeuta, mi sono sentita più libera. Al primo colloquio per me è stato amore a prima vista, ma ci sono persone che giustamente hanno bisogno di assestamento, di cercare l’indirizzo più consono, ma io mi ricordo che è stato come levarmi un macigno di dosso e dire: “vedi che non c’era bisogno di affrontarlo con stigma?” Anzi, vedendone poi i benefici, vorrei dire a tutte le persone: “ma che cazzo fate?” Sicuramente lo Stato deve far qualcosa, che sia un’educazione alla salute mentale all’interno delle scuole, o anche un’educazione all’empatia, perché l’empatia ti permette anche di capire qual è il limite delle narrazioni tossiche da fare.
Una volta hai detto: “Il potere della donna non deve mai e poi mai dipendere dalla quantità di carne che quest’ultima decide di esporre al mondo” e hai anche detto: “non prendo il mio corpo come una cosa seria, non lo prendo seriamente”. Per te, cos’è il tuo corpo?
Un qualcosa in continua evoluzione. Una cosa che non ho mai voluto vedere, forse proprio per reazione a tutta quella serie di stereotipi che ci passavano: “il corpo dev’essere immacolato, una tela bianca, lo devi tenere bene”, “mi raccomando, abbi rispetto del tuo corpo, non fare troppo sesso in giro, non lo pitturare mai”. Quindi io cosa ho fatto? Un sacco di sesso in giro e l’ho pitturato tantissimo [ride], giusto per far capire subito che le cose non andavano così. Non è qualcosa di serio, non è qualcosa di statico, è qualcosa che potenzialmente può diventare una gabbia. Io volevo fare di tutto affinché il mio corpo non fosse una gabbia, e per farlo dovevo vederlo io già da un’altra prospettiva.
All’inizio pensavo che tutti i tatuaggi dovessero avere un significato, ma ho smesso di dar loro un significato importante, perché non c’è bisogno di valorizzare qualcosa che tu puoi fare sul tuo corpo. Il corpo è semplicemente un’estensione di quello che sei. Io sono anche il pezzo di sushi che c’ho tatuato, il portagioie con scritto sotto “mai una gioia”, il corpo è qualcosa che amplifica ogni lato di te, e non è portatore di una morale, che non può essere connessa al corpo.
Non c’è nessun punto logico di connessione tra l’avere un valore morale e avere un corpo liscio, bianco, in forma.
Il mio corpo è uno strumento con cui parlo, ma al contempo non è così importante, e questa cosa deve arrivare. Il corpo è bello quando si può vedere, ma devo essere io a scegliere quando farlo vedere, e non voglio che nessuno giudichi quanto lo faccio vedere.
“Io volevo fare di tutto affinché il mio corpo non fosse una gabbia… il corpo è semplicemente un’estensione di quello che sei”.
Ti fa girare i coglioni vedere i commenti che dicono: “tu, femminista, che ti fai vedere così…”?
No, non me n’è mai fregato un cazzo, ma neanche quando non facevo queste cose su internet. È stata un’evoluzione naturale ed è la cosa che faceva più incazzare tutti. L’idea che uno sconosciuto, da dietro un telefono, mi scriva sotto una foto in cui io mi sento bella che “sono una bocchina”, a me non può – non deve – fare né caldo né freddo. Vorrei che ci fosse questa educazione, perché purtroppo ancora uno sconosciuto, dall’altro lato del telefono, può rovinare la vita delle altre ragazze, e questa cosa è veramente inconcepibile e, soprattutto, è inconcepibile che qualcuno abbia, dall’altra parte del telefono, il potere di farlo.
Qual è stato il miglior “vaffanculo” della tua vita?
Ce ne abbiamo un sacco, eh… Ti dico la mia top 3.
Il “vaffanculo” numero uno è stata l’aspettativa lavorativa che tutti volevano una persona così, “portata per la scrittura”. Io per otto anni non ho voluto saperne niente, stavo già scrivendo, scrivevo per GQ, stavo iniziando a scrivere per Playboy, ma volevo fare la barista, non me ne fregava un cazzo, a me piaceva il bancone, mi piaceva la vita di notte, mi piaceva far da bere, mi piaceva la pedana, che per me era un palcoscenico, mi piaceva ricordarmi non i nomi dei miei clienti, ma tutto ciò che bevevano, sapevo esattamente il drink di ogni persona dentro quel bar.
Ho voluto rispettare i miei tempi, quindi quello è stato un grande “vaffanculo”, ho rispettato i miei tempi finché non mi sono sentita pronta per dire: “sì, adesso scrivo e basta”. E l’ho fatto con molta più consapevolezza.
