Protagonista della nuova serie “Chiamami ancora amore” in onda su Rai 1, Simone Liberati si racconta e ci racconta l’importanza della sincerità nella narrazione drammaturgica.
Dopo film e serie di successo tra cui “Suburra”, “La profezia dell’armadillo” e “Petra”, l’attore romano ha testato la sua capacità di immedesimazione ed empatia in una storia familiare che racconta senza fronzoli la multiformità dell’amore e, per questo “declinabile alle vite di tutti”.
Intervistando Simone, abbiamo avuto un assaggio della sua voglia di sperimentare, di raccontare storie vere e specchio della contemporaneità, della sua fiducia nel fato e nel suo potere incontrastabile sul corso della vita e della carriera.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Non ricordo quali furono i primi film che vidi al cinema, probabilmente dei cartoni animati, e mi ricordo sempre una grande gioia, una grande emozione. Per noi, quando i miei ci portavano al cinema, era una festa, uno svago enorme, era proprio un regalo. Mi piaceva moltissimo fare la fila, aspettare il film, entrare nella sala enorme, poi vedevo tutto più grande, quindi la sala grandissima, scura, lo schermo gigantesco, le luci, i suoni, era tutto estremamente affascinante.
Sei il protagonista della serie tv attualmente in onda su Rai 1 “Chiamami ancora amore”. Qual è stata la tua prima reazione quando hai letto la sceneggiatura e metabolizzato il ruolo che avresti dovuto interpretare? E qual è stata la prima domanda che hai rivolto al regista, Gianluca Maria Tavarelli, e a te stesso?
Dunque, ho letto la sceneggiatura e ne sono rimasto subito molto coinvolto, rapito. L’ho letta tutta d’un fiato, perché dentro questa storia ci rivedevo un po’ la storia di tutti, anche di persone che non hanno necessariamente affrontato separazioni o divorzi in questo modo, come fanno loro, facendosi la guerra. Però la storia, per com’era scritta, aveva la capacità di arrivare, secondo me, direttamente nel cuore delle persone, perché, in qualche modo, ti pone delle domande, ti forza anche un po’ ad un’indagine introspettiva. Quindi, una volta finito il ruolo di lettore, da interprete mi sono dovuto preoccupare di dare anima e corpo ad Enrico, e con Gianluca [Maria Tavarelli] avevamo stabilito sin da subito che dovevamo soprattutto sentire la storia e poi affrontare questo viaggio a cuore aperto, rimanendo molto nell’intimità dei sentimenti, molto in ascolto e in contatto emotivo tra di noi, quindi tra me e Greta [Scarano].
Gianluca ci ha sempre forzati in questa dimensione, cioè a rimanere molto in contatto, a sentire la scena, a vivere il più possibile il momento che stavamo raccontando. Sicuramente è stato un lavoro molto intenso, che ci ha permesso di fare un percorso molto approfondito sui personaggi, cercando di arricchirli il più possibile di sfumature, di esperienze, di vissuti.
Il tuo personaggio, Enrico, viene raccontato in un punto di rottura della sua vita, ovvero quando la moglie, Anna (Greta Scarano), decide di lasciarlo dopo undici anni di matrimonio, ed entrambi si ritrovano a fare i conti con l’affidamento del loro figlio. Quali sono state le difficoltà e le sfide dell’interpretare il tuo personaggio e come le hai affrontate e superate? C’è, nel profondo, qualcosa di te in lui?
Le sfide principali che imponeva il tipo di racconto erano sicuramente il lavoro sugli anni, sul tempo. Anna ed Enrico si incontrano giovani e vivono un decennio insieme all’interno del quale succedono molte cose: vivono, il loro rapporto si intensifica, la loro famiglia si evolve, fanno un figlio, il figlio cresce, diventa un ragazzino, e via via il tempo li tramuta. Ecco, capire questi passaggi, queste sfumature, cioè dove questi mutamenti avvengono e come e che cosa comportano, è stata la sfida dell’interpretazione dei nostri ruoli. Io mi sono ritrovato molto nel racconto, un racconto che, in qualche modo, pur non parlando di me, della mia vita, ho sentito mio. Ripeto, credo che questo racconto abbia la capacità di parlare al cuore delle persone in questo senso, e proprio per questo credo che in tanti, poi, si possano rivedere nei personaggi e in quello che raccontiamo. È un po’ la storia di tutti, è una storia di un rapporto amoroso e vive tutti i travagli del rapporto amoroso, quindi, in qualche modo, questi racconti sono declinabili, sono applicabili alle vite di tutti.
La serie rappresenta le molteplici sfaccettature dell’amore e la sua evoluzione, nel corso del tempo, in particolare quando da esso nasce una famiglia e si manifestano tutte le responsabilità che figli e vita coniugale comportano. Che approccio hai adottato nei confronti di questa tematica delicata? Da quali eventi o realtà hai tratto ispirazione per esplorare, cogliere e rappresentare sullo schermo la realtà dell’amore che resta e di quello che si spegne?
