In occasione dell’uscita di “Old Henry”, l’ultima opera da regista di Potsy Ponciroli, abbiamo fatto due chiacchiere con il “cattivo” del film, Scott Haze. In un’intervista sul lungomare in piena golden hour, tra elogi all’Italia e aneddoti dai set, Scott ha condiviso con noi la sua idea di cinema, celebrandone la missione di manifesto del progresso e il suo valore intrinseco come vetrina delle infinite possibilità e potenzialità di ogni essere umano di questo mondo.
Scott ci ha anche raccontato della sua esperienza sul set e fuori dal set di un film western, e il suo spassionato fascino per i personaggi più complessi, fisici ed esigenti. Con una menzione speciale a un paio di neonati interessi e un’isola felice, così lontana eppure così vicina.
Ho visto il film, ed è spettacolare, l’ho adorato. È stata dura, perché racconta una storia violenta, cruda, ma al contempo molto onesta. Il tuo personaggio è Curry, un uomo misterioso che irrompe all’improvviso nella vita di un piccolo nucleo familiare, con una sacca piena di soldi e tre uomini che gli danno la caccia. La trama è avvincente sin dall’inizio: qual è stata la tua prima reazione quando hai letto la sceneggiatura e la prima domanda che hai rivolto al regista?
È una storia estremamente interessante che ho adorato raccontare proprio perché è a Venezia che è nata. Stavo girando “Jurassic World” ed avevamo quasi finito, quindi avevo iniziato a chiedermi cosa avrei fatto dopo, ed ero anche triste che “Jurassic World” stesse finendo, perché è stata un’esperienza molto divertente, bellissima. Erano gli ultimi giorni di produzione quando il mio telefono squillò, ed era Tim Blake Nelson, e ogni volta che Tim Blake Nelson chiama, o facciamo una conversazione stupenda, oppure si tratta di qualche opportunità straordinaria che può riguardarci entrambi, e in quel caso si trattava proprio di quest’ultima opzione. Quella volta mi disse: “C’è un film che voglio tu faccia con me, ci fai un pensierino e leggi la sceneggiatura?”. Così, la lessi, e non riuscivo a smettere di leggerla, e capii che sarebbe stato quello il mio progetto successivo, soprattutto perché si trattava di Tim, uno dei miei collaboratori storici. Dopo “Jurassic World”, ho preso un aereo per Venezia e ci sono rimasto una settimana, durante la quale ho sentito via Zoom Potsy [Ponciroli], il regista, e questo è successo un anno fa. Quindi, tornare qui, a meno di un anno di distanza, con questo film, è davvero speciale per me.
La prima domanda che ho rivolto a Potsy è stata: “Come abbiamo in programma di farlo con la quantità di denaro che pare abbiamo a disposizione per questo film?”. È la prima cosa che gli ho chiesto perché il film prevede un sacco di scene d’azione, e per farle per bene servono tanti soldi, quindi la mia prima domanda è stata quella,
“Ce la faremo?”.
Ti sei preparato o esercitato in modo particolare per costruire il tuo personaggio? È il protagonista di molte scene violente, infatti sei spesso coperto di sangue e terreno, sei sempre malaticcio, quindi immagino tu abbia passato parecchie ore in sala trucco!
Esatto! Ho lavorato molto sulla resistenza, è stato un po’ come affrontare una maratona, e sapevo che stavo andando incontro ad una maratona quando ho letto la sceneggiatura, ma volevo interpretare Curry. Avevo diverse opzioni tra cui scegliere, ma sono stato attratto da Curry perché sentivo che quello era il ruolo che mi si addiceva e mi interessava di più. La mia preparazione è iniziata con il mio makeup artist, David Atherton; lui è stato il makeup artist di Val Kilmer nel film “Tombstone” e io da bambino veneravo Doc Holliday e l’aspetto che Val aveva in quel film, infatti in “Tombstone” è molto malato per quasi tutto il tempo. Ho avuto la grande fortuna di avere lo stesso makeup artist, quindi gli ho detto: “Perché non partiamo dall’aspetto che aveva Val e poi facciamo in modo che io diventi sempre più decrepito, raccapricciante e mortifero man mano che il film va avanti?”.
“…sapevo che stavo andando incontro ad una maratona quando ho letto la sceneggiatura, ma volevo interpretare Curry”.
Hai anche recitato in un altro film, “Child of God”, nei panni di Lester Ballard, un altro personaggio difficile da interpretare, molto complesso dal punto di vista psicologico: ho l’impressione che tu sia particolarmente attratto da questo tipo di personaggi. Cos’è che ti affascina di loro?
Giusto, domanda interessante. Lester Ballard è stato creato da Cormack McCarthy, un autore straordinario secondo me, e quel tipo di personaggi sono caratterizzati da un certo spirito verso cui sembro gravitare. Forse, è perché entrambi i personaggi, Lester Ballard e Curry, di “Child of God” e “Old Henry”, sono molto fisici ed esigenti, e mi piace affrontare quel tipo di sfide. Mi è sempre piaciuto lo sport, sono cresciuto con Kobe Bryant come principale modello di ispirazione, e questo mi dà la forza di spingermi oltre il più possibile, fisicamente, in un ruolo. Accolgo, amo e apprezzo sempre quel tipo di sfide, piuttosto che evitarle, le cerco perché so che possono essere difficili da affrontare, e c’è qualcosa in quei personaggi che mi fa venir voglia di interpretarli, come se fosse una missione.
