Era circa il 1966 quando James Brown, in uno studio di registrazione di New York, cantava parole che, di lì a poco, sarebbero diventate iconiche e rappresentative di una realtà negli anni contestata con un fervore direttamente proporzionale all’evolversi dei costumi… Insomma, James Brown non lo sapeva, ma incidendo la vocalizzazione e melodizzazione di un suo apparentemente semplice pensiero, rantolando in quel microfono “This is a man’s world, this is a man’s world / But it wouldn’t be nothing, nothing without a woman or a girl” (“Mondo di uomini / Questo mondo di uomini / Ma non sarebbe niente / Niente se non ci fosse una donna”, come canta Lucio Dalla su traduzione di Sergio Bardotti e Luigi Tenco), stava innescando, nel suo piccolo, una rivoluzione che sarebbe davvero esplosa, o meglio, avrebbe ottenuto risultati concreti solo qualche decennio più tardi. La canzone prosegue con osservazioni su come gli uomini abbiano sulle spalle tante responsabilità, essendo loro il compito di “costruire macchine, treni, barche e far circolare il denaro”, e così via, ma senza donne e senza i figli che loro partoriscono, l’esistenza dell’uomo non varrebbe niente. Un testo forse discutibile sotto vari aspetti, ma pur sempre una dichiarazione d’amore per il genere femminile e confessione di una verità a cui il genere maschile non ha mai ceduto (non cede mai) con tanta facilità: l’indispensabilità della donna nel sistema mondo. Oggi, la situazione è relativamente diversa o, quantomeno, è un work-in-progress: anche le donne costruiscono macchine, treni, barche, fanno circolare il denaro, eccetera, ed è contemplabile – purtroppo ancora con qualche riserva – l’idea che si possa metter su famiglia anche senza la procreazione. La donna del 21esimo secolo svolge sempre più fieramente e regolarmente i ruoli che fino a qualche decennio fa erano considerati esclusive maschili, e la categorizzazione “cose da uomini” e “cose da donne” è sempre più stigmatizzata nella nostra realtà e linguaggio.
La prestigiosa postazione dietro la macchina da presa – come qualunque ruolo che comporti, in qualche modo, avere potere decisionale, essere al timone, tenere le redini di un sistema, una missione, un progetto – fino a qualche tempo fa era tendenzialmente occupata da uomini: anche se la prima donna regista fu Alice Guy-Blaché, che tra il 1896 e il 1920 diresse più di 700 film, la validità della regia femminile nel cinema e nella televisione ha iniziato ad essere riconosciuta e innalzata al livello del corrispondente maschile probabilmente solo uno o due decenni fa, con il boom di film e serie diretti da donne, pluripremiati sia nei circuiti dei festival sia in cerimonie di fama internazionale come Oscar, Golden Globe, Critics’ Choice Awards, esploso in tempi piuttosto recenti.
Team Oscar 2021
Boom dei boom, gli Oscar di quest’anno, i 93esimi, edizione con un altissimo numero di donne candidate (più degli uomini) e vincitrici. Ai cinefili, o a chiunque abbia seguito la stagione dei premi 2021, suoneranno di sicuro familiari i nomi: Chloé Zhao, Emerald Fennell, Regina King. No, non sono principesse Disney, né proiezioni oniriche delle menti contorte dei fratelli Grimm, per quanto i loro nomi suonino effettivamente fiabeschi: Chloé, Emerald e Regina sono registe di immenso talento, con un menu succulento di progetti in cantiere.
Chloé Zhao è la seconda donna (dopo Katherine Bigelow nel 2010) e la prima donna asiatica ad aver vinto l’Oscar per la miglior regia con il suo ultimo capolavoro, “Nomadland”. Terzo lungometraggio dopo “Songs My Brothers Taught Me” (2015) e “The Rider – Il sogno di un cowboy” (2017), vincitore di due premi Oscar, due Golden Globe, due BAFTA, il Leone d’oro al miglior film alla Mostra del Cinema di Venezia, “Nomadland” si è rivelato l’augurio ideale per la sua prossima, promettente mossa: l’ingresso nel mondo dei Blockbuster e, nello specifico, il debutto nell’universo Marvel. Chloé è alla regia di una storia di supereroi immortali, “Eternals”, in uscita a novembre di quest’anno, e ha in programma una rivisitazione in chiave western/sci-fi della storia di Dracula: un’artista tanto brillante quanto imprevedibile e, per questo, vale la pena seguirla drizzando al massimo le antenne.
