Casa.
Casa è dove ti senti bene, dove lo spazio e il tempo si fanno tuoi, si adattano su di te e ti fanno sentire al sicuro.
Casa può essere un foglio vuoto da riempire di parole, una capanna in mezzo al nulla o un luogo dove accoccolarsi, anche fosse un abbraccio.
Per me casa sono le persone, da sempre, e ovunque vada. E, con il mio lavoro, trovo delle case inaspettate intorno a me, che mi fanno rendere conto di quanto io sia fortunata.
Ogni volta che vedo Carlotta, io mi sento bene, sono rilassata, tutto il nostro team lo è. Diventa casa subito. La sua riservatezza diventa calore e non c’è bisogno di poi tante parole perché a noi piace far parlare le immagini, le espressioni e i volti.
E, proprio parlando di questo, Carlotta ci ha aperto le porte della sua nuova casa, per parlare del suo ultimo libro “Memoria dell mie puttane allegre”, edito da Marsilio per la collana Passaparola. Si tratta di un libro di narrativa che racconta di un altro luogo, Marina di Castagneto Carducci, dove Carlotta è cresciuta, e che lei mette a confronto con la Macondo di Garcia Marquez, mettendo anche a confronto le donne che fanno parte di questi due mondi.
Un libro da divorare in un pomeriggio e che, ancora una volta parla di una casa.
Perché alla fine cosa sono i libri se non una bolla dispersa nel tempo dove adagiarsi per delle ore o giornate intere? E allora perché anche questi non posso essere chiamate case?
E allora a noi piace perderci così: tra libri, abbracci, sorrisi e scatti.
Il tuo libro mi è piaciuto tantissimo, l’ho letto in un pomeriggio.
Grazie, mi è piaciuto scriverlo, mi ha divertito. È diverso dal solito saggio, infatti mi hanno messa in Narrativa, quando tendenzialmente il libro non l’abbiamo pensato come Narrativa.
All’inizio, dici che “Passaparola” è come un gruppo di lettura: se tu dovessi immaginare il gruppo di lettura dei tuoi sogni, con chi vorresti fondarlo?
Ho la fortuna di avere già una specie di gruppo di lettura, con Chiara Valerio, che è l’ideatrice e curatrice di questa collana, e le mie amiche e i miei amici che sono avidi lettori. Tra queste, ho la fortuna di avere Carlotta Sanzogni, che è nel team del Libraccio, e quindi anche da loro mi arrivano testi, novità, libri vari. Lavorare anche nel mondo dell’editoria ti garantisce questo, tutti sono sempre in grado di darti degli ottimi consigli di lettura e poi facciamo delle piccole telefonate e tavole rotonde. In questo periodo sto presentando molti libri non miei e anche questo mi consente di incontrare molti scrittori e scrittrici, è molto bello.
Leggo un sacco ultimamente, più del solito.
Magari te l’avranno già chiesto in molti, ma Marquez è stato una scelta di pancia, o eri incerta, ci hai dovuto pensare?
In realtà è stata una scelta di pancia. Stavo facendo questa intervista con Chiara Valerio per Radio3, per il suo programma, “L’Isola deserta”, e lì mi hanno chiesto: “Quale libro ti porteresti su un’isola deserta?”. Io non ci avevo pensato prima di fare l’intervista, non ero andata preparata, volevo vedere che cosa mi suggeriva la pancia, e senza pensarci ho detto Márquez. Dopo l’intervista, ci siamo messi a chiacchierare e abbiamo parlato dei personaggi femminili, ci siamo confrontate su quale fosse il nostro preferito, proprio come se fossero persone vive. Ci siamo guardate e ci siamo dette: “Ma sai che sarebbe interessante farci un passaparola?”. Io da sempre ho questa convinzione che Macondo somigli tantissimo a Marina di Castagneto Carducci, quindi alla fine abbiamo deciso di farlo.
