A maggio del 2022, mentre mi trovavo a Londra, sono stata da Selfridges e, al terzo piano, sono stata attratta dal corner di HURR, una piattaforma di fashion renting molto popolare: seguendo questa realtà sui social, mi sono soffermata per capire più da vicino come funzionasse la dinamica del noleggio in ambito fashion, con una proposta di capi che spaziavano da Self Portrait a Rodarte, ideali per occasioni sia formali che non.
Nel dicembre del 2022 poi, Kate Middleton, all’Earthshot Prize a Boston, ha sfoggiato un abito di Solace London noleggiato proprio sulla piattaforma HURR. Saltiamo quindi ad aprile 2023: tornata a Londra, e tornata da Selfridges, ho costatato con piacere l’espansione dell’area di HURR dedicata al fashion renting e della varietà di abiti disponibili.
Indubbiamente, c’è stato un incremento di visibilità dovuto al fenomeno Kate Middleton, ma non solo: il fashion renting infatti è una delle alternative al fast fashion in continua espansione, destinata a far parlare di sé sempre più; all’estero, è un fenomeno già più consolidato, ma anche in Italia si stanno aprendo spiragli di conversazione che lasciano intendere quanto i consumer siano interessati a capire le effettive alternative all’acquisto “standard”, per così dire.
Una nuova mentalità infatti, sta diventando sempre più standard e coinvolge tutte quelle forme di shopping consapevole: dal fenomeno vintage al boom di applicazioni come Vinted e Vestiaire, dai numerosi mercatini dell’antiquariato ai volenterosi che si cimentano nel creare da sé i propri abiti, “qualcosa si muove”, per semicitare il buon Galieo Galilei. Ma le alternative non si esauriscono di certo qui: in un’epoca di globalizzazione e di connessione continua, le tendenze dell’acquisto sostenibile cambiano, si espandono e si sviluppano, toccando sempre più target e sempre più diversi tra loro oltretutto. In che modo? O meglio, in che modi?
DALLE VIDEOCASSETTE AGLI ABITI, IL RITORNO IN AUGE DEL NOLEGGIO
Ora, non voglio fare discorsi da boomer, ma quanto era bello da piccoli andare alla videoteca per scegliere prima la videocassetta, e poi il dvd, da guardare quella sera con la propria famiglia o amici? Momento lacrimuccia nostalgica a parte, era un vero e proprio fenomeno che, all’epoca, sembrava non sarebbe mai scomparso. Ma l’evoluzione ha giustamente fatto il suo corso e, se oggi nominare le videocassette ci fa sentire anziani, il fashion invece ha fatto suo questo meccanismo, con un discreto successo (soprattutto in America o UK) che lascia presupporre che sentiremo parlare ancora del fashion renting. I negozi o piattaforme che offrono questo servizio, consentono ai clienti di affittare temporaneamente capi e accessori, con diversi piani di noleggio: molto apprezzato soprattutto per le cerimonie (che spesso ci portano ad acquistare abiti che poi finiamo per non mettere più perchè più impegnativi), permette di sperimentare con scelte e stili che, altrimenti, nel quotidiano non troverebbero spazio nel nostro guardaroba. Non solo la soprannominata Hurr, ma anche realtà come Rent the Runway e Le Tote dimostrano il successo di questa alternativa. In Italia, tra i nomi più popolari, troviamo invece Revest, DressYouCan e Sisterly (il primo marketplace italiano per il noleggio di borse di lusso tra utenti). Che sia dunque per un’occasione specifica, per sfoggiare una borsa tanto desiderata ma dai prezzi alti o per introdurre una nuova quotidianità nelle proprie scelte di abbigliamento, il fashion renting è un fenomeno in continua espansione. Victoria Prew, founder di HURR, ha affermato che, entro 5 anni, i brand più seri e, soprattutto, i retailer multi-brand, includeranno il fashion renting nelle loro proposte: e, non a caso, Kering ha già iniziato a parlare di questa possibilità per i propri brand… In che modo si espanderà dunque questa bella opportunità, la scopriremo strada facendo.
LOCALMENTE È MEGLIO
Tra i contro della globalizzazione sicuramente rientra il fatto che quasi tutto ormai è disponibile quasi ovunque: vedo un bel vestito su TikTok che una ragazza ha acquistato in un negozio della California e io abito in provincia di Milano? Che problema c’è, posso ordinarlo. Quell’icona K-pop che seguo ha sfoggiato un particolare accessorio durante un concerto a Seoul? No problem, tempo 2 giorni lavorativi e arriva anche da me. È ovvio che tutti abbiamo ceduto a queste dinamiche e che continueremo a farlo per cose più particolari, ma per quelle da tutti i giorni invece, quelle più semplici, perchè non possiamo informarci sulle realtà locali? Tutti sono sui social, tutti fanno comunicazione in un modo o nell’altro e, per la cronaca, esistono anche molteplici piattaforme che ci aiutano ad individuare le realtà locali da supportare e che possono rivelarsi delle vere e proprie cicche da scoprire e di cui innamorarsi. Come dovremmo saper leggere un’etichetta per capire il valore di un capo che stiamo acquistando, allo stesso modo dovremmo informarci su quei brand delle zone a noi vicini per effettivamente comprare meglio e senza dover andare dall’altra parte del mondo (anche se solo con un click). Molto probabilmente poi, si tratta di brand che utilizzano risorse locali, con una particolare attenzione ai materiali e all’artiginalità, proponendo così capi ricchi di valore, anzi, di molteplici valori.
