Un Negroni Sbagliato nel posto giusto, uno scatto rubato per un ricordo concesso: basta tanto così per creare l’atmosfera, quella ideale per parlare di tutto nel quadro non troppo incorniciato di un’intervista delle nostre.
A cavallo tra la notte e il giorno, tra gondole a riposo e calli buie, Enea Barozzi si è raccontato nella Venezia addormentata, convincendo il baretto in chiusura a lasciarci vivere da loro quelle ultime ore di transizione, da ragazzo che non molla mai.
Pubblicità e cataloghi fotografici, le prime audizioni e i primi set sono stati solo l’inizio e l’indizio di una passione che di anno in anno cresce insieme a lui, cambia ed evolve insieme al suo cervello, a contatto con i personaggi che interpreta e le persone che tanto gli piace osservare.
Di epoca in epoca, di luogo in luogo, Enea dice cose che suonano bene, che se fossero un copione, sarebbero proprio “quello giusto”, sarebbero proprio quello che cerca. Sarebbero proprio quello che cerchiamo.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Una pubblicità che ho fatto a 6 anni, per Giovanni Rana, il mio primo lavoro in assoluto e mi sono divertito da matti. Ero il protagonista di questa pubblicità che abbiamo girato a Chamonix, in Francia, e c’era il signor Giovanni Rana in persona che ci ha raccontato tutte le sue storie di gioventù. Questo è il primo ricordo che ho legato al mio lavoro.
Il primo ricordo legato al cinema nello specifico è Gabriele Salvatores, quando sono stato scelto per “Il ragazzo invisibile”, per una parte da co-protagonista. Quello è stato il mio primo lavoro nel cinema, perché prima avevo fatto principalmente cataloghi, spot pubblicitari e cose del genere. In realtà, avevo fatto tre provini per il ruolo di protagonista, e alla fine eravamo rimasti io e Ludovico [Girardello] – che poi ha avuto la parte. Mi ricordo che, mentre ero in vacanza con mia mamma, è arrivata la notizia che io ero stato preso, ma per un altro ruolo. Mi sono sentito malissimo, perché ero fomentatissimo! Il fatto è che, al secondo provino, Gabriele mi aveva detto: “Tu sei nel cast. Non so che cosa ti farò fare, ma tu sei nel cast”. Il provino era a Trieste, ci ero andato in macchina con mio papà, e al ritorno abbiamo urlato tutto il tempo per la felicità con i finestrini abbassati, in tangenziale. Quindi, quando poi mi è arrivata la notizia che avrei fatto il personaggio di Brando Volpi, ci sono rimasto così male perché mi aspettavo di fare il protagonista. Però poi ho letto il copione, mi sono innamorato follemente del mio personaggio e sono stato felicissimo. Poi, Gabriele è una persona d’oro, io non ho mai conosciuto un regista con quell’umanità. Noi avevamo tutti 12 o 13 anni, e lui solo se lo vedevi da fuori sembrava trattarci come dei bambini, ma noi che eravamo dentro avevamo l’impressione che lui ci trattasse come dei suoi pari. È stato veramente bellissimo.
C’è una frase di Gabriele che non mi dimenticherò mai – stavamo girando una delle ultime scene del film, quella in cui esplode la chiatta, dopo la quale avremmo dovuto girarne un’altra in cui io, che facevo il bulletto della scuola, mi riappacificavo con Michele, il protagonista; questa scena l’abbiamo provata più volte, perché non riuscivamo a farla bene, e Gabriele è venuto lì da noi, ci ha presi in disparte e ci ha detto: “Ora vi racconto una storia. Una volta stavo lavorando con un attore, e questo attore non riusciva a fare questa scena; allora, gli ho detto: ‘Prova a recitarla di meno’; lui mi fa: ‘Cosa vuol dire recitarla di meno?’, e io: ‘Tu intanto togli, poi vediamo’”. Alla fine, ci ha raccontato che questo attore, pur “togliendo”, risultava ancora troppo impostato, e dopo tre, quattro, cinque, sei ciak in cui non riusciva a fare questa scena, si scazza e dice, “Gabriele, che devo fare, non devo recitare?” e lui gli fa:
“Esatto. Tu non devi recitare”.
