Mare, tramonti, vento.
Venezia, scatti rubati sul lungomare, amore per il cinema.
Soprattutto quando il cinema diventa un tutt’uno con la vita.
Ed è così per Jacopo Olmo Antinori che, durante la Mostra del Cinema di Venezia, ha ricevuto il Premio Kinéo: abbiamo passeggiato con lui tra terra e mare per parlare di amore per la recitazione, esperienze sul set e del tesoro più prezioso che ci sia: l’amicizia. Dopo le recenti esperienze sul set di “Weekend” e della seconda stagione di “Diavoli“, Jacopo ha compreso il fatto che la paura del cambiamento, delle sfide o dei piccoli, grandi atti di ribellione, esiste, e che accettarla, anche se terrificante, è la chiave per recitare (e vivere) al meglio.
Qual è il tuo primo ricordo legato al mondo del cinema?
Avevo tre anni quando uscì “La compagnia dell’Anello” di Peter Jackson. All’epoca, mia madre mi leggeva “Lo Hobbit” a letto, prima di addormentarmi. Pensò che sarebbe stata una bella idea portarmi a vedere il film. Peccato però che dopo nemmeno venti minuti di film, arrivano i Nazghul che vanno a caccia di Frodo per recuperare l’anello. Scappai dalla sala in lacrime, terrorizzato da quei terrificanti cavalieri neri. Oggi però, “La compagnia dell’Anello” è uno dei miei film preferiti in assoluto.
Il tuo esordio cinematografico avviene nel 2012 con il film “Io e te”, diretto da Bernardo Bertolucci, in cui interpreti il protagonista Lorenzo. Conservi memorie particolari di quella prima esperienza? Quali “lezioni” hai imparato su quel set?
Avevo quattordici anni, era la mia prima vera esperienza su un set, protagonista di un film di uno dei registi più importanti della storia del cinema, che non faceva un film da dieci anni… era inevitabile che diventasse una se non LA esperienza fondativa della mia vita. Bernardo non mi ha dato lezioni, ma lui e la sua troupe mi hanno insegnato con la pratica cosa significa amare il cinema. Mi ricordo una sera — giravamo una scena notturna in un appartamento — Bernardo mi ha chiesto se avessi visto qualche film di Antonioni. Io non avevo nemmeno idea di chi stesse parlando. Lui allora, iniziò a raccontarmi di “Deserto Rosso“.
“Bernardo non mi ha dato lezioni, ma lui e la sua troupe mi hanno insegnato con la pratica cosa significa amare il cinema”.
Tra i tuoi ultimi progetti, il thriller italiano “Weekend”, in cui interpreti uno dei protagonisti reclusi in un cottage montano, e la serie “Diavoli” (seconda stagione). Come hai approcciato queste esperienze diverse fra loro sia a livello di produzione (italiana vs inglese), sia a livello di genere? Quali sfide hai dovuto affrontare e superare?
Onestamente non si è trattato in nessuno dei due casi di qualcosa di drasticamente nuovo; non era terreno sconosciuto. Tuttavia, “Weekend” è stato forse il lavoro più faticoso della mia carriera finora, almeno a livello fisico. Abbiamo girato a cavallo del lockdown, mentre io stavo scrivendo la mia tesi di laurea, e per problemi logistici legati al covid siamo finiti a girare diverse scene invernali nel mezzo dell’estate. Ho scoperto quanto il caldo eccessivo possa mettere sotto pressione la mente, oltre che il corpo.
La tua carriera, gli incontri, i numerosi progetti in cui ti sei cimentato, ti hanno fatto scoprire qualcosa di nuovo su te stesso?
Mi viene da rispondere un po’ come fece Antonioni, interrogato da Godard su un Cahiers du Cinema di metà anni 60, credo proprio nel periodo di Deserto Rosso. Antonioni dice: “Mentre facciamo un film, rimaniamo vivi, e perciò anche durante le riprese stiamo sempre affrontando anche i nostri problemi personali.” Il mio lavoro è un tutt’uno, in totale continuità con il resto della mia vita. È ovvio che il mio mestiere, in quanto parte della vita appunto, mi abbia fatto scoprire molto. Difficile disgiungere le due cose.
“Il mio lavoro è un tutt’uno, in totale continuità con il resto della mia vita”.
Ripensando alle tue esperienze tra set e teatro, qual è la scena più difficile e quella più divertente che ricordi di aver recitato?
Più difficile: una giornata di riprese per “Weekend” in uno studio di posa a Roma, in pieno Luglio; dovevo tenere addosso un maglione che sarà stato spesso almeno due centimetri abbondanti: poche volte nella vita ho sudato così tanto. La più divertente… tutte. Stare sul set è sempre la cosa più divertente del mondo.
