Ci sono libri, e poi ci sono QUEI libri.
Quelli che non riesce a smettere di leggere, che riescono a trasportarti con tale realismo in una storia da credere per qualche istante di trovarsi per davvero in una determinata ambientazione: nel mio caso, tra QUEI libri, rientra sicuramente la saga de “Le cronache dell’acero e del ciliegio” di Camille Monceaux. Una storia di formazione, un protagonista che, nel perseguire la “via della spada” per diventare un samurai nel Giappone feudale, ci ricorda come il nostro percorso non sia ancora stato tutto definito, di come ogni svolta possa cambiarci e di come le persone con cui percorriamo la strada, e le emozioni che proviamo nel mentre, siamo essenziali per compiere il nostro destino.
Per quanto l’ambientazione non possa essere più lontana, Camille è riuscita, attraverso la sua scrittura, a dar vita ad una storia che parla dell’importanza dei sentimenti, del sapere accettare la solitudine ed essere pazienti per guarire (sia spiritualmente che fisicamente). Anche se la chiacchierata con Camille è stata fatta in piedi, circondate dal via vai di numerose persone, sembrava che non ci fosse altro al di fuori di lei, di me e della bellissima e ricca conversazione che abbiamo avuto: dal valore dei messaggi che ogni singola storia contiene a come culture diverse ci rendano consapevoli dell’inutilità degli stereotipi, dal mondo in cui lei e i suoi personaggi si sono influenzati a vicenda all’importanza dell’abbracciare i propri limiti e del trovare la propria famiglia ovunque. In attesa dell’imminente uscita del terzo volume della saga de “Le cronache dell’acero e del ciliegio”, questa intervista diventa una raccolta di concetti chiave da leggere e da tenere a mente mentre, insieme a Ichiro e ai suoi amici, scopriamo cosa ci riserverà la “via della spada” che poi, altro non è, che la vita stessa.
Prima di tutto, vorrei ringraziarti per questa bellissima storia e per il mondo che hai creato; il primo libro è stato uno dei migliori che ho letto l’anno scorso, e ho finito il secondo in appena due giorni! Hai sempre desiderato essere una scrittrice? Ti ricordi il momento in cui hai capito che questa sarebbe stata la tua strada?
Penso che sia iniziato tutto quando ero molto giovane. Sono sempre stata innamorata dei libri, ma è stato forse quando avevo circa 7 o 8 anni che ho capito che c’erano storie e persone che scrivevano quelle storie, ed è stato allora che ho pensato che volevo essere anche io come loro, volevo scrivere le mie storie. Quindi, è stato il mio sogno per molto tempo.
Ho scritto diari segreti per molti anni, ma non ho davvero iniziato a scrivere romanzi fino a quando non ho avuto un computer. Quando ero a scuola e all’università, sapevo che volevo provare a diventare una scrittrice, ma tutti intorno a me, specialmente i professori, continuavano a dirmi: “Non sprecare del tempo a provarci, tutti vogliono avere successo e diventare scrittori, ma non avrai mai la possibilità di essere pubblicata”. Quindi, per molto tempo, sono stata condizionata da questi discorsi, nella mia mente non valeva nemmeno la pena provarci perché mi sembrava troppo difficile. Ad ogni modo, un giorno ho pensato: “Fanculo, provo a mandare quello che ho scritto alle case editrici, e se non dovesse funzionare, per lo meno ci avrò provato”.
Per quanto riguarda il libro, ho avuto la sensazione che questa storia sia così lontana eppure così vicina, sia in termini di luogo che di tempo. Come sei riuscita a creare un’atmosfera così realistica, e come hai strutturato la ricerca per scrivere una storia così storicamente precisa combinandola con la tua ispirazione e creatività?
Prima di tutto, grazie perché è sempre molto bello sentire che le persone riescono a immedesimarsi nel romanzo e che sono riuscito a dar vita ad una certa atmosfera. È molto difficile per me bilanciare ricerca storica e narrativa, e tendo a soffermarmi troppo sulla ricerca, vorrei mettere tutto nel romanzo, ma sono molto fortunata che mio marito sia il mio primo lettore: ogni volta che legge i miei romanzi, mi fa notare le cose che forse non sono rilevanti per la storia. Sono molto grato per questo perché altrimenti i romanzi sarebbero lunghi mille pagine e a volte con dettagli non troppo interessanti; ma il fatto è che trovo molto affascinante conoscere piccoli dettagli su come si preparassero alcuni tipi di piatti o come lavavano i vestiti nel Giappone medievale, per esempio.
