Le emozioni non sono facili da spiegare a parole. E allora bisogna farle proprie, sentirle dentro di sé, a volte bisogna proprio mangiarsele queste emozioni.
Rocco Fasano di queste emozioni ne ha fatto la propria vita e la propria professione, mostrandoci personaggi così diversi l’uno dall’altro, ma allo stesso tempo con la capacità di sfumare proprio quelle emozioni in qualcosa di diverso ogni volta, senza dimenticarsi delle responsabilità che ciò comporta, di quanto sia importante dare il giusto peso ad ogni cosa, per quanto piccola sia. Perché ogni dettaglio ha la sua importanza e il suo valore.
Abbiamo conosciuto Rocco una giornata a Roma, in una casa in cui si respirava l’arte e la vita di tutti i giorni. Ed è proprio così che Rocco non poteva che essere la nostra Cover di questo mese. Ed è proprio così che le sue parole, il suo volto, la sua gentilezza, non potevano che essere protagoniste di questa nuova Cover che, proprio come succede nella vita di tutti noi, può avere delle “interferenze”.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Uno dei primissimi ricordi che ho è la proiezione del capolavoro d’animazione “Il Gobbo di Notre Dame” che andai a vedere con i miei, quando ero veramente piccolo. Fui scioccato dalla potenza con cui mi colpì quel film, e penso sia stato uno dei primi momenti in cui fui totalmente travolto da un mondo completamente nuovo.
La prima volta in cui ho capito che volevo fare l’attore è stato alle elementari, molto presto; allora, mettemmo in scena la Divina Commedia, Inferno, Purgatorio e Paradiso, e io mi ritrovai a fare la parte di Dante; ero piccolissimo, ma lo ricordo con perizia di particolari, perché fu il primo momento in cui realizzai che lavorare su un personaggio, imparare le battute, indossarne i panni, salire sul palco, essere pronti e sentire quella speciale adrenalina con l’inizio delle musiche, le luci, e poi uno schiocco di dita e si passava in un’altra realtà, è una sensazione molto potente che ricordo con grande gioia, ebbe un grande impatto.
Cosa ti fa dire di sì ad un nuovo progetto, quando ti viene proposto? Ci sono valori o caratteristiche particolari a cui deve rispondere perché a te venga voglia di farne parte?
Sicuramente il primo elemento che mi colpisce e su cui mi soffermo è la scrittura, la sceneggiatura, in quanto per me rappresenta le solide fondamenta da cui parte la realizzazione di qualsiasi progetto: dev’essere scritto bene. Poi un occhio di riguardo ce li hanno anche i progetti con una vocazione educativa, o meglio, quei progetti dove l’intrattenimento si fa anche veicolo di rappresentazione e ricerca su tematiche sensibili. Ultimo, ma non per importanza, voglio cogliere la possibilità di divertirmi quando mi viene proposto qualcosa, perché per me questo lavoro non deve perdere la componente giocosa che secondo me fa la differenza.
La scelta di far parte di un progetto è sempre una cosa biunivoca, nel senso che ci si incontra a metà strada, per cui da una parte, chiaramente, bisogna valutare quello che ti viene proposto, capire soprattutto se è scritto bene, se è accattivante, se è una storia che vale la pena raccontare. Poi, allo stesso tempo, bisogna essere pronti ed essere adatti a quel tipo di storia, per cui ovviamente è una doppia scelta.
Qual è la prima cosa che fai quando leggi una nuova sceneggiatura?
Di solito metto in evidenza tutti gli aspetti espliciti e impliciti del personaggio per stilarne il profilo psicologico nella maniera più completa possibile, il che rientra nel processo di “script analysis”. Dunque, la prima cosa che faccio quando leggo una nuova sceneggiatura è quella di scomporla nei suoi elementi fondamentali, con attenzione prioritaria a tutti gli aspetti legati al mio personaggio per andare a profilarlo, capire quali sono le caratteristiche fondamentali del suo modo di parlare, del suo modo di muoversi, quindi anche del linguaggio non verbale, e quali sono gli elementi della mia personalità che si sposano con quel personaggio e che quindi possono passare attraverso il filtro dell’interpretazione, oppure quali aspetti di me stesso non sono congeniali, se c’è del materiale personale che può essermi utile per portare in scena questa o quella emozione.
Queste sono le cose che faccio quando mi arriva un copione nuovo, insieme a memorizzare pian piano le battute.
Recitare significa diventare qualcun altro, pensare in un modo diverso dal solito, atteggiarsi fisicamente e moralmente in modi che non sono innatamente tuoi. Che tipo di responsabilità senti sulle spalle mentre indossi panni non tuoi?
