“E per quanta strada ancora c’è da fare…”
C’è chi dice che il nostro percorso sia già stato scritto, chi invece ritiene che nulla ancora sia definitivo. E ancora, c’è Alessandro Piavani, che nella vita ha preferito imboccare sentieri non tracciati, per scoprire dove lo porteranno. Fino ad ora, tra le tappe, può contare la partecipazione a progetti quali “The Little Drummer Girl” e “Blocco 181”, oltre all’aver ricevuto il Premio Kinéo Giovani Rivelazioni. È proprio a Venezia, a pochi minuti dal red carpet della cerimonia di premiazione, che lo incontriamo in camera sua per parlare della profondità del cinema e del mestiere dell’attore. Tra la voglia di mettersi in gioco, di fare scelte che lo aiutino a crescere sia come persona che come professionista e la preparazione ad un personaggio, Alessandro ci ricorda l’importanza dell’empatia e dell’accogliere le cose così come vengono, senza avere sempre pronta per forza la risposta alla domanda che più gli fa paura: “E adesso?”.
Qual è il tuo primo ricordo legato al mondo del cinema?
Quando avevo 4 o 5 anni ero convinto che i film in sala si potessero vedere grazie a un videoregistratore gigante posto sotto lo schermo, e che 40 persone dovessero trasportare un VHS gigante prima che gli spettatori entrassero in sala. Poi, pensando di aver avuto l’illuminazione, ho realizzato che un videoregistratore normalissimo funziona anche con uno schermo enorme. Ma non riuscivo a spiegarmi come mai dovessi attendere così tanto prima che i miei film preferiti uscissero in VHS, dal momento che la cassetta esisteva già. Mi ci è voluto un po’ di tempo per girare la testa in sala e vedere il proiettore.
Hai partecipato a numerosi progetti italiani e internazionali, tra film (“Saremo giovani e bellissimi”) e serie tv di successo come “I Medici”, “The Little Drummer Girl” e “La mafia uccide solo d’estate”. Cos’è quella cosa che ti fa dire di sì ad un progetto?
Penso che a inizio carriera sia importante lavorare il più possibile per crescere il più possibile. Io sono stato fortunato, perché la maggior parte dei lavori che ho fatto fino adesso sono stati progetti in cui credevo, ma so che sarebbe stato difficile dire di no a un progetto che magari non mi convinceva al cento per cento. Ora mi sembra di essere a un punto diverso del mio percorso: posso parlarne liberamente col mio agente e fare delle scelte più ragionate.
Le cose che mi muovono di più sono storia e visione. Quindi sceneggiatura e regia.
Ci sono storie che non possono non essere raccontate e registi con cui non si può non lavorare.
Che domande fai a te stesso quando vedi una sceneggiatura per la prima volta?
La prima volta che la leggo cerco di farmi meno domande possibili. Se gira bene non devo chiedermi niente. Mi piace quando una sceneggiatura ha qualcosa da dire, e non scende a compromessi per dirlo.
Uno dei tuoi ultimi progetti è la serie Sky Original “Blocco 181”. La serie racconta le comunità multiculturali che vivono nel blocco 181 della periferia milanese, e tu interpreti Ludo, un pesce fuor d’acqua, in un certo senso, perché viene dall’“alta borghesia”, diversamente dagli amici. Come ti sei approcciato a questo personaggio? E come sei riuscito a bilanciare le sue sfaccettature?
Per me Ludo è stato un personaggio irresistibile. Un Peter Pan che fa fatica diventare grande e a trovare un suo posto nel mondo, che conduce una vita dissoluta per anestetizzare la solitudine e la paura di non essere amato. È stato difficile resistere alla tentazione di indugiare troppo nel suo lato sregolato. È un lato che Ludo usa per nascondersi, e avevo paura che così facendo mi sarei nascosto anche io. Per me era importante mostrare anche la sua parte più sensibile e vulnerabile. Però non saprei dire come ci sono riuscito.
Cosa ti è “rimasto” di Ludo?
Tutto. Nel senso che tutto quello che c’è in Ludo c’è in me. E viceversa. Per me è difficile fare un distinguo, sono io e non sono io allo stesso tempo.
Ludo ha in sé molta solitudine. Come la vivi personalmente?