Ho studiato storia e letteratura giapponese all’università, fin da quando ero al liceo, amavo la narrativa storica e i film storici, “Il Gladiatore” è uno dei miei preferiti di tutti i tempi, e questo perché amo provare a immaginare come vivevano le persone nel passato, ad esempio nell’antica Roma, nel Medioevo in Europa, nel Medioevo in Giappone… Come vivevano le persone, a cosa pensavano, cosa mangiavano, che aspetto avevano, cosa era considerato bello e cosa era considerato brutto, se la nudità fosse un problema o meno. Penso che sia così interessante, specialmente quando sei una femminista, e vuoi provare a dimostrare che tutto ciò che pensiamo su come dovrebbero essere le donne e gli uomini è solo una costruzione sociale, e quando studi la storia di diversi paesi, te ne rendi conto ancora di più. Ad esempio, in Giappone la bellezza femminile si concentrava sull’avere la pelle bianca, le sopracciglia rasate, i denti neri, che è qualcosa che non trovo particolarmente sexy, ma per loro era la bellezza assoluta. Ciò significa che ciò che pensi sia bello è in realtà solo una costruzione, e questo concetto cerco di includerlo nei miei romanzi. Forse è per questo che non credo che la letteratura e la letteratura per giovani adulti, in particolare, siano apolitiche, penso che abbiano un messaggio da trasmettere. Anche se parlo del Giappone feudale, il mio è un modo per cercare di avere storie più inclusive e presentare una rappresentazione LGBT, avendo un punto di vista femminista sulla storia.
Alcuni autori dicono di non inserire messaggi politici nei loro romanzi: mi dispiace ma non ci credo, per me non è vero, ogni romanzo ha un messaggio per quello che sei, tu stesso sei un messaggio, quindi quello che scrivi è già un messaggio.
Parlando da un punto di vista italiano, ho avuto la sensazione, negli ultimi anni, che ci sia finalmente un’apertura alle storie YA ispirate alle ricche possibilità date dall’Oriente; sto pensando ad esempio a “La guerra dei papaveri” e “Queste gioie violente”. Hai avuto la stessa sensazione mentre scrivevi il tuo? Anche se, più che un YA, si tratta di un percorso formativo che Ichiro persegue, letteralmente, nel corso dei libri.
Ho 32 anni, e penso che la mia e la tua siano una generazione cresciuta con manga e anime, che so essere molto ampie in Italia e in Francia. Quindi, ovviamente rappresentano un’influenza significativa, e oggi, con la globalizzazione, penso che siamo abbastanza fortunati da poterci aprire a culture diverse. Eppure, per un po’ mi sono sentita a disagio a pensare: “Sono una donna bianca, dovrei scrivere una storia sul Giappone anche se non è la mia cultura?”. Non sono nata in Giappone, so parlare e leggere il giapponese, ma sono tutt’altro che fluente, quindi mi sono chiesta se sarebbe stato un caso di appropriazione culturale.
Alcune persone pensano che tutti dovrebbero essere in grado di scrivere di ciò che vogliono per la libertà di parola, io però non sono d’accordo. Penso che dovremmo essere molto rispettosi delle culture di cui stiamo parlando: ad esempio, io non voglio usare un approccio neocoloniale nei confronti del Giappone e della cultura giapponese. Penso che amiamo molto l’Oriente, e soprattutto quando ero più giovane, il Giappone andava davvero forte; oggi, invece, si tratta più della Corea, basti pensare al K-Pop. Ho iniziato a guardare drammi coreani non molto tempo fa, e mi sono innamorata di quel genere, e questo mi ha fatto venire voglia di iniziare a studiare la cultura coreana.
Penso che ci sia una linea sottile tra l’innamorarsi di una cultura e il voler scrivere o creare qualcosa a riguardo, pur rispettandola ovviamente.