Primariamente, la responsabilità di veicolare nella maniera più onesta possibile i messaggi di cui il mio personaggio e la storia che tentiamo di raccontare si fanno portatori, in un processo che comincia con la ricerca e con il dialogo con i creatori e prosegue con prove e la messa in pratica di ciò che si è raccolto.
La responsabilità è, comunque, sempre un argomento molto importante, perché da sempre l’attore è chiamato a indossare dei panni che non sono suoi o che, per lo meno, non lo sono totalmente. L’arma più potente che si ha a propria disposizione, non solo per ottenere dei buoni risultati a livello recitativo, ma anche per crescere come esseri umani e come artisti, anche come condizione ideale sul set, sull’ambiente di lavoro, per poter lavorare tutti in maniera tranquilla, è l’empatia. La prima domanda che ci si pone per affrontare questa responsabilità in maniera secondo me giusta è: che cosa prova il mio personaggio in questo momento? Qual è l’arco emotivo, quello che ha imparato, quello che ha perso, quello che ha acquisito durante questa storia? E anche oltre, perché è bello avere una consapevolezza del personaggio completa, che accolga anche aspetti che precedono e seguono l’arco di narrazione del film in modo da poter comunicare il personaggio nel film in maniera il più tridimensionale possibile.
“L’arma più potente che si ha a propria disposizione […] è l’empatia”.
Quanto c’è di Rocco nei tuoi personaggi?
Di me stesso, nei personaggi, c’è sempre tutto e nulla, nel senso che il personaggio chiaramente passa attraverso di me: nasce con inchiostro e carta, su una pagina, e poi deve passare per forza di cose attraverso di me, per cui in qualche modo viene da me, sono io ad interpretarlo, sono io a versare il materiale emotivo, psicologico e pratico. Però, allo stesso tempo, è chiaro che non possiamo interpretare sempre noi stessi, perché non funziona, nemmeno se il personaggio paradossalmente dovesse essere una copia al 100% della tua persona, il che non succede mai, perché se anche dovesse essere ispirato alla tua persona, per assurdo non sarebbe mai davvero uguale, perché le dinamiche della storia fanno in modo che prenda una vita propria, com’è giusto che sia.
Anche in quei casi, poi, portare o riportare in scena determinate emozioni, stati emotivi, richiede un certo procedimento tecnico, di filtrazione: tu stai provando una determinata gamma di emozioni in quel momento, in quella giornata, in quella settimana, mentre il personaggio sta da tutt’altra parte, quindi bisogna necessariamente filtrarsi, arrivare a degli stati emotivi che non sono propriamente tuoi.
In questo procedimento, nella misura in cui ti trovi in un punto in cui stai provando le stesse emozioni che prova il personaggio all’interno della narrazione, oppure nel caso in cui ne provi di opposte, si tratta sempre e comunque di un adattamento della tua persona, di lavoro su te stesso.
Hai una sorta di routine quando approcci un nuovo personaggio o ogni progetto ha un suo mondo?
Il mio metodo negli anni si è più o meno stabilizzato e consiste sostanzialmente in ricerca teorica, esercizi pratici e prove con il regista e gli altri attori; poi, nella fattispecie, un personaggio a volte può venirmi più facile affrontarlo di testa, mentre in altri contesti bisogna affidarsi all’istinto, in maniera organica, soprattutto con una direzione sapiente.
L’elemento costante che cerco di ricostruire ogni volta si compone di limiti razionali entro i quali sentirmi libero di agire irrazionalmente.
Ogni progetto è a se e ogni personaggio richiede un lavoro totalmente diverso; l’aspetto comune è la ricerca, perché prima di riuscire a fare quello che il personaggio fa sulla carta stampata, devi ricercare quello che circonda quelle vicende, quindi devi capire a che stato sociale appartiene il personaggio, le sue dinamiche familiari, il padre, la madre, gli amori persi o trascorsi; bisogna capire queste cose e poi tutti gli altri aspetti legati alla vicenda che si va a raccontare. Dopodiché, il lavoro che si fa per portarli in scena cambia da progetto in progetto, anche in base al regista con cui hai a che fare e al tipo di film; ci sono determinati film nei quali non solo conviene, ma è opportuno affrontare il personaggio e le scene in maniera organica, con molte improvvisazioni, quindi andare a scavare le basi comportamentali, emotive, psicologiche del personaggio e poi, in qualche modo, dare il La e avviare un’improvvisazione, o rispondere in maniera organica a delle dinamiche, a un canovaccio. Altrimenti, ci sono altri progetti costruiti in maniera tale da essere talmente lontani da te che vanno affrontati un po’ più di testa.
Com’è avvenuto, invece, il tuo ingresso nell’universo moda? E come descriveresti il tuo stile?