CHIEDERE È LECITO, RISPONDERE DOVREBBE ESSERE CORTESIA
Siamo solo a metà 2023 ma abbiamo già avuto la nostra buona dose di episodi di greenwashing: la legislazione europea si sta muovendo in merito per arginare questo problema ma, consapevoli che tutti nel nostro piccolo e con le nostre scelte facciamo la differenza, domandiamoci: “stiamo davvero facendo la nostra parte?”. In un anno in cui ricorre il decimo anniversario del Rana Plaza, oggi più che mai dovremmo far sentire la nostra voce per avere un’industria della moda più sostenibile, maggior rispetto delle pianeta e condizioni di lavoro regolamentate per tutti coloro che lavorano all’interno di questo enorme macchinario. Se c’è un brand che ci piace tanto e dal quale vorremmo continuare a fare acquisti, controlliamo se ha una pagina dedicata al suo impegno sostenibile (con dati e fatti VERI, non una semplice terminologia superficiale che non ha modo di essere provata) o ai suoi progressi verso cambiamenti più consapevoli. Ancora meglio se ogni tot pubblica un report per dimostrare piena trasparenza rispetto le logistiche interne (come fanno Reformation o Ganni ad esempio). Non c’è nessun materiale simile disponibile? Scriviamo ai brand. Mail, social media, in negozio: le possibilità sono infinte, sta a noi usare la nostra voce per pretendere delle doverose risposte. Più richieste di questo tipo arriveranno, più i brand saranno “costretti” a fare delle dichiarazioni e più faremo passi avanti verso quell’industria della moda che deve, non può, DEVE, cambiare a tutti i costi.
PAROLA D’ORDINE: FARE COMMUNITY
Siamo sempre con il cellulare in mano, sempre con il pc davanti agli occhi, sempre sul web, sempre sui social. Non diamo la soddisfazione a chi etichetta soprattutto le nuove generazioni come schiavi di questi mezzi di dar loro ragione: dimostriamo, piuttosto, il potere di questi strumenti. Come? Creando una community fedele e sincera con la quale condividere interessi (e non solo). Avete presente in “I love shopping” (E si, sto usando un film su una ragazza dipendente dallo shopping come esempio, ma adesso vi spiego il perchè), quando alla fine la protagonista decide di vendere tutti i suoi vestiti per ripagare il debito accumulato? Oltre ad averci fatto desiderare per qualche tempo di avere una sciarpa verde come la sua, il film ha dimostrato il potere della community, con centinaia di donne che, per passaparola, amicizie o sentito dire sono corse per aggiudicarsi uno dei capi/accessori di Becky Bloomwood. Le possibilità, in quest’ottica, sono molteplici: un cosiddetto “swap party” tra amiche e conoscenti ci permette di scambiarci gratuitamente abiti (come fossero Pokémon), donando a qualcuno una cosa che non indossiamo più e guadagnando, in cambio, un nuovo capo da amare, creando così un bel momento da condividere insieme. La stessa dinamica, si può attuare a pagamento e ne sono un esempio i “mercatini” che organizzano in casa propria ad esempio alcune content creator ed influencer, che invitano la loro community ad acquistare (a prezzi vantaggiosi) i capi che hanno indossato loro in primis. E così va. Ah, un ultimo consiglio che fino a poco fa tendevo a sottovalutare anche io: un bel giro negli armadi di mamme, papà (alcune delle mie camice preferite ad esempio le ho rubate a mio padre), zie e nonne. Ancora in buono stato, facilmente adattabili al proprio stile ed esigenze, sono il futuro, pur venendo dal passato. Ah no, ultimissimo consiglio: i capi vanno trattati bene, seguendo le giuste indicazioni di lavaggio e stiratura così da poterli usare ancora, e ancora e ancora. E si, parlo proprio a voi che avete pile di abiti ammassati sulla sedia in attesa di cosa o di chi poi, non l’ho ancora ben capito.
RECYCLING, UPCYCLING E DOWNCYCLING: FACCIAMO CHIAREZZA
Se il fenomeno più diffuso del riciclo prevedere che un oggetto di scarto venga trasformato per creare qualcosa di egual valore, quando si parla di upcycling e downcycling invece, il valore dell’oggetto cambia. Sembra matematica ma, in realtà, è una dinamica che si sposa benissimo al fashion: nell’upcycling, dalla lavorazione di materiali di scarto si ottengono prodotti di qualità e valore più elevato, mentre al contrario, nel downcycling, il valore si riduce rispetto all’originario. Parlare di “scarto” è riduttivo, viste le infinite possibilità che capi e accessori di moda (e non solo) offrono: un esempio di successo? Freitag, che propone borse e accessori realizzati con teloni di camion in disuso e tessuti interamente compostabili. Una camicia può diventare una bandana, due trench si possono combinare per creare un modello unico, quello strappo sui jeans da vita ad una serie di modifiche che li rendono più originali. Le possibilità ci sono, a voi invece la creatività!