Quella frase ha completamente cambiato la mia visione della recitazione. Ho capito che, alla fine, sì, devi saper recitare, devi sapere tante cose tecniche anche sulla macchina, su dov’è la macchina nel momento in cui tu fai una determinata azione, però questa cosa di “non recitare” mi ha completamente cambiato la vita, e la sto riscontrando anche adesso, studiando in accademia. Io adesso sto frequentando il Centro Sperimentale di Cinematografia, sede Lombardia, quindi quello di Milano. Effettivamente, la recitazione è proprio basata sugli impulsi, su quello che senti veramente nella scena, quindi segui un flow, una pista, che però è improvvisata, in parte, perché ovviamente devi seguire un copione; però, quello che provi durante la scena non è necessariamente quello che c’è scritto sul copione, dipende da te, e quella frase di Gabriele mi ha davvero cambiato la vita.
Cos’è che ti ha fatto capire di voler vivere e lavorare in questo mondo?
Io ho iniziato da molto piccolo: avevo 6 mesi, mia madre mi aveva iscritto ad un’agenzia di pubblicità e sono stato preso subito a quell’età.
Per una piccola parte della mia infanzia, è stato un lavoro “guidato” dai miei genitori, ma mai spinto, perché loro mi hanno sempre lasciato libero di fare quello che volessi fare. Il fatto è che a me piaceva stare sul set, e me ne sono reso conto veramente con “Il ragazzo invisibile”, ma poi anche con tutti i lavori successivi, quando ho lavorato con Sorrentino, ho fatto una piccola parte in “The New Pope”, e poi con Ozpetek, in un cortometraggio pubblicitario per Mediolanum con Filippo Nigro.
In realtà, ho capito che questa era la strada che volevo prendere già da molto più piccolo, però, non avendo affrontato un vero e proprio set allora, non sapevo cosa volesse dire. Diciamo che la passione è nata sul mio primissimo set, quello di Giovanni Rana: lì ho deciso che quello sarebbe stato il lavoro della mia vita, perché mi piaceva stare a contatto con gli adulti, mi piaceva capire battute che altri ragazzi della mia età non capivano, mi piaceva stare in un mondo in cui venivi trattato come una persona che lavorava anche se aveva 7 anni.
Alla fine, ho capito che, essendo una persona molto estroversa, a cui piace relazionarsi con gli altri, studiare le altre persone, guardarle per ore e poi imitarle, essere attore è una cosa spettacolare, perché significa che tu puoi essere venti persone diverse nel giro di un anno pur restando sempre te stesso, ma cambiando delle piccole parti del tuo cervello, perché quella piccola parte del tuo cervello è stata a contatto con una persona che era simile a quel personaggio che stai interpretando. Questa cosa mi ha completamente blow up-pato! [ride]
“Essere attore è una cosa spettacolare, perché significa che tu puoi essere venti persone diverse nel giro di un anno pur restando sempre te stesso”
Il trasformismo sembra un po’ una costante nei tuoi progetti, nessuno dei ruoli che hai interpretato fino ad ora è simile all’altro. Cosa ti spingere a scegliere un progetto piuttosto che un altro? Quando capisci che la sceneggiatura che stai leggendo è “quella giusta” per te?
Quando non mi suona male il copione.
Nel senso che, e questo lo stiamo anche studiando adesso in accademia, di norma in un copione dev’esserci sempre un sottotesto: quello che tu dici non è mai veramente quello che intendi. Questa cosa la riscontri anche nella vita reale, quando tu stai dicendo una cosa che non vorresti dire, non la dici mai veramente così com’è, ma la dici in modo da far capire all’altra persona che tu stai intendendo quella cosa lì. I copioni scritti in questo modo, con un sottotesto che abbia un senso, mi fanno impazzire; se, invece, sono copioni in cui i personaggi dicono esattamente quello che pensano, non mi piacciono per niente; non ti dico che non faccio il provino, perché comunque il provino lo faccio, glielo mando e quello che succede, succede, però se dovessi veramente scegliere, opterei per delle scritture decenti [ride].
