Dopo aver visto “The Featherweight”, presentato nella selezione Orizzonti al Festival del Cinema di Venezia, molto probabilmente continuerete a sentire nelle orecchie l’eco dei pugni sferrati da pugili leggendari ancora per un po’ di tempo. Ed è così che dovrebbe essere, questo è l’effetto che il ritratto di una figura iconica nel mondo del pugilato dovrebbe avere, quando è autentico.
Abbiamo fatto una chiacchierata con Robert Kolodny, il brillante regista che ha diretto questo bipic sulla straordinaria vita del pugile Willie Pep, e abbiamo parlato della sua visione cinematografica, che in questo caso ha reso viva una delle figure più enigmatiche dello sport. Ma soprattutto, abbiamo conosciuto la mente dietro l’obiettivo, il cuore dietro il progetto e la dedizione necessaria per resuscitare una leggenda dimenticata, superando i confini dello sport e trasformandolo, attraverso il cinema, in un racconto universale sul trionfo contro le battaglie umane.
Cosa ti ha ispirato a scegliere la storia di Willie Pep come soggetto di un film?
La storia di Willie Pep è così umana e così specificamente americana; è un personaggio con cui ho immediatamente instaurato una connessione, perché mi ricordava le persone con cui sono cresciuto. Vengo da una città nel New Jersey abitata principalmente da italoamericani e ebrei americani che trasferiti da New York City, ed è molto simile a Hartford, Connecticut, con questa cultura di immigrati che non è così grandiosa com’era un tempo. Willie Pep è una persona che ha vissuto sotto i riflettori per così tanti anni e ad un certo punto ha iniziato a sentire il peso di quei riflettori. È così profondamente umano.
Che tipo di ricerche hai fatto, insieme al tuo team, per assicurarti che la rappresentazione della vita di Willie Pep fosse storicamente accurata?
Abbiamo fatto il possibile per rendere tutto quanto il più reale e vissuto possibile. Abbiamo avuto la fortuna incredibile di poter girare nella città in cui Willie ha vissuto, e abbiamo persino trovato la casa in cui abitava, quindi tutte le riprese esterne sono state effettivamente fatte nella vera casa di Willie Pep. C’erano molte persone in città che lo conoscevano per lavoro, per il gioco d’azzardo, per il bar, e alcuni membri della sua famiglia, così andavamo nei club sociali italiani e parlavamo con tutti gli uomini presenti, chiedendo su che tipo di cavalli Willie scommettesse o a chi doveva dei soldi. Abbiamo parlato con la sua famiglia, la sua ex moglie, abbiamo avuto accesso a tutte queste persone ed abbiamo potuto fare delle ricerche su questo personaggio e ricrearlo con realismo. Persino il figlio di Willie, Billie, interpretato da Keir Gilchrist nel film, è stato così disponibile, veniva a darci consigli sul set, ci ha dato tutti i suoi diari di quando era ragazzo e Keir così ha potuto leggerli e passavano spesso del tempo insieme. Quindi, ciascuno dei personaggi poteva vivere in quel contesto.
Il pugilato è uno sport unico, con la sua cultura e le sue sfide. Come vi siete preparati per catturare l’essenza del pugilato professionistico nel vostro film?
