Fashion Revolution ha da poco diffuso il Fashion Transparency Index 2021, il report annuale che analizza le pratiche trasparenti di 250 tra i più grandi marchi e rivenditori di moda del mondo: tenendo conto di elementi quali la tracciabilità nella supply chain, le condizioni di lavoro dei dipendenti, i cambiamenti apportati in seguito all’emergenza Covid-19 e l’attenzione alla crisi climatica mondiale, si è stimato che i marchi hanno raggiunto un punteggio medio di trasparenza del 23%, e che a guidare la classifica siano OVS, H&M, Timberland e The North Face.
Ancora troppo poco, ancora troppe informazioni mancanti (o nascoste volontariamente), ancora troppa poco attenzione rispetto all’impatto dell’industria della moda sull’ambiente, sulle persone, sulla vita in generale: per quanto sarebbe scorretto non ammettere che si stanno facendo dei passi avanti e che sempre più consumatori prestino attenzione a fattori quali la sostenibilità e l’eticità di quello che comprano, ancora non basta. Se i marchi non diffondono le informazioni sulle loro pratiche e politiche, come può chi acquista da loro fidarsi delle dichiarazioni che rilasciano? Dove sono le prove a supporto? È semplice greenwashing, o paura dell’impatto che queste potrebbero avere sui consumatori?
Già, l’impatto. Questa parola ricca di significato e sfumature che più di tutte ci dovrebbe aprire gli occhi sul nostro stile di vita: che sia impatto ambientale, umano, sociale o economico, ogni cosa che compriamo ha il suo peso. Ogni abito che indossiamo ha la sua importanza in questo sistema internazionale dove il profitto sembra aver preso il sopravvento sui valori.
L’inizio di questo articolo non voleva essere così drammatico ma ahimè, sono i fatti purtroppo a confermare che la situazione è tutto fuorché positiva: si festeggiano i piccoli traguardi e le battaglie portate a compimento, ma quando si potrà celebrare in toto la bellezza di una moda sostenibile e trasparente, quella più vera e che dovrebbe essere più semplice nel suo rispettare degli elementi fondamentali quali l’ambiente e i lavoratori? La risposta non sembra essere all’orizzonte, eppure ci è rimasto poco tempo. Proprio la scorsa settimana, la terra ha raggiunto il suo Overshoot Day, e da quel giorno, siamo in debito con il nostro pianeta per le risorse utilizzate. Ben 5 mesi prima della fine dell’anno.
Ecco perché è importante ricordare che, ognuno, nel suo piccolo, fa la differenza: la fa nel parlare con gli amici e famiglia dei cambiamenti che si dovrebbero adottare per risparmiare acqua ad esempio, lo fa scegliendo di non mangiare carne per uno o più giorni alla settimana, lo fa riciclando al meglio i rifiuti e informandosi sulle pratiche e politiche adottate dalle aziende, di ogni settore, per essere più sostenibili. E lo fa scegliendo di indossare capi creati nell’assoluta trasparenza, con materiali eco-friendly e prodotti in quantità ragionevoli. Lo fa, in altre parole, optando per un abito slow fashion invece di uno prodotto dalle grandi catene, quelle che ogni settimana lanciano una nuova collezione rendendo insostenibile il processo produttivo del settore moda e facendo credere al consumatore che, se non compra tanto e spesso, in qualche modo potrebbe risentirne la sua immagine, il suo prestigio addirittura.
Che in questo mondo già “folle” di suo per i consumi e lo spreco prodotti ogni giorno, sembra serpeggiare una mania del “troppo”, che è meglio avere una camicia uguale identica ad un’altra in più che non averla, che si devono possedere le scarpe ultimo modello per non restare indietro e che non si può ammettere di possedere un capo da più di una stagione senza essere squadrati. È una mentalità malsana, ne siamo consapevoli? La moda deve aiutarci a comunicare chi siamo, ma deve farlo rispettando dei valori e dei principi che, a loro volta, dimostrano un ulteriore tratto della nostra personalità: quello che crede che il cambiamento sia possibile, che questo mondo non sia ancora perduto e che acquistare poco e in modo consapevole sia il modo migliore per fare acquisti. Fidatevi di noi: quel vestito ultimo modello che sembra chiamarvi come una sirena per acquistarlo, domani non sarà più utilizzabile. Ecco perché bisogna puntare su capi senza tempo, che ci fanno sentire a nostro agio e che rispettano determinati standard, rendendoli oltretutto di qualità superiore, quindi che durano a lungo senza stancarci.