Qual è stato il fatto più interessante che hai scoperto sul Giappone attraverso questa storia e che ti ha fatto innamorare ancora di più di questa cultura?
Questa è un’ottima domanda, interessante e difficile [ride]. Un dettaglio che è stato davvero scioccante, su qualcosa che non sapevo, e che mi ha fatto innamorare ancora di più del Giappone, è che la nudità non era un problema come potrebbe esserlo per noi oggi. Non c’era il Cristianesimo lì, e nessun tipo di monoteismo, e sebbene il Buddismo fosse molto severo sui ruoli di genere, i bagni erano aperti sia agli uomini che alle donne insieme ad esempio, e facevi molti lavori mezzi nudi; ci sono molte rappresentazioni di uomini giapponesi che indossano solo un piccolo panno davanti e camminano seminudi per le strade, e donne che mostrano i loro seni. Tutto questo non era sessualizzato, è solo che svolgevano così il loro lavoro, trasportando carichi pesanti o simili. L’ho trovato davvero interessante e mi ha fatto venire voglia di viaggiare indietro nel tempo e andare nell’antico Giappone perché era molto diverso da oggi. Un’altra cosa che mi ha scioccato è che divorziare era una cosa davvero facile nel Giappone feudale; ti sposavi semplicemente scambiando tre tazze di saké, e poi se volevi divorziare, lo facevi e basta. Nella stessa epoca, invece in Europa, era impossibile divorziare, soprattutto per le donne.
Itchiro sta seguendo la sua “via della spada”. Stai perseguendo qualcosa di simile anche nella tua vita, sia come persona che come scrittrice? E se sì, quali sono le principali soddisfazioni e difficoltà lungo il percorso?
La mia “via della spada” è sicuramente l’ashtanga yoga, che è un tipo di yoga che include una serie di posture e si pratica ogni postura ogni giorno. Hai una serie di posture per principianti, e poi quando ci prendi la mano, inizi con la seconda serie. Quindi, dovresti praticarlo ogni mattina prima dell’alba, a stomaco vuoto per un’ora e mezza: mediti, respiri e poi inizi la tua giornata. L’ho fatto per tre anni, svegliandomi molto presto ogni mattina e praticando le mie posture. È stato fantastico, mi ha fatto sentire molto consapevole nel mio corpo perché è una pratica estremamente fisica e anche molto meditativa, ovviamente, quindi è stato fortificante. Lo stavo facendo per diventare più forte ed essere la versione migliore di me stessa, ma a un certo punto mi sono reso conta che lo stavo facendo per il mio ego. Ho iniziato a sentirmi stressata, non dormendo abbastanza, e ho sviluppato l’ansia da sonno. Inoltre, ho scoperto che era una disciplina militare creata da uomini indiani per gli uomini, era una routine militare per addestrare i soldati, il che mi ha portata a chiedermi: “È davvero quello che voglio? Devo essere così severa con me stessa?”. Ora, la mia routine è cambiata, non pratico yoga tutte le mattine, anche perché mi sono resa conto che quando lo facevo, era un modo per me per essere molto severa verso il mio rapporto con il mio corpo, e tossico, era quasi una tossicità maschile. Mi sono resa conto che dovevo essere più rilassata e trovare un migliore equilibrio tra la pratica e ciò che il mio corpo è in grado di dare. Devo poter dire: “Ok, oggi non mi sento bene, quindi il mio corpo non sarà in grado di praticare per un’ora e mezza, ma va bene così”. L’anno scorso, a ottobre, ho avuto un brutto infortunio, mi sono rotto la caviglia, quindi non ho potuto fare sport per sei settimane, ero a letto e non riuscivo a stare in piedi, ed ero così spaventata che avrei perso tutte le forze; questo succede anche a Itchiro, che si infortuna nel primo libro, e nel secondo libro cerca di riprendersi al tempio, ma l’ho scritto prima di farmi male; sai, nel libro c’è un monaco che dice che devi essere paziente, e ci ho pensato molto quando non stavo bene, era incredibile come i miei stessi libri mi stessero aiutando! [ride]
La maschera del NO, legata al teatro e all’arte, e la spada dei Sanada. Passione e dovere. Emozioni e onore. Ichiro lotta per tutta la storia tra questi due antipodi. Cosa rivelano questi aspetti sui personaggi di questo libro (perché penso anche ai suoi amici e agli altri samurai), e forse, anche su di te?