Io non ho avuto nessun contatto, in realtà, con il tipo di tematica; io mi sono approcciato alle circostanze e alla vita di Enrico, mi sono confrontato con la sua vita, ho cercato di dare quotidianità e vissuto al suo rapporto con Anna e con il figlio, ho cercato di capire il suo desiderio forte di famiglia e di unione familiare, ho cercato di comprendere il perché della sua rabbia e del suo rancore così spietato nei confronti di Anna, di capire perché si manifesta e perché in lui scatena una reazione simile. Ecco, è stato questo il tipo di approccio che ho cercato di adottare, che ho dovuto adottare. Non ho preso ispirazione da fatti reali, o non c’è stato niente che mi abbia particolarmente ispirato per questo; non c’è stato un fatto in particolare, però, potrebbero essercene tantissimi, visto che la natura dell’amore è proprio quella di accendersi e spegnersi, nel senso che è un sentimento abbastanza multiforme, che cambia nel tempo.
È importante dire che non mi sono relazionato con il tipo di tematica, la tematica io non l’ho affrontata, la tematica viene fuori dopo; io mi sono dedicato alla costruzione di una persona innamorata della moglie, con la quale decide di fare un figlio, quindi mi sono concentrato su quelli che erano le volontà e i desideri.
“…credo che questo racconto abbia la capacità di parlare al cuore delle persone in questo senso, e proprio per questo credo che in tanti, poi, si possano rivedere nei personaggi e in quello che raccontiamo”.
Come descriveresti “Chiamami ancora amore” in una sola parola?
Non so se in una parola riuscirei a definirla, mi servirebbe un discorsetto per definire quello che per me rappresenta questa serie. Ce ne sono diverse di parole… È arrivato, finalmente, un racconto di una storia familiare raccontato senza fronzoli, senza dover edulcorare le cose, la realtà, raccontando sinceramente quanto, spesso, i figli cambino il rapporto tra gli amanti che li hanno messi al mondo, e di quanto questo vada raccontato sinceramente, senza ipocrisia, senza paure, e di quanto sia complicato, anche, per una donna, decidere di interrompere la propria gravidanza una volta che si inserisce in un girone burocratico di rimandi da un ufficio all’altro, da un dottore all’altro, da un ospedale all’altro, quando inizia questo calvario non necessario, che rende molto difficoltoso tutto, è un impedimento per le scelte legittime di un individuo. La serie racconta anche che, forse, per essere veramente genitori, c’è bisogno di qualcosa di più, essere genitori è qualcosa di più di un fatto di sangue, dell’aver contribuito con un seme alla propria progenie, è qualcosa di più di questo, non si ferma ad un fatto di sangue, di discendenza, non è solamente lasciare una traccia di sé nel mondo, è un po’ diverso. Penso che tutte queste siano cose che la serie prova a raccontare, quindi alla fine, forse, ci sono arrivato a una parola, ed è “sincera”.
“ESSERE GENITORI È QUALCOSA DI PIÙ DI UN FATTO DI SANGUE, […] NON È SOLAMENTE LASCIARE UNA TRACCIA DI SÉ NEL MONDO, È UN PO’ DIVERSO.”
Lavori nel cinema, nella televisione e nel teatro. A quale dei tre mondi senti di appartenere di più e sotto quale tipo di riflettore ti senti più “a tuo agio”?
Devo dire non ho una preferenza in particolare, sono forse più legato, perché ho lavorato con maggiore intensità, negli ultimi anni, sul cinema e la televisione, quindi indubbiamente ormai è diventato, per me, molto più abituale come modalità di lavoro.
Serie tv e lungometraggi: cosa cambia nel tuo approccio a questi due diversi tipi di produzioni?
Tra cinema e serie tv in realtà ormai cambia poco, se non che le serie hanno una durata maggiore e quindi il tuo lavoro sul personaggio perdura nel tempo, cioè lavori in maniera più prolungata nel tempo su quel personaggio. Forse questa è l’unica cosa diversa, in qualche modo, perché, in realtà, per noi è la stessa cosa, lo stesso tipo di approccio al nostro lavoro. Questa distinzione non si legge neanche all’interno di un set cinematografico, o di un set di una serie, è tutto talmente identico che per me, ormai, non fa più nessuna differenza.
Ricordi qual è stata la scintilla – un evento, un’esperienza, o magari una persona – che ti ha fatto innamorare del cinema e capire che sarebbe diventato il tuo lavoro?
Ricordo che la passione per il cinema era esplosa che ero proprio ragazzino e poi, durante gli anni dell’adolescenza, si è sempre più fortificata per il resto della vita, diciamo. È dalle scuole medie e superiori che il cinema è diventato una costante presenza nella mia vita. Non ricordo proprio una scintilla, mi ricordo che amavo ed amo molto le storie, quindi ho sempre nutrito l’esigenza di raccontarle.
“AMAVO E AMO MOLTO LE STORIE, QUINDI HO SEMPRE NUTRITO L’ESIGENZA DI RACCONTARLE”.
L’ultima serie tv che hai guardato che ti è piaciuta davvero tanto?