Ho recitato in un film che esce ad ottobre, “Antlers”, diretto da Scott Cooper e prodotto da Guillermo del Toro, per cui ho dovuto praticamente smettere di mangiare per 6 mesi, mangiavo solo un trancio di pesce al giorno, e questo digiuno l’ho fatto sia per “Child of God” sia per “Antlers”, ma in quest’ultimo mi sono spinto ancora più oltre di quanto abbia fatto in “Child of God”.
“…c’è qualcosa in quei personaggi che mi fa venir voglia di interpretarli, come se fosse una missione”.
Tornando al tuo personaggio in “Old Henry”: ti sei lasciato ispirare da esperienze personali, aneddoti che ti hanno raccontato, film che hai guardato, o storie che hai letto per costruirne la complessità?
La particolarità di questo ruolo è soprattutto il fatto che sapevo che le circostanze in cui si trovava richiedevano che io fossi “sempre presente nel momento”: muoio fisicamente, cerco di sopravvivere, sia che mi trovi legato a un letto o a una sedia, sia che mi sparino a una gamba, c’è sempre un punto focale a disposizione a cui posso aggrapparmi, cioè la sopravvivenza, che dirige l’intera storia. La mia fonte di ispirazione, strano ma vero, è stata il contesto d’amore in cui lavoravo, e c’erano un sacco di cose da cui Curry voleva tornare.
Immagino tu sia un fan dei western, non so se lo eri anche prima di girare “Old Henry”, ma ora devi esserlo diventato per forza di cose! Quali sono i tuoi 3 western preferiti?
Questa è buona! [ride] Direi che sceglierò “Tombstone”, “Gli spietati” e “Colomba solitaria”.
Hai visto qualche film o serie tv di recente che ti ha fatto scoprire qualcosa di nuovo su te stesso?
Sì! Nel periodo di riprese di “Jurassic World”, eravamo in quarantena in un hotel, e ho visto un film diretto da James Fox intitolato “Il fenomeno: Non siamo soli”, che parla di extraterrestri e oggetti volanti non identificati. Quel film mi ha completamente sconvolto e dopo averlo guardato, ho cercato e visto sulle varie piattaforme streaming tutti i contenuti possibili e immaginabili sull’argomento. Ho appena finito di guardare “UFO”, prodotto da J.J. Abrams, una serie strabiliante, affascinante, vera che, onestamente, mi ha davvero sconvolto, come tutte le cose su cui sto indagando e imparando, tutto quello che sta succedendo, di cui la gente parla, ma non parla davvero. È l’argomento che più mi interessa in questo momento.
“Extraterrestri e oggetti volanti non identificati”
Un epic fail sul set?
Mi sono dovuto far estrarre i denti per un film che non uscirà mai, quindi l’ho fatto per niente! [ride] Metterei questo evento nella categoria “fail” anche per le faccette dentali che ho dovuto impiantarmi…
Qual è il tuo must have sul set?
Forse Eminem.
Sei anche un regista: quali storie sogni di raccontare, sia da attore sia da regista?
Ho diretto un film intitolato “Mully”, secondo me lo adoreresti, ci ho messo il cuore e l’anima in questo film. Ho messo da parte la recitazione per lavorarci su, perché racconta una delle storie più miracolose che abbia mai sentito. È una storia vera, parla di un uomo chiamato Charles Mully e di sua moglie Esther Mully che, quasi 30 anni fa ormai, fondarono la Mully Children’s Family in Kenya.
La loro prima missione fu quella di salvare orfani e bambini abbandonati che erano stati dati per morti. La prima notte, quando Dio gli diede la forza di prendere questa decisione, uscì e iniziò a raccogliere questi bambini di strada e a portarli nella sua villa: alla fine dell’anno, arrivò ad ospitare a casa propria 300 bambini, e il villaggio pensava che fosse impazzito. Il risultato è che, a distanza di 25 anni, è riuscito a salvare 25.000 bambini, e tutti ora lo chiamano “papà”. Ha creato un programma di riabilitazione, una scuola elementare, una scuola media e un liceo, e ora sta costruendo un’università; ha avviato una produzione agricola sostenibile con il proprio micro-clima – in gran parte del Kenya non piove mai, ma grazie a quello che Charles ha fatto per la conservazione delle risorse idriche e della foresta, è riuscito a creare questo micro-clima, quindi sulla sua proprietà piove. Ciò che sta facendo può cambiare il mondo, e questo è il film che ho scelto per il mio esordio alla regia. Il progetto è nato da una proposta del mio amico John Bardis, e mi ha cambiato la vita, ed è il genere di storie che voglio raccontare, storie che illuminino la speranza che l’umanità può avere, e diano un po’ di fiducia nel lavoro sodo e nel non mollare mai. Siamo in grado di cambiare il mondo, e Charles Mully lo sta facendo.
“Possiamo cambiare il mondo”
Di cosa hai paura?
Ottima domanda… Sono claustrofobico. Avrei voluto trovare qualcosa di più poetico, ma sono semplicemente claustrofobico.
Ultima domanda: qual è la tua isola felice?
Venezia. Venire qui per presentare “Child of God” nel 2013 mi ha cambiato la vita. Mi commuovo al pensiero di quanto ami questo Paese: è per i ricordi che ho, per la bellezza di questa città, ho la sensazione di aver vissuto qui nella mia vita precedente. Vorrei venire in questa città e mettere su uno spettacolo teatrale, la amo con tutto il cuore. Quindi, è questa la mia isola felice, insieme al campo da basket.
Photos by Johnny Carrano & Luca Ortolani.