Cosa ti fa dire di sì ad un progetto?
Una volta ho incontrato un attore che aveva una teoria su questa cosa. Diceva che in ogni progetto andrebbe valutato il valore dal punto di vista artistico, della carriera e del portafoglio, e che una cosa vale la pena farla solo se soddisfa almeno due di questi tre requisiti. Non so se sono d’accordo, ma sicuramente spero di avere abbastanza fortuna da potere, almeno ogni tanto, continuare a scegliere solo seguendo il valore artistico di un progetto.
Quando crei un personaggio, sei più razionale o istintivo?
Ancora, sono due aspetti entrambi fondamentali e difficili da scindere per me. Diciamo questo: la mia tendenza di base è di essere decisamente mentale, razionale — quindi a volte ho bisogno di compensare aprendo le porte all’istinto.
“La mia tendenza di base è di essere decisamente mentale, razionale — quindi a volte ho bisogno di compensare aprendo le porte all’istinto”.
Cosa rappresenta per te il Premio Kinéo?
Un onore, una bellissima sorpresa, un motivo di gioia. E poi, un’ppportunità per tornare un’altra volta ancora a Venezia. Potesse essere tutti gli anni così…
Qual è il peggior consiglio e il miglior consiglio che ti abbiano mai dato?
Il peggior consiglio: suggerirmi di continuare a fare l’attore. Il migliore: consigliarmi di vedere “La Grande Illusion” di Renoir.
Sei una “Giovane Rivelazione” dell’anno: qual è stata un’importante rivelazione della tua vita, ad oggi?
Che contrariamente a quello che pensava Proust, la gelosia è un male assoluto e l’amicizia, invece, il tesoro più grande che l’essere umano può possedere.
“La gelosia è un male assoluto e l’amicizia, invece, il tesoro più grande che l’essere umano può possedere”.
Un epic fail sul set.
Non saprei. Ne ho fatte una serie, ma probabilmente la peggiore è una di cui non mi sono mai reso conto — qualcosa che qualcun altro su quel set avrà visto da fuori pensando, “guarda questo che cretino…” senza che io mi fossi accorto di quello che avevo fatto. Non siamo mai tanto ridicoli come nei momenti in cui non lo sospettiamo.
Il tuo must-have sul set.
Non ci ho mai pensato, ma probabilmente gli stralci. Così poi a metà della giornata posso lasciarli in giro da qualche parte senza averli davvero usati.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Accettare di avere paura.
Di cosa hai paura invece?
Spesso, di fronte a una grande difficoltà, un imprevisto, o anche davanti ad alcune grandi problemi della società e del mondo, sperimento una paura molto forte di non riuscire a farcela. È una cosa che non ha quasi mai basi razionali, che non si giustifica oggettivamente. Col tempo sto iniziando a capire che sotto, probabilmente, c’è la paura del cambiamento. Mi sono sempre considerato una persona dalle vedute aperte, ma solo oggi comincio a riconoscere quanto terrificante possa essere accogliere il cambiamento. Non è un processo semplice e ovvio come mi è sempre piaciuto credere.
“Mi sono sempre considerato una persona dalle vedute aperte, ma solo oggi comincio a riconoscere quanto terrificante possa essere accogliere il cambiamento“.
Il tuo più grande atto di ribellione?
Io ho fatto il liceo scientifico. Quando ero in quinta, la mia classe era entrata in conflitto con il professore di Matematica e Fisica. Alcuni tra i miei compagni più ’agitatori’ riuscivano a organizzare delle specie di scioperi di classe, mettendo d’accordo tutti per non presentarsi alle simulazioni del compito di Matematica dell’esame di stato. A me non importava: non avevo nulla da recriminare al professore, avevo studiato, e onestamente mi piaceva la materia e il misurarmi con un compito difficile. E quindi il mio gesto di ribellione era presentarmi comunque alle simulazioni, in barba alle decisioni del resto della classe. Più volte è capitato che fossi l’unico a presentarsi in classe. Credo che alcuni dei miei compagni mi abbiano sinceramente disprezzato all’epoca.
Cosa significa, per te, sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Accettare il momento presente, quello che ho davanti in questo momento — non lasciarmi trascinare da una mente che, magari, vuole essere da qualche altra parte. È ancora una volta una questione di accettazione.
Quali storie sogni di raccontare?
Il mio sogno è poter girare, da regista, un adattamento di “Novantatré”, un romanzo meraviglioso di Victor Hugo sulla guerra controrivoluzionaria in Vandea.
La tua isola felice?
La sala di un auditorium dove stanno suonando Mozart. Possibilmente al pianoforte.
“Non lasciarmi trascinare da una mente che, magari, vuole essere da qualche altra parte”.
Photos by Johnny Carrano
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