Ecco perché bisogna riscoprire, rivalutare e ritornare ad acquistare in modo slow (ad esempio, da App o mercatini di seconda mano, negozi vintage o di artigiani locali e brand che sono totalmente trasparenti nelle loro pratiche e prodotti disponibili), passando oltre alle vetrine del fast fashion con la consapevolezza che stiamo facendo la scelta giusta. Per noi, per gli altri e per il nostro pianeta. Non siete ancora del tutto convinti? Ecco che cosa dovete sapere quando si parla di slow fashion e di fast fashion. Perché, e lo ribadiamo ulteriormente che male non fa, non c’è shopping migliore di quello fatto in modo consapevole. Fidatevi di noi, ancora una volta.
Fast Fashion: Storia & Impatto
Non so voi, ma io ricordo di aver visto bene o male sempre gli stessi abiti nei guardaroba dei miei genitori, e nonni ancor di più: con questo non voglio dire che siano persone trasandate, ma sono state cresciute con la mentalità di fare shopping solo nelle occasioni speciali, che un abito può funzionare per anni senza alcun problema e che, se ci dovesse essere qualche problema, lo si prova a risolvere prima, cucendo e rammendando. Tutto però è cambiato circa 20 anni fa, quando la moda si è fatta più accessibile che mai, il ready-to-wear è diventato dominante e, di conseguenza, gli abiti si sono fatti più economici, i trend più veloci e lo shopping (con relativo ricambio dei vestiti) più frequente, complice anche l’avvento di internet e delle sue possibilità. Tutto troppo bello per essere vero, e nessuno si poneva domande su come fosse possibile sostenere una produzione tale con delle tempistiche così strette.
Questo almeno fino al 2013, quando il crollo del Rana Plaza (Bangladesh) uccise più di 1000 lavoratori sottopagati e sfruttati, aprendo gli occhi al mondo intero su quale fosse l’effettivo costo di una maglietta da 5 euro (la fabbrica produceva vestiti per alcuni dei più grandi brand di fast fashion al mondo). Ecco che cos’è il fast fashion: è un abbigliamento a poco costo e di tendenza che “ruba” le idee dalle passerelle producendo tanto e spesso per assecondare la richiesta dei consumatori, che vogliono essere “alla moda” sempre, continuando a comprare a prezzi vantaggiosi, credendo di fare un affare, quando in realtà è tutto parte di un meccanismo di sovrapproduzione e di consumismo esagerato che ha portato la moda ad essere quella che è davvero: una delle industrie più inquinanti al mondo.
Solitamente, gli abiti e le catene fast fashion si riconoscono perché offrono moltissime opzioni diverse dello stesso look, con una particolare attenzione alle tendenze e disponibili subito dopo essere state viste in tv, sulla passerelle o sul red carpet, realizzate con materiali scadenti, che tendono a rovinarsi nel giro di poco tempo e senza rendere nota alcuna informazione sulla propria supply chain, sulla fabbrica di provenienza, sui lavoratori coinvolti e sulle pratiche adottate, adottando invece la strategia del silenzio o del greenwashing.
Ma, se si produce di più e in meno tempo, questo significa di conseguenza che l’impatto sulle risorse è maggiore: l’utilizzo di tessuti sintetici e scadenti, di elementi chimici dannosi, lo spreco d’acqua pulita, le microfibre rilasciate negli oceani e lo sfruttamento di fonti energetiche non sostenibili (come il carbon fossile) sono alla base dell’inquinamento dell’industria e, di conseguenza, del nostro pianeta. Ma non solo: lo stress ambientale in certe aree è tali da influire anche sulla biodiversità delle specie animali, ponendole a rischio d’estinzione, sia sulla terra che nel mare. Se tocchiamo l’argomento materiali di origine animale poi, è emerso che molti prodotti venduti come “faux fur” o “faux leather” sono in realtà pelliccia o pelle vera, ingannando dunque il consumatore e alimentando il fenomeno delle fattorie dove si allevano animali da pelliccia.
E, come se non bastasse, i rifiuti generati dalla produzione e dal ricambio costante creano uno spreco tessile impressionante: basti pensare che, solo in Australia, più di 500 milioni di kili finiscono nelle discariche ogni anno. Per non parlare poi dei lavoratori, spesso appartenenti al terzo mondo, costretti a lavorare in condizioni pericolose, sottopagati e nella più totale indifferenza verso i diritti umani per produrre le magliette che domani saranno disponibili sugli scaffali e che non saranno più “attuali” il giorno dopo.