Poi, ovviamente, è importante anche come mi trovo, lavorativamente parlando, con il regista o con le altre persone che ci sono lì al provino. Anche se, sai, con il Covid e tutto il resto, ormai i provini in presenza sono rari, è tutto quasi in self-tape, quindi sei tu, a casa, da solo, senza un contesto, senza un altro attore professionista a fare il provino con te. Adesso, fortunatamente, ho altri compagni di corso che sanno recitare e quindi ci organizziamo e riusciamo a darci una mano.
Anche parlando di location e ambientazioni, hai abitato nella fantascientifica Trieste de “Il ragazzo invisibile”, nella Roma sorrentiniana di “The New Pope”, nella Milano degli anni ’80 di “Bang Bang Baby”, luoghi ed epoche completamente diversi fra loro. Cosa ti affascina di questa specie di teletrasporto? Come ti prepari, di volta in volta, prima di iniziare le riprese?
Mi affascina proprio la definizione di teletrasporto!
Il fatto che tu possa vivere delle epoche diverse nonostante tu sia nel 2022, e con tutto il politicamente corretto che c’è adesso e che mi sta estremamente sul cazzo. In “Bang Bang Baby”, per esempio, c’è la prima scena, quella delle patatine con dentro il pene: quella roba lì, se fosse ambienta nei giorni nostri, avrebbe fatto storcere il naso a chiunque; invece, col fatto che siamo negli anni ’80, puoi fare quello che vuoi, letteralmente. Poi, io sono un grande fan della stand-up comedy, mi piace Ricky Gervais, Daniel Sloss, Louis CK, e questo mi anche un po’ aperto la mente da questo punto di vista, perché spesso raccontano di spettacoli passati in cui potevano dire quello che volevano. Poi loro se ne fregano e lo dicono comunque anche adesso, perché fanno black humor, ma effettivamente mi rendo conto che questa cosa è vista di malocchio.
In Italia soprattutto, poi, perché al di fuori di qui la situazione è già diversa…
Sì, assolutamente, in Italia è così purtroppo, e questa cosa mi da fastidio da morire.
Che domande fai a te stesso quando leggi una sceneggiatura per la prima volta?
La prima cosa che mi viene in mente quando leggo una sceneggiatura è: suona bene quello che sto dicendo, effettivamente?
Perché spesso mi viene anche voglia di cambiare le battute nel modo in cui una certa cosa la direi io… Poi, molte volte mi chiedo se io possa andare bene o meno per un certo ruolo. Spesso, infatti, mi arrivano provini per ruoli di 27enni calabri, e io dico: “Ragazzi, va bene, ve lo faccio in dizione, okay, però cazzo” [ride].
Quindi, quando interpreti un personaggio, di solito tendi ad essere più razionale o istintivo?
Entrambe le cose.
Sono istintivo nel momento in cui faccio la scena: quando recito, mi lascio completamente andare e divento il mio personaggio. Prima, se c’è una preparazione da fare e stiamo in camerino per tanto tempo, la scena la studio, passo ore a leggerla, a vedere che cosa potrei fare, e poi, magari, quando vado in scena, non faccio nulla di quello che ho pensato, semplicemente, mi viene quello che mi viene.
Ognuno di noi ha la propria valvola di sfogo: c’è chi medita, c’è chi scrive, c’è chi si allena. Tu cosa fai quando hai bisogno di staccare?
A me piace tantissimo uscire con i miei amici di una vita, giocare a basket, e anche giocare a scacchi, perché ti concentri talmente tanto sulla partita che tutto il resto passa in secondo piano. Uno dei miei migliori amici è albanese, e in Albania c’è una cultura degli scacchi molto forte, e metà delle persone albanesi che conosco si sono fatte insegnare a giocare a scacchi dal nonno (che in albanese si dice “baba”) o dai genitori, quindi con questo mio amico gioco a scacchi da una vita; quando giochiamo, è buio totale, esiste solo la scacchiera, la persona che ho davanti, e tutto il resto passa in secondo piano. La stessa cosa vale per il basket, io gioco a basket da 13 anni e per me è un po’ una terapia, significa sfogarmi anche semplicemente da un punto di vista fisico.