“Io da sempre ho questa convinzione che Macondo somigli tantissimo a Marina di Castagneto Carducci…”
Per te Marina di Castagneto ovviamente è casa, adesso hai proprio una casa tua tutta nuova. Cos’è per te “casa”?
Casa per me è la cosa più vicina al senso di pace che ci sia. Quando riesco a staccare da tutto. Sicuramente, a Marina di Castagneto Carducci tutta l’ansia, la frenesia, la pressione che mi arriva dal mondo esterno sparisce. È come se fosse fuori dallo spazio e fuori dal tempo. Casa a Firenze è anche il posto dove lavoro, ho una connessione, è il posto da dove parto, perché è connessa via treno a Milano e Roma, dove sono sempre per lavoro; Marina di Castagneto Carducci invece è uno stacco vero, perché è fuori e quindi mi permette di staccare davvero la spina.
È tutto bloccato lì, torno, ho i miei amici lì, come se niente fosse successo, come se non fosse passato del tempo.
C’è un punto in cui parli delle finestre, delle case, dell’aria salmastra, che mi è piaciuto tantissimo, e dici che la natura in un modo o nell’altro vince sempre. Com’è cambiato il tuo modo di vivere la natura, crescendo?
Io sono cresciuta qui a Marina, che è un posto selvaggio, il mare non è mai calmo. C’è questa cosa che ho nei miei cassetti della memoria, ossia che l’avrò visto piatto una decina di volte in tutta la vita, perché è soggetto a forti correnti. Quindi, le prime cose che da bambina ho imparato a riconoscere, anche con mia nonna che me le insegnava, erano i venti, per capire da dove tiravano, dar loro un nome, capire quando si poteva andare in spiaggia, se la marea era a favore o meno, perché se le tempeste di sabbia arrivavano dall’entroterra erano ingestibili.
Ho avuto da subito un rapporto molto stretto con gli elementi della natura. Per me, oggi, è sicuramente sinonimo di tornare a casa. La prima cosa che mi piace fare quando sono a Marina è togliermi le scarpe: vivo in costume o in mutande nei mesi più caldi; oppure anche d’inverno, quando arrivo, la prima cosa che faccio è andare sulla spiaggia, qualsiasi tempo ci sia. È una riconnessione totale che comunque in città hai meno, nonostante io viva in un posticino in collina, in un campo, ma non è la stessa cosa. Io sono cresciuta dormendo con il rumore delle onde del mare, sempre agitato, quindi quando rientro da Marina in città, le prime notti mi sembra stranissimo non sentire quel rumore lì, che ti culla.
E invece quando torni qui e le senti, per te è la cosa più normale del mondo.
La più bella del mondo! Quando esco dalla famosa Variante Aurelia, la prima cosa che faccio è abbassare i finestrini in quel viale pieno di pini, per sentire l’aria che è diversa. L’aria salmastra, l’odore del mare… non riesco ad aspettare di scendere dalla macchina, quindi mentre sto andando verso il lungomare, abbasso tutti i finestrini e me la godo. E puntualmente, da quando ho la patente, quindi più di 16 anni ormai, mi commuovo, in quel momento lì, in cui abbasso i finestrini e sento l’aria di mare, mi commuovo.
“in quel momento lì, in cui abbasso i finestrini e sento l’aria di mare, mi commuovo”.
Un’altra tua frase: “Il potere rende ciechi”. Qual è la forma di cecità che ti fa più incazzare in questo momento?
L’ottusità.
Che è la mancanza di confronto, essere completamente autoreferenziali, non poter fare discorsi che vadano al di là del loro naso, non capire che l’unico modo per poter davvero evolvere è uscire dalla bolla, quindi necessariamente contaminarsi e scontrarsi con il mondo esterno, ma anche aprire un dialogo. Invece, specialmente il mezzo Internet sta diventando un mezzo in cui non è più facile dialogare, perciò trovare altri linguaggi, altre piattaforme, altri mezzi diventa essenziale. Io mi sto sempre più chiudendo nella scrittura di libri, nei miei articoli, nei miei racconti, perché mi permettono anche di trovare quella complessità che ormai si sta perdendo.