In quest’ottica, il consumatore si ritrova a sua volta coinvolta in un ciclo di “comprare e buttare via” continuamente i capi del proprio armadio che sarebbe quasi innaturale ad un certo punto non lasciarsi coinvolgere da questa frenesia globale, alla portata di tutti e in modo semplice e immediato soprattutto. Una tendenza che è ormai uno stile di vita, purtroppo.
Come dice la pioniera della moda sostenibile Vivienne Westwood, quel che bisogna fare è invertire la rotta e diffondere una nuova mentalità fondata sul concetto di “comprare meno e meglio”. Uno slogan al quale, fortunatamente, sempre più persone prestano attenzione di recente, portando anche i brand di conseguenza ad adattarsi a queste nuove necessità che altro non sono che quelle vere ed essenziali. Riciclare, rammendare, donare, scegliere capi di seconda mano o da marchi sostenibili: basta “così poco” per portare ad un cambiamento così grande, un cambiamento che stiamo iniziando a vedere (soprattutto nelle nuove generazioni) e che può portare ad un consumo più razionale, etico, inclusivo e giusto, fondato su un concetto che è un vero e proprio stile di vita, o meglio, di shopping: quello dello slow fashion.
Slow Fashion: Quando la Sostenibilità è di Moda
Una moda che segue dei tempi di produzione sostenibili, rispettando i lavoratori e offrendo capi senza tempo e senza tendenza di riferimento soprattutto: questo il concetto alla base dello slow fashion, che prevede una cultura consapevole e un approccio ponderato a quello che si compra. Prevede, in altre parole, un consumatore che sa quello che sta andando ad acquistare perché il brand è trasparente sulle politiche adottate, che non comprende materiali tossici o sintetici e che rispetta gli animali, le persone e l’ambiente in generale.
Sono le stesse linee guida alla base della sostenibilità e dell’eticità, ed è per questo che rappresenta l’unica moda possibile se si vuole salvaguardare il pianeta e le sue risorse riducendo il consumo e la produzione, seguendo l’altrettanto importante movimento dello slow food. Il fenomeno è nato pochi anni dopo il fast fashion in risposta proprio a questa modalità di ricambio di tendenze e abbigliamento esagerata, evidenziando la necessità di una moda lenta, che segue una filosofia rispettosa di tutti gli elementi che la compongono non solo per la generazione attuale, ma anche e soprattutto per quelle future, per non limitare le loro possibilità.
Si tratta di un approccio che riporta in auge anche certi comportamenti oggi considerati “old” come realizzare abiti utilizzando solo le risorse locali, puntando molto su capi che sono degli investimenti senza tempo e rispolverando tutte quelle pratiche che permettono di aggiustare o modificare qualcosa in caso di rottura. È una modalità che prevede il rispetto per il luogo, le persone e la cultura che la indossano, facendo della produzione limitata un valore aggiunto. Inoltre, negli ultimi tempi è stata enfatizzata dalle numerose possibilità di acquistare in negozi vintage o di seconda mano, dove i capi e gli accessori di un tempo acquistano nuova vita e rendono lo stile personale ancora più unico, che non segue dunque le tendenze imposte dalle grandi catene, mettendo in risalto la propria personalità.
È importante dunque, quando si acquista qualcosa, scegliere consapevolmente dove si fa shopping e chiedersi se ci serve davvero qualcosa di nuovo o se possiamo riutilizzare, magari per mezzo di abbinamenti creativi, qualcosa che abbiamo già. Se si compra meno e meglio, si può inoltre investire su capi realizzati con tessuti di maggior qualità e prestigio che sicuramente avranno una vita più lunga, proprio perché spesso accostati al concetto di “senza tempo” piuttosto che di “trend”.
Se compriamo qualcosa di nuovo perché ci serve effettivamente, assicuriamoci del modo in cui sia stato prodotto, dando maggiore credito quando possibile ad artigiani o marchi locali e adottando tutte quelle pratiche tipiche dell’economia circolare che fanno durare un capo più a lungo. Si tratta di gesti che tutti possono compiere, visto anche il recente aumento di informazioni relative alla sostenibilità, sottolineando come il cambiamento stia prendendo piede, piano piano, e che tutti possono beneficiare dei suoi vantaggi, a cominciare proprio dall’ambiente.