Ricordate Camilla Shand? Non la vera Lady Parker-Bowles, moglie del Principe di Galles, ma la giovane Camilla della terza e quarta stagione di “The Crown” … Ebbene, lei è Emerald Fennell, quest’anno vincitrice dell’Oscar alla Miglior sceneggiatura originale per “Una donna promettente”, film che non solo ha scritto, ma anche diretto, e che costituisce il suo debutto alla regia. Con il bottino di un Oscar, due BAFTA, un Critics’ Choice Award, un Writers Guild Award e innumerevoli candidature ad altri premi prestigiosi, “Una donna promettente” è un prodotto discusso e che fa discutere, una storia di affermazione al femminile, uno spiazzante racconto di vendetta girato in soli 23 giorni, con Emerald in piena gravidanza. “Mi hanno detto di scrivere un discorso, ma io non l’ho fatto perché non pensavo che sarebbe mai successa una cosa simile”, ha confessato Emerald sul podio della Union Station di Los Angeles, con la prestigiosa statuetta dorata in mano: eppure, è successo, e se ne parlerà per molto.
Regina King è un’attrice premio Oscar: nel 2019 ha vinto la statuetta per la Miglior attrice non protagonista con “Se la strada potesse parlare” di Barry Jenkins, e un Golden Globe per lo stesso ruolo. Nel 2020, dopo aver diretto numerosi episodi di serie tv tra cui “Shameless”, “This is Us”, “Being Mary Jane”, ha debuttato alla regia di un lungometraggio con “Quella notte a Miami…”, plurinominato per l’assegnazione dei premi più prestigiosi dell’Awards Season 2021. Proiettato in anteprima fuori concorso alla 77a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, diventando il primo film nella storia diretto da una donna afroamericana ad essere presentato al festival, il lavoro di Regina ha, successivamente, raccolto solo conferme dell’accoglienza positiva con cui ha esordito, nella forma di tre nomination agli Oscar, tre ai Golden Globe, due ai BAFTA, sei ai Critics’ Choice Awards, e la conquista del premio Robert Altman agli Independent Spirit Awards. Adesso, dopo il successo di critica e pubblico di “Quella notte a Miami…”, la regista è a lavoro su un nuovo (completamente diverso) progetto: “Bitter Root”, adattamento dell’omonima serie a fumetti targata Image Comics. Una Regina, di nome e di fatto.
Doppiette vincenti
Tra chi, nata attrice, sbarca fuori dalla comfort zone, e chi vi si immerge come primo e unico esperimento, il firmamento della regia al femminile espone stelle più brillanti che mai in quest’ultimo decennio.
Una di queste è indiscutibilmente Greta Gerwig, la stravagante tuttofare di “Lo stravagante mondo di Greenberg” (2010), l’“infidanzabile” protagonista di “Frances Ha” (2012), l’artista dai capelli rosso magenta di “Le donne della mia vita” (2016); il suo lancio nel mondo della regia e incoraggiante trampolino per progetti futuri è “Lady Bird”, film d’esordio, la storia di formazione plurinominata dell’Awards Season 2018 con, prime fra tutti, cinque candidature agli Oscar per Miglior film, Miglior regista, Miglior sceneggiatura, Miglior attrice protagonista a Saoirse Ronan, Miglior attrice non protagonista a Laurie Metcalf. Trionfante, carica del supporto di critica e pubblico, a distanza di un anno Greta ritorna dietro la macchina da presa per dirigere l’adattamento di “Piccole Donne”. Anche questo esperimento è un gran successo; settimo adattamento del romanzo di Louisa May Alcott, si distingue per originalità di rielaborazione e interpretazioni super elogiate di un cast corale composto da Saorise Ronan, Emma Watson, Florence Pugh, Eliza Scanlen, Timothée Chalamet, James Norton, Meryl Streep, Louis Garrel: queste le componenti che hanno regalato al secondo (e per ora ultimo) esperimento di Greta-regista sei nomination agli Oscar, due ai Golden Globe, cinque ai BAFTA e nove ai Critics’ Choice Awards, con una vittoria per la miglior sceneggiatura originale.