L’ottusità è sicuramente la cosa che mi spaventa di più.
Infatti, volevo parlarti della parte che mi ha fatto anche sorridere, quella dell’isolamento tecnologico, di quello che succede, di come si trasforma. Ne senti mai il bisogno, al punto che quasi speri che ti succeda?
Il mio sogno erotico è un luogo dove non va la connessione Internet! [ride]
Tre giorni, una settimana… per me è veramente il Grande Sogno Erotico! Infatti, quando succede che a Marina il ripetitore non riesce a contenere tutti i turisti estivi, specialmente in questi due anni di pandemia in cui non potevamo viaggiare all’estero e tutti andavano nelle località turistiche italiane, il ripetitore non reggeva e quindi saltava, e c’erano alcuni giorni, come scrivo nel libro, in cui la gente andava nel pallone, perché in quei casi non puoi telefonare, non va il POS, gli SMS, WhatsApp, c’era il completo delirio. L’unico punto in cui va Internet è questa zona dell’Aurelia che ti porta verso la città di Donoratico, e vedere questa fila di persone con il braccio fuori dal finestrino per cercare campo per me è divertente. È il sogno erotico senza mezzi termini.
Quando torni a Marina, come si trasforma il tuo spazio e il tuo tempo?
Casa non sono più le quattro mura, sono tutti i luoghi in cui io posso essere contenuta: la spiaggia, il bar sotto casa, i 15 metri di strada su cui passeggio scalza per arrivare in spiaggia, il mio edicolante, lo stabilimento balneare dei miei amici, la pineta; quei luoghi diventano il mio spazio d’azione. Il tempo non esiste invece, perché è come se non si fosse mai interrotto, come se non fossi mai andata via, e quando parto so che non è mai l’ultima volta. È la cosa più costante che io abbia mai avuto in tutta la mia esistenza.
“Il tempo non esiste invece, perché è come se non si fosse mai interrotto”.
Tu parli del riscrivere l’importanza dei ruoli femminili: tu ovviamente l’hai fatto. A quali altri ruoli femminili ti piacerebbe ridare importanza? Scrivendo questo libro, avevi già in mente qualcun altro che vorresti raccontare?
Ottima domanda! Ho sempre sognato di ricostruire in modo ironico “Cime tempestose”, il rapporto tra Catherine e Heathcliff, che è terribile [ride]. Mi piacerebbe fare una decostruzione comica della storia. Non ho mai pensato a quali altri libri potrei approcciare da questo punto di vista, in realtà, ce ne sono davvero tanti. Ieri, parlavo con Nadia Terranova, che ha scritto un bellissimo libro che si chiama “Trema la notte”, in cui le protagoniste sono quasi tutte donne di varie età, generazioni, estrazioni sociali, e non sono tutte simpatiche o prestanti, ma tutte hanno una complessità rara, sono multi-sfaccettate; il fatto di ritrovare questa tridimensionalità mi rincuora molto e mi fa anche molto perdere nei libri. Sarebbe bello iniziare anche a fare solo delle recensioni, o parlare nelle interviste che faccio durante le presentazioni dei libri, del personaggio, dandogli spessore, parlando di come ce lo immaginiamo, del perché è arrivato dov’è arrivato, di dove dovrà andare.
Mi piacerebbe che si iniziasse a parlare dei personaggi come cosa viva anche nelle presentazioni, che ognuno possa parlarne personalmente.
Infatti, a me per esempio succede che quando chiudo un romanzo, poi il personaggio inizia subito a mancarmi, o mi manca magari anche odiare un po’ quel personaggio che non mi piaceva. Io leggo con molta (forse anche troppa) empatia, mi getto in un libro, mi piace leggerlo in un giorno o due, sarebbe molto bello, per i pazzi come me, ma anche per chi non è come me [ride].