La moda è sempre stato un mondo di cui ho fatto e faccio parte in maniera parallela al mio lavoro primario, quello dell’attore. È cominciato per caso, come accade spesso, sono stato fermato a Monti (Roma) da una fotografa, che è tuttora una mia cara amica: mi disse che avevo un profilo greco-romano e voleva scattarmi delle foto per un magazine. Da lì mi hanno “invitato” ad utilizzare il mio potenziale estetico anche per lavorare nella moda. Prima lo facevo da modello, adesso succede più che lo faccia da talent nelle collaborazioni con i brand. Però, è un mondo estremamente scintillante ed è bellissimo farne parte perché è il mondo della bellezza, della ricerca della bellezza, del lavoro certosino per trovare continuamente nuove forme di bellezza, nuove armonie o disarmonie, per cui è molto affascinante farne parte e osservare il lavoro delle maestrie incredibili che ci sono dietro.
Il mio stile varia molto, sono un po’ scisso tra street style, quindi hoodie, boots e jeans oversize, e vestiti un po’ più eleganti, camicia, stivaletto di camoscio, sempre cercando un po’ di colore, il colore mi piace molto: che lo stile stia street o elegante, voglio tanto colore.
“…che lo stile stia street o elegante, voglio tanto colore”.
A cosa pensi, invece, quando posi per un servizio fotografico? Cosa ti fa disinibire davanti all’obbiettivo e cosa, al contrario, ti trattiene?
Davanti a un obbiettivo fotografico cerco di essere piuttosto disinibito.
Il mio rapporto con l’obbiettivo in uno shooting fotografico, rispetto a quello di una camera sul set, è diverso, ma non poi così diverso, nel senso che quando fai uno shooting, realizzi una versione microscopica e freezata di quello che fai in maniera continuata e prolungata su un set cinematografico o televisivo per un personaggio vero e proprio. In poche parole, io cerco sempre di interpretare, questo per far sì che la foto non venga piatta, da manichino, ma che abbia un’intenzione, un’anima nello sguardo, che comunichi un’emozione, che sia di una palette un po’ più scura, o più allegra, curiosa, cerco sempre di comunicare qualcosa.
Ciò che sicuramente aiuta la disinibizione è l’esperienza, la pratica; ricordo che durante i primi shooting, così come i primi provini e i primi progetti, le gambe mi tremavano, il cervello si offuscava, l’ansia prendeva il sopravvento; queste sono cose che accadono a tutti e pian piano impari a mantenere il controllo di te stesso, delle tue emozioni, perché poi ci lavori e quindi devi avere salde le redini degli elementi con cui lavori, avere fiducia in sé stessi, che si acquisisce lavorando, appunto, fallendo, sbagliando, e poi riprendendosi continuamente.
Hai scoperto qualcosa di nuovo su te stesso lavorando ai tuoi ultimi progetti?
Una delle cose meravigliose di questo lavoro è che in ogni progetto scopri cose nuove su te stesso, cose pensavi di non saper fare, o cose che pensavi lontane da te prima di farne esperienza. Sono due linee opposte che si incontrano nel mezzo: da una parte il tentativo di allontanarti da te stesso e dalla tua comfort zone, dall’altra l’acquisizione di elementi nuovi che ti arricchiscono a volte anche permanentemente.
Qual è stato l’incontro più significativo della tua carriera, finora?
Ce ne sono diversi. Sicuramente non posso non citare “Skam Italia” e tutto quello che ha significato per me. “Skam” è l’esperienza che per la prima volta mi ha fatto avvicinare ad un personaggio più complesso, ad un progetto più corposo, una serie che abbiamo portato fino alla quinta stagione, e abbiamo finito di girare qualche mese fa. Non si tratta solo della complessità del mio personaggio, Niccolò, un ragazzo omosessuale che soffre di disturbo borderline della personalità, e che nonostante tutto ciò cerca di vivere e di proteggere a tutti i costi l’amore che prova per quest’altro ragazzo, Martino. È stata un’esperienza meravigliosa perché ha aperto delle porte incredibili anche a livello di comprensione e di maturazione professionale e umana, è stata un’esperienza che non posso non portare nel cuore per il resto della mia vita, e che mi ha anche fatto conoscere il successo in Italia e, soprattutto la gratitudine – ho capito che con questo lavoro si può cambiare, si possono cambiare le cose per il meglio, si possono aiutare delle persone, una cosa di cui ero soltanto parzialmente consapevole prima.
Con “Skam” è arrivato l’incontro con migliaia e migliaia di ragazzini e ragazzine durante le convention, o i messaggi sui social quando vengono a vederci a Parigi, Milano, Oslo, ovunque, ringraziandoci per la rappresentazione, per l’onestà, per l’impegno. Abbiamo trattato di temi che loro vivono tutti i giorni, e questo mi ha davvero cambiato molto, mi ha impattato in maniera incredibile e permanente. Perciò, la mia gratitudine va a “Skam”, a chi mi ha scelto, a chi ha avuto fiducia in me.