Gavetta interessante, e ispirazione per chiunque voglia farsi strada nell’industria del cinema, è quella di Olivia Wilde. Nota ai più come la schiva Tredici di “Dr. House – Medical Division” o, andando ancora più indietro nel tempo, Alex Kelly del teen drama “The O.C.”, Olivia Wilde ha esordito come assistente casting director per poi farsi strada nel business e guadagnarsi, con gran talento e versatilità, ruoli di rilievo in vari film e serie TV. Nel 2019, Olivia debutta alla regia (dopo aver tastato il terreno con il celebre video di “Dark Necessities” dei Red Hot Chili Peppers che, sì, ha diretto lei nel 2016!) con la commedia “La rivincita delle sfigate”, la quale non solo ha ricevuto candidature a vari premi tra cui Golden Globe, BAFTA, Critics’ Choice, Gotham e Independent Spirit Awards 2020 – per il Miglior regista rivelazione, la Miglior attrice a Beanie Feldstein, la Miglior sceneggiatura originale, il Miglior film commedia e il Miglior film d’esordio – ma è anche stata inclusa da Barack Obama in persona nella sua lista di film preferiti del 2019: un onore più grande a me non viene in mente. Lanciata dal successo in questo campo inesplorato, Olivia sta attualmente lavorando alla post-produzione del suo secondo esperimento alla regia, il thriller distopico “Don’t Worry Darling”, in uscita a fine anno: il film è un mistero, letteralmente, perché finora non ne è trapelato nulla se non foto paparazzate di Florence Pugh, Harry Styles, Chris Pine e Olivia stessa sul set californiano, con tanto di messe in piega anni ’50 e scorci di pomposi costumi d’epoca sotto vestaglie e impermeabili da off-camera – ma la fiducia è tanta e ci aspettiamo grandi cose.
Partire dal basso per arrivare in vetta è una tecnica che ha funzionato anche per Gia Coppola, nipote di Francis Ford Coppola. Il suo primo approccio diretto all’industria del cinema avviene sul set della zia Sofia, per cui lavora come assistente nel reparto costumi del film “Somewhere” (2010). In precedenza, ha avuto qualche fugace esperienza infantile sui set del nonno, che l’ha diretta in “New York Stories” (1989) e ne “Il padrino – Parte III” (1990). Cresciuta a pane e cinema, Gia segue la scia dei suoi illustri familiari e, nel 2013, debutta dietro la macchina da presa con il lungometraggio “Palo Alto”, con James Franco, Emma Roberts e Nat Wolff tra i protagonisti, presentato in concorso per il Miglior film alla Mostra del cinema di Venezia nella categoria Orizzonti; la stessa fortunata sorte è toccata alla sua seconda opera da regista, “Mainstream”, in competizione nell’edizione 2020 del festival, interpretato da Andrew Garfield, Maya Hawke e Jason Schwartzman. Il secondo lungometraggio di Gia tocca temi delicati e attuali, in particolare le luci e ombre del mondo tecnologico contemporaneo e della popolarità degli influencer: un film che preannuncia scossoni nelle coscienze di molti.
David Beckham e Bruce Springsteen: cos’hanno in comune il paladino del calcio e il dio del rock? L’antico stereotipo piazzerebbe calciatori e rockettari tra le “cose da uomini”, ma indovinate chi ha “dedicato” a Becks e al Boss un film a testa? Esatto, non un uomo. Gurinder Chadha nasce reporter per la BBC Radio e cresce regista di alcuni tra i film di maggior successo nel cinema britannico e internazionale, primo fra tutti “Sognando Beckham” del 2002. Gurinder non solo ha costruito un trampolino di lancio per alcuni tra gli attori più affermati del momento, come Keira Knightley e Jonathan Rhys-Meyers, ma ha anche diretto il primo lungometraggio occidentale trasmesso dalla televisione nordcoreana: se non è questo un traguardo!