Vivo la solitudine a volte accogliendola, e anche ricercandola, perfino, e altre invece soffrendola. Però penso che possa essere una compagna preziosa, un momento fertile specialmente per il processo creativo.
“Tutto quello che c’è in Ludo c’è in me. E viceversa”.
Immaginiamo che, nel fare il lavoro dell’attore e nell’immedesimarsi sempre in altre persone, si vengano a scoprire anche nuove cose di sé stessi. Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te?
Ho scoperto di aver voglia di accogliere: intendo nel senso di accettare, accogliere le cose così come vengono, così come sono, senza aver bisogno di controllarle o di cambiarle ad ogni costo. Trovo che questo sia molto liberatorio, specialmente in un mestiere come il mio in cui la maggior parte delle cose sono fuori dal mio controllo.
Qual è la scena più difficile e quella più divertente che ricordi di aver recitato?
Per me tutte le scene sono difficili. Anzi, le più difficili a volte sono quelle in cui in apparenza non accade nulla, in cui devi solo muoverti, spostare cose: mi sembra di dimenticare come si facciano le cose più basilari. Molte delle scene in “Blocco 181” sono state divertenti, una tra tutte: quella in cui i ragazzi si buttano in piscina e hanno il loro primo, vero avvicinamento.
Quando prepari un personaggio, sei più razionale o istintivo?
Alle audizioni vado d’istinto, anche perché la maggior parte delle volte le informazioni che si hanno sulla storia o sul personaggio sono essenziali. Poi in fase preparatoria prima di girare mi piace essere molto analitico e farmi molte domande, che il più delle volte neanche servono. Una volta sul set però mi piace dimenticare tutto e stare nel momento presente.
“Ho scoperto di aver voglia di accogliere: intendo nel senso di accettare, accogliere le cose così come vengono, così come sono, senza aver bisogno di controllarle o di cambiarle ad ogni costo”.
Cosa rappresenta per te ricevere il Premio Kinéo?
È un grande onore. Lo ricevo umilmente, sperando che sia il segno di essere sulla strada giusta.
Sei una “Giovane Rivelazione” dell’anno: qual è stata un’importante rivelazione della tua vita, ad oggi?
Alla base del mio mestiere c’è l’empatia: mettersi nei panni di qualcuno che è diverso da te, comprenderne i motori e i funzionamenti dell’anima, senza necessariamente comprenderne le ragioni. Mi sembra che un errore comune che facciamo è credere di dover comprendere l’altro per accettarlo. Non è così. L’empatia non richiede comprensione. Ci sono cose che non potremmo mai capire a fondo delle persone che non sono (o che pensiamo non siano) come noi, ma ciò non dovrebbe impedirci di accoglierle.
“L’empatia non richiede comprensione”.
Il tuo must-have sul set.
La mia sceneggiatura scarabocchiata.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Cercare di vivere autenticamente senza aver paura del giudizio altrui. A volte è semplice, altre volte richiede grande coraggio.
Di cosa hai paura invece?
Di non poter fare questo mestiere per il resto della mia vita. Gran parte del nostro lavoro, specialmente all’inizio, è fatto di ‘non lavoro’. Ogni volta che un progetto finisce, la domanda è sempre quella: “E adesso?”. E non sempre il prossimo ruolo è dietro l’angolo.
Il tuo più grande atto di ribellione?
Inseguire un sogno che non ha un percorso tracciato.
“E adesso?”
Cosa significa, per te, sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Significa accettarmi per quello che sono, con le mie idiosincrasie e i miei malfunzionamenti. Ancora più importante per me è replicare questo paradigma anche per l’altro.
Quali storie sogni di raccontare? E di scrivere?
Per scrivere o raccontare una storia ho bisogno di un’urgenza. Devo sentire la necessità di quello che scrivo ancor prima di scriverlo. E siccome questo non accade spesso, ho molte storie incompiute nel cassetto. Spero di riuscire presto a trovare quella che vale la pena di essere raccontata.
L’ultima cosa o persona che ti ha fatto sorridere?
I mie nipoti. Non importa quanti film io faccia o quante Venezie ci saranno nella mia vita, per loro sarò sempre Zio Ale. Oggi mi hanno stracciato a Mario Kart.
Photos by Luca Ortolani
Total look by Zegna