Nelle presentazioni, dare voce anche a chi ha scritto e dire: “Okay, facciamo questo gioco, prendiamo il personaggio e capiamo la sua complessità, cerchiamo di decostruire tutto quello che potrebbe essere un pregiudizio nei suoi confronti”. Così come potremmo passare ore a parlare di Humbert Humbert e Lolita, di un sacco di personaggi della storia della letteratura che sembrano monodimensionali e invece sono iper complessi. Mi piacerebbe poter parlare con chi li ha scritti per giorni e giorni.
Invece, per te scrivere è un atto abbastanza spontaneo, una cosa che non ti fa soffrire? Perché molti scrittori dicono che il momento della scrittura può essere anche sofferenza…
Per me è esorcismo, scrivere è esorcizzare qualcosa.
Un mio ex datore di lavoro mi diceva: tu quando vedi qualcosa che ti colpisce, o ti turba, o ti rende triste, finché non lo scrivi non riesci a esorcizzarlo, e quando poi lo scrivi, lo butti fuori. Quindi per me scrivere è liberazione, un processo molto spontaneo, molto veloce. Scrivo veloce, infatti sto producendo come una matta! [ride]
Morena è fantastica. Tu la paragoni a Ursula. Qual è, secondo te, l’aspetto più forte che condividono l’una con l’altra?
Il desiderio di non disunirsi, di non disunire la comunità. Il desiderio di tenerla tutta vicina.
“Non ti disunire”, se non l’avesse detto Sorrentino, l’avrei fatto dire a Morena nel libro! [ride] Il desiderio di tenere le generazioni vicine, di tenere le persone ad uno stesso tavolo conviviale a parlare, a non perdere il filo. Anche quando i turisti stagionali se ne vanno, lei li chiama per sapere come stanno, cosa fanno, per sapere se qualcuno è morto o si è sposato. Quindi tenere le fila per poi ricominciare quando inizia la stagione successiva.
Tu non ti sei mai sentita così?
Io vado e vengo. Quindi non posso avere quella continuità. Sicuramente, ho un ponte con tutti i miei amici, ci sentiamo tutti i giorni, voglio essere aggiornata per non avere un riscatto totale. Ma Morena ne ha fatto praticamente un ufficio anagrafe! [ride]
Invece, quando scrivi di Gabri, scrivi una frase secondo me bellissima, dici: “Sembra che sia lì da sempre”. Rispetto a cosa o a quale emozione ti piacerebbe sentirti “lì da sempre”?
Mi piacerebbe sentirmi “lì da sempre” nella tranquillità. Che è la cosa più distante da me, specialmente nell’ultimo anno, che è stato esplosivo sotto tantissimi punti di vista. Quando sono lì, io rimango in questa sorta di bolla di tranquillità e ho anche un certo distacco che mi permette lucidità. La tranquillità dà distacco che dà lucidità, quindi per me, potendo rimanere in quella situazione, non solo approfondisco tutto di più, ma è come quando prendi respiro uscendo da sott’acqua.
“…come quando prendi respiro uscendo da sott’acqua”.
Invece, quando parli di Pilar, fai riferimento alla sua risata. Come ti piacerebbe che venisse descritta la sua risata?
Io faccio un sacco di rumore quando rido! [ride] La mia risata è rumorosa e la mia maestra delle elementari la odiava. Mi ricordo che mi diceva:
“Così no, sei sguaiata, ti prego ridi da signorina”.
La mia risata è sempre stata squillante, mentre quella di Gabri è bella profonda, come quella di Pilar, con gli anni sempre più profonda. La mia è tipo un lampo, una scossa elettrica, mentre la sua è più accogliente.