Il 2019 è di nuovo l’anno di Gurinder, questa volta alla regia di un film tutto incentrato sulla musica, quella di Bruce: “Blinded by the Light – Travolto dalla musica” viene presentato al Sundance Film Festival e vince il premio per il Miglior film al Giffoni Film Festival, con una colonna sonora tutta composta dalle canzoni di Springsteen, compreso un inedito scritto dal Boss per “Harry Potter e la pietra filosofale” (poi escluso su richiesta della Rowling). Ah, tra un film e l’altro Gurinder ha anche guadagnato una medagliuccia… giusto l’Ordine dell’Impero Britannico per i servizi resi all’industria cinematografica inglese.
Ava DuVernay, aka la prima donna afroamericana a ricevere una nomination ai Golden Globe e Critics’ Choice Award come miglior regista: qui parliamo di roba che scotta, parliamo di pionieri. Al suo periodo da stagista per CBS news e collaborazioni varie con la Fox e la Savoy Pictures, seguono anni di protagonismo in ala regia, con picchi di successo raggiunti durante la award season 2015. Quello è l’anno di “Selma – La strada per la libertà”, il primo film diretto da Ava ad ottenere molteplici candidature e vittorie di premi prestigiosi, tra cui un Oscar alla Miglior canzone e la nomination all’Oscar per il Miglior film, quattro candidature ai Golden Globe, tra cui quella per la Miglior regia, e cinque nomination ai Critics’ Choice e Independent Spirit Awards. La rievocazione della vita di Martin Luther King e delle marce del ’65 da Selma a Montgomery hanno colpito nel segno, tanto quanto il suo secondo grande successo, una miniserie questa volta. Creata e diretta da Ava per Netflix, “When They See Us” racconta gli eventi realmente accaduti nell’89 legati all’aggressione di una jogger a Central Park e ai cinque giovani – quattro neri e un ispanico – condannati senza alcuna prova della loro colpevolezza. La serie ha ricevuto 11 candidature agli Emmy 2019, vincendone uno per il Miglior attore a Jharrel Jerome, oltre ad essere tra i prodotti più consigliati per l’educazione all’antirazzismo, grazie all’onestà di una narrazione pensata per aprire occhi e menti.
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Possiamo affermare con sollievo e orgoglio che certi pregiudizi opprimenti e discriminazioni ostacolanti ce li stiamo lasciando alle spalle, e che di registe navigate, veterane della “guerra dei sessi”, ne abbiamo, oggi, in abbondanza.
In cima alla lista, Sofia Coppola, tra le più prolifiche registe del mondo del cinema, figlia di Francis, la prima donna statunitense e la terza in assoluto ad ottenere, nel 2004, una candidatura all’Oscar al miglior regista per uno dei suoi film più famosi e premiati, “Lost in Translation – L’amore tradotto” (film con il quale si aggiudica l’Oscar, il Golden Globe e l’Independent Spirit Award per la Miglior sceneggiatura originale). Prima di ritrovarsi protagonista della Storia, Sofia tasta il terreno della recitazione interpretando ruoli minori in ben sette film di suo padre; recitare, tuttavia, non è la sua aspirazione: come lei stessa dichiara spesso, è solo occupando il posto dietro la macchina da presa che riesce a conciliare tutte le sue passioni – moda, fotografia, musica, design, cinema – senza dover rinunciare a nessuna. Con gli Oscar 2004 come spartiacque, i suoi lavori di punta sono l’esordio alla regia, “Il giardino delle vergini suicide”, capolavoro del 1999 sulle conseguenze dell’iperprotettività genitoriale, con una giovanissima Kirsten Dunst con la quale, nel 2006, si ricongiunge per raccontare sul grande schermo la storia in chiave pop della regina di Francia in “Marie Antoinette”; il 2010 è l’anno di “Somewhere”, con Elle Fanning e Stephen Dorff, vincitore del Leone d’oro al miglior film alla Mostra del cinema di Venezia, seguito da “The Bling Ring” nel 2013, resoconto della storia vera di una banda di giovani ladri di Los Angeles che compì furti a destra e a manca, soprattutto in case di celebrità. I suoi ultimi film risalgono al 2017 e 2020, “L’inganno”, che premia Sofia con il Prix de la mise en scène (alla miglior regia) al Festival di Cannes 2017, e “On the Rocks”, tra i protagonisti della più recente stagione dei premi, con l’attore Bill Murrey candidato ai Golden Globe e ai Critics’ Choice Awards. Artista visibilmente versatile, le sue conoscenze in ambito estetico e musicale sono proprio la chicca che rende i suoi film stilisticamente unici, riservandole un posto tra i registi del cosiddetto nuovo cinema statunitense al fianco di Spike Jonze, Wes Anderson, Paul Thomas Anderson, Charlie Kaufman e Richard Linklater.