L’ultima serie che ho visto e che mi è piaciuta è una serie turca, il titolo è “Ethos”, il titolo originale credo sia “Bir Başkadır” e il regista è Berkun Oya: è una serie molto bella, scritta benissimo e, soprattutto, interpretata benissimo. È l’ultima serie che ho visto e che ho amato molto, e anche là si indaga la natura del cuore, dei sentimenti e della ragione.
Il primo dvd che hai comprato?
Il primo dvd che ho comprato è stato “Bagdad Café”, anche se è un film che avevo anche in VHS e, per paura, siccome si stava man mano rovinando il nastro, mi ricordo che la prima premura che ho avuto è stata di comprare “Bagdad Café”.
Il personaggio del cinema o della tv che vorresti come amico?
Un personaggio, tra i tanti, che avrei avuto il piacere di incontrare e di conoscere, sarebbe stato sicuramente Massimo Troisi.
La collaborazione dei tuoi sogni?
Spero di poter lavorare con Alfredo Castro, che è un attore cileno, mentre forse, un regista è Werner Herzog.
Quali storie sogni di raccontare?
Il mio sogno è quello di raccontare storie che possano spingersi sempre oltre nella sperimentazione drammaturgica, che possano raccontare senza fronzoli, senza edulcorazioni, ma con sincerità, con crudezza, tutte le sfaccettature dell’animo umano, della sua natura, tutte le complicazioni e le tribolazioni che ci appartengono, l’indagine sulle nostre fragilità, sulle nostre paure, sui nostri desideri, sulla paura di essere così esposti al caso. Secondo me, continuare a chiedersi queste cose è quello che poi l’umanità fa sempre attraverso la drammaturgia, la letteratura, e credo che continuare questa indagine sia una cosa molto interessante, perché poi l’indagine cambia a seconda delle epoche, quindi ogni epoca riflette in modo diverso. Spero di raccontare, in questo senso, storie attuali, contemporanee.
“…l’indagine sulle nostre fragilità, sulle nostre paure, sui nostri desideri, sulla paura di essere così esposti al caso.”
Il tuo must-have sul set?
In realtà, non ho queste fisse o rituali di questo tipo.
Un epic fail sul set?
Un epic fail… è una cosa abbastanza umiliante da dire, quindi non lo so… [ride]
Hai paura di…?
Ho paura della malattia e della morte, e basta, ho solo queste due paure.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Mi è molto difficile individuare qualcosa di coraggioso, un atto di coraggio, tra quelli che io possa aver compiuto, nel senso che riesco più facilmente a individuare, invece, gli errori, ma mi è molto difficile, se non impossibile, stabilire un qualcosa di coraggioso che possa rivendicare facilmente, fatta eccezione per bravate stupide da ragazzino [ride]. A parte quelle, il resto si suddivide tra momenti in cui mi sarei picchiato da solo per le sciocchezze commesse e altri momenti in cui mi tollero.
Qual è la tua isola felice?
La mia isola felice è un luogo che non posso rivelare, perché altrimenti diverrebbe di dominio pubblico e deve rimanere, invece, segreto ai pochi che lo conoscono. Posso soltanto dire che è un posto in particolare, circondato dai boschi dei Castelli Romani, che sono questi alti colli che abbiamo vicino Roma, e sono le zone dove io vivo da sempre; e sono un po’ lo scenario di tutta la mia vita, su cui si ambienta un po’ tutta la mia vita e paesaggi a cui sono molto legato, ovviamente.
Quindi, quando ho la necessità di respirare e di non pensare, e di focalizzare tutta l’attenzione sulle foglie, sulle farfalle, sui fiori, sul sentiero, per non perdermi, ogni volta che sento il bisogno di fare queste cose è lì che vado.
L’ultima cosa che hai scoperto di te stesso?
L’ultima cosa che ho capito è che nel tempo ho immaginato sempre di migliorare me stesso, nel corso della vita, col progredire della vita e degli eventi; scopro, invece, in maniera sconcertante, come poi, ad affrontare gli eventi della vita, ci sia sempre un quindicenne col suo sogno del cinema in tasca, con quella stessa propensione alla distrazione, all’immaginazione, qualcuno ancora troppo simile a quel quindicenne. L’essere rimasto, per certi aspetti, così uguale ad allora, un po’ mi provoca sconcerto.
“UN QUINDICENNE COL SUO SOGNO DEL CINEMA IN TASCA”
Progetti per il futuro?
Io non riesco ad immaginare il mio futuro, non ci penso più da tanti anni, non mi ricordo da quanto tempo, ma so che ho smesso di pensarci, perché tutte le volte che mi chiedono questa cosa penso che poi, in effetti, non ci penso mai al mio futuro, al mio personale futuro non ci penso mai. Anche perché non voglio programmare niente, vorrei lasciar accadere le cose, soprattutto perché, per il mio lavoro, entra in ballo il fato, il destino, quindi cercare di progettare significherebbe imporre la propria volontà al corso della vita ed è una cosa impossibile, perché ci si ritrova sempre a fallire miserabilmente.
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