Poi anche “Hotel Portofino” è stata un’esperienza incredibile, perché lì mi sono ritrovato a vestire i panni di Gianluca, che è questo attivista antifascista nella Portofino del 1926, dove il fascismo era in ascesa; quindi, anche questo è un ruolo legato a delle tematiche importanti, questa volta a doppio filo, con l’impegno politico unito all’amore ostacolato, perché lui si innamora di Anish, di questo ragazzo che è ospite fisso dell’hotel Portofino. Sono molto grato per il fatto che tutti i progetti che mi sono capitati fino ad ora, compreso “Non mi uccidere”, che è una storia incredibile di catarsi, rinascita, maturazione, liberazione di questa figura femminile da queste zavorre, amori tossici, situazioni che vogliono tarparle le ali, questa favola nera diretta da Andrea De Sica, siano progetti che si inseriscono in un filone non solo di linguaggio, nel senso che vogliono trovare un linguaggio nuovo in Italia, ma anche progetti che rientrano nell’ambito dell’intrattenimento pur affrontando anche tematiche molto delicate e molto molto contemporanee.
“…ho capito che con questo lavoro si può cambiare, si possono cambiare le cose per il meglio”.
E il consiglio che più ha impattato il tuo modo di lavorare? E la cazzata più grande che ti è mai stata detta e che sei contento di non aver ascoltato?
Mi è stato detto che da attore, uno dei pochi poteri decisionali che si hanno internamente è quello di imparare a dire di no, e questo ha impattato sicuramente. La cazzata più grande è stata l’aver sentito che da questo settore dovevo aspettarmi soltanto delusioni da cose e persone, e invece, nonostante gli ostacoli, oggi non sarei la persona che sono senza aver incontrato gli esseri umani incredibili con cui ho avuto la fortuna di lavorare e che mi hanno cambiato in meglio.
Chi o cosa ti ispira sul lavoro, ma anche nella vita di tutti i giorni?
Attori, attrici, colleghi e amici che inseguono questo sogno alchemico con la speranza di un bambino.
Hai recitato in diversi video musicali di artisti italiani, tra cui Gazzelle e Lowlow. Qual è il video più bello mai girato finora secondo te?
Ne ho fatti davvero diversi ed è tosta scegliere: sicuramente, tra i vari, quello di Gazzelle è stato un’esperienza unica, in quanto girato in pellicola, ambientato nei ’90, ed ero anche conciato da lupo mannaro.
La playlist della tua vita comincia e finisce con quale canzone?
Difficile scegliere. La comincerei con un brano di Chopin e la terminerei con uno dei Nirvana. O viceversa.
Una canzone, invece, che descrive questo particolare momento della tua vita?
“All For Us” di Labrinth e Zendaya.
“Chopin”
“Nirvana”
Un personaggio di un film o serie TV che ti piacerebbe avere come amico?
Tyrion Lannister.
Un personaggio realmente esistito che ti piacerebbe interpretare?
Michelangelo Buonarroti.
Un epic fail sul set?
Ricordo una volta, sul set di un film che girai anni fa, ero arrivato al mattino convinto di dover girare una scena molto difficile che era prevista invece più in là, e ho dovuto invece adeguarmi in mezz’ora al corretto ODG.
Il tuo must have sul set?
Sigarette, acqua liscia, e cuffiette.
Cosa significa per te “sentirsi a proprio agio nella propria pelle”?
Significa stare bene con se stessi, e accettarsi per quello che siamo in ogni nostra unica e insostituibile sfumatura.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Lasciare la prospettiva di una carriera stabile per inseguire il sogno artistico.
E il tuo più grande atto di ribellione?
Vedi domanda precedente.
“Inseguire il sogno artistico”
Di cosa hai paura?
Di tante cose, tutti i giorni, come tutti. Però è bella la paura, perché, nella giusta dose, mi ricorda rimanere tra i binari e mantenere alta la soglia dell’attenzione.
Qual è l’ultima cosa/persona che ti ha fatto sorridere, oggi?
Mio fratello che sbrocca perché sono finiti i cereali.
La tua isola felice?
Parigi!
Photos & Video by Johnny Carrano.
Grooming by Franscesca Naldini.
Styling by Rebecca Baglini.
Thanks to Lapalumbo Comunicazione.
Location Manager: Luisa Berio.
Location: Interno12.
LOOK 1
Total Look: Moschino.
LOOK 2
Total Look: Giorgio Armani.
LOOK 3
Total Look: Giorgio Armani.