Tra le registe più conosciute al mondo, forse grazie alcune interferenze commerciali tra i suoi progetti tendenzialmente concettuali, legati alla sua formazione da fotografa, c’è la britannica Sam Taylor-Johnson. L’interferenza commerciale numero uno è il suo adattamento per lo schermo del bestseller “Cinquanta sfumature di grigio” nel 2015, con Dakota Johnson e Jamie Dornan, preceduto temporalmente dalla rivisitazione cinematografica dell’infanzia e adolescenza di John Lennon in “Nowhere Boy” (2009), interpretato dall’allora futuro marito Aaron Taylor-Johnson; nel 2018, Sam torna a dirigere Aaron in “A Million Little Pieces”, adattamento del romanzo semi autobiografico di James Fray “In un milione di piccoli pezzi” sulla sua riabilitazione da alcolismo e tossicodipendenza. L’ultimo progetto cinematografico della regista, ora disponibile su Amazon Prime Video, è la miniserie antologica “Solos”, costituita da sette episodi, di cui due diretti da lei, incentrati sul significato dell’essere umani e dell’umano bisogno di connessione.
Per quanto le etichette siano ormai (quasi) superate, se ne avessi una del genere, io me la terrei stretta: hashtag “la prima donna della storia a vincere un Emmy e un Directors Guild Award per la regia di una serie drammatica”. La serie in questione è la pluripremiata, regina delle distopie “The Handmaid’s Tale”; la regista “etichettata” è l’americana Reed Morano. Direttore della fotografia di film e serie di successo tra cui “Frozen River – Fiume di ghiaccio” (2008), “Giovani ribelli – Kill Your Darlings” (2013) e “Vinyl” (2016), Reed debutta alla regia nel 2015 con il dramma “Meadowland”, per poi dirigere ed entrare nella storia con i primi tre episodi della prima stagione di “The Handmaid’s Tale” nel 2017; il ritorno dietro la macchina da presa avviene nel 2018, con il suo primo esperimento fantascientifico interpretato da Peter Dinklage e Elle Fanning, “I Think We’re Alone Now”, seguito nel 2020 dal suo terzo e attualmente ultimo lungometraggio, “The Rhythm Section”, thriller tratto dal romanzo omonimo di Mark Burnell, con Jude Law, Blake Lively e Sterling K. Brown.
La danese Susanne Bier è colei che ha stregato il mercato internazionale, a partire dal suo “Dopo il matrimonio” nel 2006, per finire con “The Undoing – Le verità non dette” nel 2020. Il primo è il suo biglietto d’ingresso nell’industria cinematografica internazionale, con il quale Susanne si è aggiudicata una candidatura agli Oscar 2007 come Miglior film straniero, statuetta allora persa per un soffio, ma conquistata nel 2011 con “In un mondo migliore”, insieme al Golden Globe per la stessa categoria. La sua fama è diventata ancora più internazionale in seguito alla serie britannica “The Night Manager” con Tom Hiddleston, Hugh Laurie, Olivia Colman, Tom Hollander, e Elizabeth Debicki, con cui Susan ha vinto un Emmy per la Miglior regia; nel 2018 ha diretto Sandra Bullock che combatte un’epidemia (letteralmente) bendata nel post-apocalittico “Bird Box” e, poco dopo, la amatissima serie americana “The Undoing”, lo show più visto su HBO nel 2020, interpretato da Hugh Grant, Nicole Kidman, Lily Rabe e Matilda De Angelis.