Riguardo a Remedios, scrivi: “Se una cosa non la si può ottenere, allora se ne deve incrinare la reputazione”. Non credi che questo stia succedendo anche sui social, quando si viene continuamente attaccati e si subiscono commenti negativi?
Certo! Da sempre, una persona che non ti piace, a cui non vuoi che venga riconosciuto qualcosa, cerchi di distruggerla. Lo vediamo continuamente in politica, lo abbiamo visto per decenni nei tabloid: è l’arma più becera che ci sia, ma anche la più semplice. Quindi, è anche per questo che mi sto separando sempre di più da quel mezzo, non ha più senso rapportarsi, sono tutte cose che durano un secondo, ma che sulla pelle di chi le vive durano per sempre.
È veramente un potere sbilanciatissimo e molto cattivo.
Forse, una delle mie parti preferite è quando parli di Remedios e fai riferimento al concetto di bellezza e libertà. Io, se penso alla bellezza e alla libertà, penso a me da piccola, e mi ha toccato tantissimo il fatto che questa sia una cosa che scrivi anche tu di lei. Invece tu, in quali momenti pensi a te in questo modo, con questa libertà e bellezza di cui parli?
Io ho l’infanzia cristallizzata in un posto bellissimo e molto isolato, pieno di natura, un’infanzia in cui ero molto solitaria e silenziosa, ma terribilmente felice. Crescendo, la libertà diventano le interruzioni dalla routine. Come ultimo, grandissimo senso di libertà ho un’immagine di me, nel 2018, all’ultima serata del Primavera Sound, sotto il Ray-Ban Stage: sta salendo l’alba e ci sono i The Blaze sul palco, uno davanti all’altro, e tutte le persone, che rimangono lì perché l’ultima serata diventa una grandissima festa, si abbracciano e brindano a caso, e diventiamo una grandissima festa; in quel momento, mentre sale l’alba, ricordo di aver detto: “Cazzo, questa è la felicità collettiva. Cazzo, questo è un momento di libertà totale”. È stato molto bello. Poi sono entrata in un turbinio di lavoro, quindi mi mancava sempre quella parte di libertà, e poi è arrivata la pandemia…
Quindi, oggi la libertà è quando vado a Marina e cade il cazzo di ripetitore! [ride]
“Cazzo, questa è la felicità collettiva”
Quale altra donna ti sentiresti di dire che fa parte del Giardino dell’Eden di cui parli nel libro?
Secondo me, la storica per eccellenza era Marylin Monroe, solo che lei non ha fatto come Remedios la bella: una riesce ad elevarsi e andare via, l’altra invece rimane troppo terrena, talmente troppo terrena che sceglie di andarsene uccidendosi.
C’è qualcosa di Remedios anche in tutti gli idoli che ci creiamo: l’idolatria è diventata la nuova religione; spesso mettiamo sul piedistallo le persone in modo totalmente casuale e facciamo di tutto per arrivare a quel modello lì, non capendo che è impossibile, in generale, perché tutte le persone sono diverse, hanno una loro unicità.
Però, l’idolatria è un grande Giardino dell’Eden, ci spinge ad odiarlo perché non possiamo averlo, raggiungerlo, ma anche ad amarlo perché è la cosa più appetibile del mondo.
Parlando invece di Amaranta, scrivi della perdita della capacità di osservare con umanità l’altro. Secondo te, qual è un personaggio letterario femminile che è sempre stato guardato senza umanità?
Beh, in Márquez ce ne sono tanti, come Sierva María de “L’amore e gli altri demoni”, che viene vista come posseduta e terrificante, viene de-umanizzata completamente, privata di tutti i diritti di essere umano, resa alla stregua di un cane, legata in una piccola cella e trattata come un animale pensando, all’inizio, che abbia la rabbia. Allo stesso modo, la protagonista de “La lettera scarlatta”, le donne macchiate di qualsiasi onta, la perdita dell’innocenza, dell’illibatezza. Nadia Terranova, con il personaggio di Barbara, fa un bellissimo lavoro in questo senso: Barbara nel libro viene stuprata e perde il suo status sociale, viene guardata male, quasi respinta, specialmente nel convento in cui è andata a rifugiarsi. Ci sono tante storie che poi prendono spunto anche dal reale, ci vuole molto poco a trasportare nella letteratura la nostra società. Così, la storia di tantissime donne terrene diventa quella dei personaggi dei libri.