Il secondo “vaffanculo” è stato quando tutti si aspettavano che io avrei ceduto, pensavano che io mi sarei fermata, ma io non mi sono fermata. Ho iniziato a scavare ancora più forte, sono andata col piede sull’acceleratore, e quelle persone lì tutt’ora cercano, ogni tanto, di ricordarmi che io posso fallire, e io dico: “sì, è umano fallire”. C’è anche il tabù del fallimento, ma anche il tabù del fare le cose necessariamente con fatica, perché se non fatichi non avrai qualcosa di valido: quella è una cazzata. Assecondare il proprio istinto vuol proprio dire fare le cose con poca fatica, perché fai qualcosa che ti piace e che ti viene bene. Se stai mettendo veramente così tanta fatica, “fake it ‘til you make it”, allora non stai seguendo qualcosa a cui sei incline, non stai facendo qualcosa che ti rende felice.
Magari i mezzi per arrivare a quella cosa saranno faticosi, però farla dev’essere semplice…
Esatto, ma anche semplicemente esprimersi, esprimere la propria persona non deve essere un atto di violenza verso sé stessi, dev’essere qualcosa di più semplice di così. Quindi il secondo “vaffanculo” è stato nei confronti di tutte quelle persone che pensavano che non ce l’avrei fatta, oppure che avrei dovuto sudare molto per riuscire a parlare di queste cose, perché mi reputavano una persona instabile. Sono instabile, ma faccio un sacco di cose belle comunque, quindi vaffanculo! [ride]
Il terzo “vaffanculo” è quello che ho detto uscendo da quella casa da cui sono uscita l’ultima volta. C’ero già uscita due volte, la terza ho detto “non posso più tirarmi indietro e girarmi”. Quello è stato il “vaffanculo” più vaffanculo di tutti.
“Sono instabile, ma faccio un sacco di cose belle comunque, quindi vaffanculo!”
Prima mentre scattavamo hai parlato della coerenza, dell’essere coerenti. Quanto è importante per te essere coerente nella tua vita?
Essere coerente vuol dire essere onesti verso sé stessi. Essere coerenti è tutto, perché sennò se non si è coerenti vuol dire che si sta subendo qualcosa dall’esterno che sta falsando il metro di giudizio, che sta falsando il nostro modo di esprimerci, secondo me questa è coerenza. La coerenza è anche onestà, non c’è niente di male a volte nel dire “non ne ho voglia”, oppure “non mi interessa”, oppure “lo faccio perché è più facile”, non c’è niente di male, anche quello è essere coerenti. Ci vuole coraggio a essere coerenti, questo sì.
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stessa?
L’ultima cosa che ho scoperto di me stessa è che so adattarmi. La pazienza l’avevo già scoperta, e non pensavo di essere paziente; poi, dopo la pandemia, ho scoperto che non solo sono paziente, ma so anche adattarmi, sono un animale che ha imparato ad adattarsi, e questa cosa mi piace molto, sono stata brava e me lo voglio dire a voce alta, sono stata proprio brava.
Prima hai parlato dello scrivere, del fatto che l’hai fatto nel momento in cui lo ritenevi giusto. C’è stato un pezzo, un qualcosa che hai scritto, che ti ha liberata da qualcosa, o di cui sei particolarmente orgogliosa?
Sono sicura che la cosa migliore che ho scritto deve ancora arrivare, ma sono contenta di tantissime cose che ho scritto e sono, 9 su 10, cose che non ho mai reso pubbliche, perché c’è tutta una parte di scritti che tengo per me, perché sono ovviamente più intimi. Sono sicura che tra le cose migliori che ho scritto e sono pubbliche c’è quest’articolo che cito ogni tanto, sempre su GQ, che si chiama “La necessità di fare sesso come voglio”.
L’ho scritto esattamente qualche giorno dopo essere scappata da quella casa, con una minaccia di revenge porn da parte di questa persona – un signore fino in fondo – e io scrissi un articolo su Tiziana Cantone, che si era tolta la vita da pochissimo, e mi auguravo che la legge arrivasse in tempo per fare qualcosa, perché così come con un clic metti online la reputazione di una persona, deve esserci una legge che con la velocità di un clic riesca ad arginare queste problematiche. Ci sono voluti tre anni per avere il 612 ter, che appunto disciplina la condivisione non consensuale di materiale intimo, e non basta sicuramente.
Quell’articolo lo reputo come un punto di svolta, che mi ha fatto fare un approfondimento sul movimento di liberazione del corpo e del femminismo.
Ci sono dei libri, degli scrittori che ti piacciono particolarmente?