Effettivamente, fare l’attore come unico lavoro è una cosa abbastanza ansiogena, nel senso che tu puoi lavorare tre o quattro mesi di fila e poi, per il resto dell’anno, magari non fai niente, e ti deprimi in una maniera schifosa. Il basket mi ha aiutato tantissimo. Poi, io appartengo ad una famiglia di cestisti, mio padre giocava in eccellenza, mia madre ha giocato per 20 anni, anche se io in realtà ho fatto tanti sport, taekwondo, nuoto, tennis, ping pong…
Calcio?
Il calcio è un po’ bandito in casa mia, sai? [ride] Una volta, quando avevo più o meno 10 anni, ho provato a dire a mia madre: “Mamma, tutti i miei amici fanno calcio, mi porti al campetto? Voglio provare!”. Mia madre mi fa: “Cosa hai detto?! Tu non esci di questa casa se non mi dici che vuoi giocare a basket”. Poi, effettivamente, ho provato a giocare a basket e ho capito che è il mio mondo, è proprio lo sport che mi piace fare.
“…quando giochiamo, è buio totale, esiste solo la scacchiera, la persona che ho davanti, e tutto il resto passa in secondo piano”.
Il tuo must-have sul set?
Sigarette.
Mi aiutano a concentrarmi e a passare i tempi morti. Il fatto è che quando reciti non puoi tenere cose in tasca, quindi magari sul set le sigarette le nascondi sotto al cuscino, e io, appena c’è un tempo morto, fumo. In realtà, non fumo tantissimo, soprattutto d’inverno, però quando lavoro ne ho bisogno, anche perché la sigaretta ti include all’interno dell’ambiente (tutti fumano all’interno dell’ambiente), ed è la scusa per avere quella pausa di cinque minuti. Per dirti, ho conosciuto molti attori che invece devono necessariamente avere il telefono sul set, ma è una cosa che io non comprendo. Io il telefono lo odio, fosse per me non lo avrei, però devo lavorare… [ride]
Io odio avere interazioni con altre persone che non siano dal vivo.
Quindi, ti sarebbe piaciuto nascere e vivere in tempi diversi dai nostri? O ti senti figlio della nostra epoca?
Mi sento figlio della nostra epoca perché ci sono nato e ci vivo, e ho imparato tante cose sulla tecnologia, che mi ha insegnato mio padre quando ero bambino, però, fosse per me, io vivrei negli anni ’90.
Gli anni del Game Boy…
Sì, ecco, per esempio sono un gran videogiocatore, ma non di PlayStation, mi piace di più il mondo Nintendo, Mario, Pokémon… Gli sparatutto e quelle robe lì mi rompono le palle.
“Fosse per me, io vivrei negli anni ’90”
La collaborazione cinematografica dei tuoi sogni?
Tim Burton!
Un epic fail sul set?
Uuuh… ce l’ho. In realtà, non è capitato a me, però è stato motivo di riso per più o meno due ore.
Sempre ne “Il ragazzo invisibile”, in quella scena in cui esplode la chiatta, c’erano dei fuochi d’artificio finti, piccolini, poi da modificare in CGI successivamente; nella parte in cui noi scappiamo tutti insieme dalla chiatta, è successo che Filippo [Valese], che interpretava Martino, il ragazzino che viene rapito per primo, si lancia sul materasso (che ovviamente in camera non si vede), passa questo copertone infuocato sulla sua gamba, e i suoi pantaloni prendono fuoco. Siamo stati lì diversi minuti a cercare di spegnergli i pantaloni, è stato divertentissimo.
Di miei epic fail non saprei cosa raccontare, però di situazioni di imbarazzo sì, assolutamente. Per esempio, in “The New Pope”, c’era una scena in cui dovevo fare delle cose “promiscue” con una signora che nella vita reale aveva due figli, ma nella serie interpretava una prostituta che veniva pagata per stare con i ragazzi della villa. È stato imbarazzante, perché c’erano diverse persone dietro la telecamera e io ero con questa signora con il seno di fuori e dovevo toccarglielo, è stato un po’ angosciante.