“…ci vuole molto poco a trasportare nella letteratura la nostra società”.
Parli anche di riabilitazione: pensi sia possibile, per come la intendi tu?
Guarda, viviamo in una società in cui preferiamo la punizione alla riabilitazione e rieducazione, quindi ti dico assolutamente no. Punire senza rieducare ci fa sentire molto più a nostro agio con la nostra coscienza e permette di non sforzarci: basti pensare al sistema carcerario, al sistema di polizia, al nostro sistema in generale, che incoraggia il “victim blaming”, il punire la vittima per qualcosa che ha subito. Non so quanto la riabilitazione sia insita nella nostra società contemporanea, spero che questa cosa cambi, perché è l’unico modo possibile di non vivere per sempre in quello che hai fatto.
Mi viene in mente la teoria di un sociologo che si chiama Christie, sulla vittima perfetta: secondo lui sono gli anziani e i bambini, tutto ciò che c’è nel mezzo non esiste. Quindi, mi viene anche da pensare che la riabilitazione di una persona come Stefano Cucchi in Italia non è mai stata possibile, perché lui era un tossicodipendente, quindi il suo errore vale per tutta la vita, vale anche per quello che poi ha subito. Non esiste la riabilitazione per le vittime, figurati per lui…
Verso la fine del libro, parli anche spesso di paura. C’è qualcosa che ti spaventa?
Ho paura di perdere il contatto col reale, cosa che è successa in questi ultimi due anni. Perché siamo stati un po’ tutti nelle nostre bolle e abbiamo completamente disimparato la comunicazione, e immagazzinato un surplus di informazioni che però rimanevano superficiali, e abbiamo sempre badato al caso particolare e mai a quello generale. Questo ci ha portato a diventare completamente incapaci di dialogare.
La perdita di comunicazione è la fine del genere umano, cosa che ribadisco spesso nel libro.
I Buendía potevano andare avanti e Macondo poteva non estinguersi se si fossero aperti ad altre civiltà, all’ascolto delle loro donne e degli altri paesi vicini, ma non è stato così. Adesso, da tutti i lati, sia dai progressisti, sia dai conservatori, c’è un’assenza totale di comunicazione, quindi non so dove potremo andare…
Infatti, tu parli di condivisione, ascolto, attenzione. Queste, forse, salverebbero il mondo?
Sì. Definitivamente sì. Avevano detto che ne saremmo usciti migliori, ma non credo sia successo.
Una cosa che mi ha toccato moltissimo è ciò che scrivi quando parli di nonna Lucia, del monito per le generazioni future: “Ricordatevi di abbracciare il dolore del lutto e di processarlo, altrimenti finirete come me, circondati da persone che vivono solo di passato e si fanno le foto da sbronzi con la mia statua, che manco mi rappresenta fedelmente. Fate come le donne Buendías, seppellite i vostri morti oppure, nel dubbio, muratevi vivi”. Questa parte mi è piaciuta tantissimo, è bellissimo quello che dici sia sull’abbracciare il dolore e il vivere il lutto, cosa non semplice da fare.
Non saper fare a patti con il passato e mettere un punto di fine non permette neanche di iniziare. Abbiamo vissuto solo e sempre di passato, e la frase che sentiamo più spesso è: “Abbiamo sempre fatto così”. Questo è sintomatico della nostra incapacità di andare avanti. Quindi, seppellire i propri morti diventa un esercizio di vita.
Photos &Video by Johnny Carrano.