Di recente fama internazionale
Più il panorama si fa fitto e l’aria calma e invitante, più le voci escono allo scoperto: un meccanismo di causa-effetto valido in tanti ambiti, compreso il mondo dello spettacolo, con porte che si aprono, una dopo l’altra, a effetto domino, offrendo accesso libero a chi prima avrebbe dovuto forzarne la serratura. Fuor di metafora, giorno dopo giorno scopriamo nuovi talenti nel campo della regia al femminile, da artiste alle prime armi a registe magari già prolifiche nel loro paese d’origine, ma sbarcate in acque internazionali solo in tempi relativamente recenti.
Céline Sciamma è una gemma d’acque francesi, salita a galla con il successo globale del suo film “Ritratto di una giovane in fiamme”, con cui si è aggiudicata il Prix du scénario e la Queer Palm al Festival di Cannes 2019, e la candidatura per il Miglior film straniero ai Golden Globe, BAFTA e Independent Spirit Awards 2020. Attivista e femminista, Céline è membro fondatore del movimento 50/50 en 2020, nato nel 2018 con lo scopo di ottenere il 50% di potere femminile nel cinema francese entro l’anno 2020 attraverso un monitoraggio delle disuguaglianze nell’industria cinematografica e la denuncia della disparità di retribuzione tra uomini e donne nei vari ruoli del settore. È con scopi simili che Céline realizza i suoi film: allargare gli orizzonti, sensibilizzare sul tema della limitatezza dello sguardo maschile, e raccontare storie che elevino quello femminile.
Il Festival di Cannes ha rappresentato un importante trampolino di lancio nel mare del mondo anche per l’italiana Alice Rohrwacher, regista e sceneggiatrice che, nel 2014, vince il Grand Prix Speciale della Giuria per il suo lungometraggio “Le meraviglie”, per poi ritornare sul podio nel 2018 con il Prix du scénario per l’acclamatissimo “Lazzaro Felice”. Il cinema di Alice è un cinema libero, di una libertà che respiriamo nelle atmosfere fiabesche che crea, come la storia di San Francesco che incontra quella del libro per bambini di Chiara Frugoni in “Lazzaro Felice”, o gli episodi “Il bacio” e “Il tradimento” della seconda stagione di “L’amica geniale”, la serie tratta dai romanzi di Elena Ferrante trasmessa nel 2020 su Rai1 e HBO.
Un’altra donna con la cinepresa da tener d’occhio è la norvegese Mona Fastvold, fresca del successo del suo film “The World to Come”, adattamento del racconto breve di Jim Shepard: interpretato da Katherine Waterson e Vanessa Kirby, il film è stato presentato in concorso alla 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha vinto il Queer Lion Award, il premio al miglior film con tematiche omosessuali. Veterana del Festival di Venezia, Mona c’era già stata nel 2015, con il dramma storico “The Childhood of a Leader – L’infanzia di un capo”, e nel 2018 con “Vox Lux”, tuttavia in altre vesti, quelle di sceneggiatrice.
Dall’altra parte del globo, puntiamo i riflettori sull’americana Dee Rees, regista e sceneggiatrice di Nashville che ha conosciuto fama e gloria nel 2017, con l’acclamatissimo “Mudbound”. Con la regia dell’adattamento del romanzo “Fiori nel fango” di Hillary Jordan – la storia della vita di due famiglie del Mississippi, una nera e una bianca, tra pregiudizi razziali e Seconda Guerra Mondiale –, Dee si aggiudica numerosi riconoscimenti, tra cui tre nomination ai Golden Globe, quattro ai Critics’ Choice Awards, e quattro ai Premi Oscar 2018, diventando la prima donna afroamericana a ottenere una candidatura nella categoria Miglior sceneggiatura non originale. Nel 2020, esce il suo nuovo esperimento alla regia, “Il suo ultimo desiderio”, adattamento del romanzo omonimo di Joan Didion, interpretato da Anne Hathaway, Ben Affleck e Willem Dafoe.