Una delle ragioni per cui ho dato vita a questo progetto è che nei tre anni precedenti alla realizzazione del film avevo lavorato a un documentario non-fiction sul pugilato in Bulgaria, quindi avevo trascorso anni con i pugili, nelle palestre. Anche al di fuori dello sport stesso, il fatto che tutte queste persone appartengono alla classe lavoratrice lo rende uno sport davvero “da operai”. Insomma, è come se il tuo lavoro consistesse nel puro atto di evitare di essere colpito in faccia e colpire qualcun altro in faccia, il che è così brutale, è uno sport di necessità. A livello internazionale, la maggior parte delle persone che sono diventate pugili proviene dai ranghi più bassi della società e sfrutta quest’opportunità per avanzare socialmente e finanziariamente. Nella storia del pugilato americano, puoi capire quale sia stata la cultura immigrata dominante di ogni epoca dai campioni di boxe del periodo, quindi se Willie Pep è stato il campione degli anni ’40 è perché gli italoamericani erano appena arrivati in America e avevano questo spirito combattivo e vittorioso. Oltre a ciò, abbiamo cercato di coinvolgere il maggior numero possibile di veri pugili per aiutare James [Madio] a prepararsi: “Iceman” John Scully è stato il suo allenatore, abbiamo scelto Bruce “Shu Shu” Carrington, che è un pugile peso piuma contemporaneo, per essere il compagno di James nel film, e Ernie Reyes Jr., che è stato il nostro brillante coreografo delle scene di combattimento, ci ha aiutato a mantenere tutto accurato in modo che non sembrasse un attore che finge di boxare, ma sembrasse un pugile che esiste davvero, in palestra, e la telecamera semplicemente documenta quella realtà.
Hai affrontato sfide particolari nell’adattare una storia di vita reale per lo schermo, specialmente una che coinvolge una figura sportiva così iconica come lui?
La principale sfida del lavorare su un progetto basato sulla vita reale di qualcuno è voler rendere loro giustizia, non sensazionalizzarli, ma anche non dipingere un ritratto troppo scarno, essere onesti e rispettosi. È stato un privilegio poter raccontare la storia di Willie e la storia della sua famiglia. Sfortunatamente, non siamo riusciti a incontrare Linda, la moglie di Willie, ma abbiamo passato così tanto tempo a cercare piccoli frammenti di chi fosse questa donna, cercando di diventare come fantasmi, di infiltrarci nell’etere del tempo. Siamo riusciti a trovare filmati di lei in uno show televisivo in cui ha recitato, alcuni ritagli di giornale, piccoli pezzi che abbiamo messo insieme per presentarlo il più onestamente e attentamente possibile.
“Anche al di fuori dello sport stesso, il fatto che tutte queste persone appartengono alla classe lavoratrice lo rende uno sport davvero ‘da operai’”.
Ci sono stati momenti memorabili o difficili affrontati durante le riprese che desideri condividere?
Sì, ce ne sono stati molti. Uno dei produttori del film, Bennett Elliott, è stato il mio produttore per 15 anni, ci siamo conosciuti alla scuola di cinema, quindi poter realizzare un film di questa portata con lei, un film che è arrivato al Festival di Venezia, è un sogno che si avvera. Il direttore della fotografia del film è mio fratello minore, e abbiamo filmati di noi che ci riprendiamo nel cortile dei nostri genitori quando avevamo 5 o 6 anni, quindi che dire… Il film nel complesso è stato un processo autobiografico, semplicemente un’elezione del lavoro che io e i miei amici abbiamo fatto per tutta la nostra vita, quindi è stato molto naturale, ed è stato un lavoro molto duro, ma in qualche modo è sembrato facile e naturale, perché stavamo semplicemente essendo noi stessi e onesti con noi stessi, quindi ogni giorno sul set è stato memorabile per questa ragione.
Quali messaggi o temi sperate che il pubblico, e forse in particolare gli appassionati di boxe, traggano dal film?
Il nocciolo del film è che il nostro rapporto con l’orgoglio, l’ego e il senso di sé è una cosa difficile da risolvere, e essere una persona nel mondo è difficile, e ad un certo punto, forse, ci procuriamo le rose del successo, ma quelle rose inevitabilmente hanno delle spine; quindi, come ci risolviamo noi, in quanto persone, come andiamo avanti senza deprimerci? Anche se è un film sul pugilato, non è un film di pugilato, è un ritratto umano.
La nostra telecamera presenta ciascuno di questi personaggi che fanno le proprie decisioni come facciamo tutti noi nel corso della nostra vita, quindi quello che spero che le persone capiscano è che si tratta di un racconto reale, che non si tratta di “immaginazione”, ma di “osservazione”.
Photos by Luca Ortolani.