Però, sono cose a cui poi ti abitui!
Qual è stato il tuo ultimo binge-watch, se sei uno che guarda le serie tutte d’un fiato? A me per esempio, è una cosa che non piace fare…
Sì, neanche a me fa impazzire, infatti. Quindi, ti dico le mie due serie preferite: “Vikings” e “Breaking Bad”. L’ultima che ho visto invece è “The Office”.
La canzone che non riesci a smettere di ascoltare in questo periodo? E quella che descrive questo preciso momento della tua vita?
Cazzo, tostissima questa! [ride]
In questo periodo della mia vita, mi piace tanto ascoltare rap francese, drill francese. Invece, il mio artista italiano preferito in assoluto è Caparezza, un genio, ho iniziato ad ascoltarlo in quarta elementare. Ti dirò, in realtà ascolto di tutto, spazio molto. Non mi fanno impazzire le boy band, le cagatine così, anche se, per esempio, Justin Bieber, che quando avevo 14 anni mi faceva cagare, adesso è un artista che ascolterei.
Canzoni che non riesco a smettere di ascoltare invece… Quelle di Paky, lui mi piace di brutto in questo periodo, è un rapper che fa un po’ anche trap e drill, è napoletano ma vive a Rozzano da un sacco di anni. Rappresenta la periferia, un po’ come tutti i rapper, però lui secondo me, nella scena del rap attuale, è quello un po’ più vero, che la merda l’ha vissuta davvero, sa quello che dice, e mi piace la cattiveria, la cazzimma con cui dice le cose. Vedi, le canzoni che ascolto in questo periodo sono tutte un po’ dance, però come genere che ascolto più di tutti, direi il rap degli anni ’90: Eminem, Dr. Dre, 50 Cent, Busta Rhymes.
La canzone che ascolto proprio come gli scemi tutti i giorni in questo periodo è “No Church in the Wild” di Kanye West e Jay-Z.
“No Church in the Wild”
Il tuo più grande atto di ribellione?
Tagliarmi i capelli a zero.
È stata una cosa molto improvvisa, nel senso che io per 20 anni ho sempre tenuto i capelli lunghi, perché mia mamma, la mia manager, e un po’ chiunque mi dicevano che se volevo fare l’attore dovevo tenere i capelli lunghi, perché “per accorciarli fai sempre in tempo, per allungarli invece è un casino, ti devono fare la parrucca, è un lavoro in più e magari prendono qualcun altro”. È una cosa che ha estremamente senso, però io, arrivato a 22 anni, mi sono reso conto di non aver mai avuto i capelli corti in tutta la vita, e allora ho detto: “Fanculo, io mi raso”. Se penso alla mia personalità, al mio essere, al mio cervello, questo è stato l’atto più ribelle che ho fatto.
Di cosa hai paura, invece?
Come un po’ tutti, credo, ho paura di rimanere solo. Ho anche paura di non realizzarmi.
Cosa ti fa sentire al sicuro?
Mia nonna, milanese. Mi ha cresciuto a pane e milanese da quando avevo 0 anni, perché non ho fatto l’asilo nido e quindi sono cresciuto a casa sua. Mia nonna è una forza della natura e non capisco come faccia, ha 82 anni e va a ballare con gli amici, è completamente fuori di testa, ed è un po’ l’altra mia metà.
Cosa significa sentirsi a proprio agio nella propria pelle per te?
Secondo me vuol dire sbattersene il cazzo del giudizio degli altri, semplicemente questo.
La tua isola felice?
Stranamente, è davvero un’isola, l’isola d’Elba. Vado in vacanza lì da ormai otto anni, ho la mia compagnia e quando sono lì è abbandono totale e sono felice. Anche se gli amici più stretti ce li ho a Milano, l’isola d’Elba resta un posto in cui ho conosciuto tantissime persone, ho fatto tantissime esperienze, per esempio è lì che ho perso la verginità, è un posto in cui mi sento sicuro.
L’ultima cosa o persona che ti ha fatto sorridere?
Mia sorella, oppure la mia migliore amica.
Photos by Johnny Carrano.
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