Quando si parla di scrittori e scrittrici relativamente al femminismo, si apre un vaso di Pandora, ce ne sono tantissimi, a partire da Angela Davis con “Donna, razza e classe”, che è uno scritto fondamentale. Poi c’è un un saggio del 1973 di Elena Giannini Belotti che si chiama “Dalla parte delle bambine”, e riprende tutta la storia degli stereotipi di genere a partire dagli agglomerati non urbani, ma rurali, quindi tutta quella serie di superstizioni che c’erano nei confronti delle femmine nei maschi, anche nella gravidanza, quando la donna era in gravidanza si auguravano che fosse maschio. È un libro che ti apre la testa su quanto gli stereotipi di genere siano radicati anche senza farci caso, che poi lo stereotipo di genere è proprio l’embrione della violenza. Amo molto il lavoro di Vera Gheno, una linguista che sta affrontando il tema del linguaggio inclusivo all’interno della società; lei ha scritto un bellissimo libro, che si chiama “Femminili singolari”. Ci sono tanti testi che io consiglio sempre, ma in questo momento la lingua, quindi la rappresentazione tramite la lingua, e gli stereotipi sono tra i miei punti di interesse.
Ascoltandoti e vedendoti sui social, oppure leggendo quello che scrivi, sembri, e lo sei, credo, una donna molto sicura di sé.
Incosciente… Più incosciente [ride]. Non ho mai avuto tanta percezione di me, la sicurezza è forse aver avuto sempre un certo menefreghismo. C’è sicuramente un lato che mi ha liberata tantissimo, che è l’aver affrontato vis-à-vis la paura di morire, di essere ammazzata. Quello ti sblocca, non c’è nessun next level, hai abbattuto il mostro finale. Rendersi conto di quello e vivere senza quel peso lì, sai esattamente quella paura che cosa sarà, sai esattamente che cosa ti può succedere e come. Se io non ho paura è perché so esattamente cosa si prova a pisciarsi addosso dalla paura di morire, sicuramente non mi farà paura l’opinione di qualcuno su internet, questo è poco ma sicuro. Essere sicuri è un’altra cosa. Non sono mai sicura sulle mie capacità, magari, mai completamente, fino in fondo, mi metto sempre in dubbio proprio per andare avanti. Mi piace mettermi in dubbio anche mettendomi a paragone con altre persone, con altre idee, penso che il dialogo sia essenziale e necessario. L’incoscienza, invece, la rivendico.
L’ultima stronzata che hai sentito dire?
L’ultima stronzata che ho sentito dire probabilmente è il direttore di Rai 1 che dice che lui ha molto a cuore la violenza sulle donne, e che vuole creare un environment di narrazioni che rispettino la violenza sulle donne e che invoglino le donne a denunciare, e poi, nel giro di due settimane, fa uscire tre episodi di tre fiction prodotte da Rai in cui ci sono delle false accuse di stupro. Questo non è bello, questa è una grande stronzata, e 9 su 10 non se ne sono nemmeno resi conto. È il servizio pubblico, non è Mediaset che ci può stare una “concomitanza di”; il servizio pubblico deve essere attento a queste cose.
“L’incoscienza, invece, la rivendico”.
Scrivevi per GQ, hai scritto anche per Playboy, e parli molto spesso non solo del tuo corpo, ma anche di sesso in modo assolutamente libero, come dicevamo prima. Per te, per Carlotta, che cos’è la sensualità?
La sensualità è un tratto caratteriale soggettivo di cui alcune persone magari non hanno neanche bisogno, o non hanno neanche “installato”, come dico sempre io. La sensualità è soggettiva, per me può essere sensuale mangiare gli spaghetti in un certo modo, per altre persone può essere sensuale camminare scalze. È come l’erotismo, una cosa è erotica perché ci stimola qualcosa che non abbiamo a livello oggettivo, ma abbiamo a livello interno. È la stessa cosa, io posso reputare sensuale, così come posso reputare bella, una cosa che non lo è canonicamente, non esiste un oggettivo, è sempre molto privata e personale. Infatti, una cosa bella è quando due persone con la stessa visione di sensualità si incrociano; quando io lo trovo, resto in contemplazione, è quella la chimica di cui tutti parlano, è vibrare sulla stessa linea di frequenza della sensualità.
La sensualità per me, come Carlotta, è un’espressione fondamentale che però arriva in modi inaspettati: per me può essere sensuale un dialogo con una persona, un gioco delle mani, il modo in cui una persona fuma, approcciarmi in un certo modo. La declinazione però è soggettiva, ed è proprio per questo che mi piace, è sempre un’esplorazione.
Photos and Video by Johnny Carrano.
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