C’è molto di me in Itchiro, ho infuso molta della mia personalità in lui. Condividiamo l’amore per la natura, ad esempio, siamo entrambi vegetariani – sono vegetariano da quasi 8 anni e non potevo immaginare di scrivere un eroe carnivoro. Volevo scrivere una storia su un samurai, ma non su un samurai super tosto che ucciderà tutti e sarà il più forte di tutti. Volevo che il mio personaggio sentisse il conflitto tra la sua dolcezza – è molto tenero, ha un cuore grande, piange molto – e il modo in cui il suo maestro lo educa a non provare emozioni. È interessante perché questo è il punto dello yoga, liberarsi delle tue emozioni e del tuo ego ed essere in uno stato mentale e di consapevolezza perfetto. Sfortunatamente, penso che questa “via della spada” fosse spesso legata alla violenza e all’idea che la casta reale dovesse possedere tutto il potere ed esercitare violenza sugli altri, ma non volevo che Itchiro diventasse quel ragazzo.
Chi è il personaggio con cui ti immedesimi di più fino ad ora? E, mentre li scrivevi, ti hanno sorpreso in qualche modo, ti hanno fatto scoprire qualcosa di nuovo su di te?
Penso che ci sia un po’ di me non solo in Itchiro, ma anche in Shin, e ovviamente anche in Denchai, il poeta. Ci sono alcune cose di me in ogni personaggio. Non posso dire troppo sul mio terzo romanzo senza fare spoiler, ma sia Itchiro che Hiinahime sono due versioni diverse di me. Quando ero piccola, volevo essere un ragazzo: per molti anni ho cercato di fare pipì in piedi, e mi comportavo sempre come un ragazzo, non mi piaceva vestirmi da ragazza, eccetera. Mio padre era un cacciatore e andavo spesso a caccia con lui, quindi sono stato cresciuto in una sorta di modo maschile classico. Ho scritto Itchiro così perché è una versione che, forse, avrei potuto essere io se fossi stato un ragazzo.
Itchiro e Seiren sono, nel secondo libro, i personaggi che più lottano con chi sono e chi vogliono essere, anche se in due modi totalmente diversi. E sono ancora così giovani, quindi la sensazione è che dovrebbero essere autorizzati a sperimentare, a perdersi, a trovare i loro scopi, ma le circostanze (e il contesto) non glielo permettono. Trovare te stesso: è possibile per te? C’è una fine in questo processo, o è più un viaggio che non termina mai?
Penso che sia un viaggio senza fine. Credo fermamente che nel corso della tua vita sperimenterai diversi tipi di cose che ti faranno cambiare, e devi adattarti a questi cambiamenti. Ad esempio, per me idealmente più invecchi più saggi e più tollerante dovresti diventare, ma la verità è che più invecchi, più diventi conservatore – non vuoi cambiare, non vuoi accettare che i giovani pensino in modo diverso da te. Spero di non essere così, spero di cambiare per tutta la vita e di ascoltare sempre ciò che pensano i giovani e quello che cercano di insegnarmi. Nei romanzi ci sarà una fine ai viaggi perché è una storia di fantasia, non seguiremo i personaggi per tutta la vita, ma ci sarà una fine nel senso che voglio che riescano a trovare se stessi.
Quando sono diventata femminista, vegetariana e anche consapevole della situazione climatica, ho iniziato a pensare: “Non sono stata cresciuta così, i miei genitori non erano così”, ho dovuto fare tutto da sola. Per un po’ mi sono sentita divisa tra la mia educazione e ciò che sentivo fosse giusto, così ho iniziato a cambiare molto le mie abitudini e me stessa; e penso che sia lo stesso per Itchiro, è stato cresciuto come un samurai, dovrebbe diventare un assassino violento, e ama il suo padrone, ma non è il tipo di persona che vuole essere, e lo stesso vale per Seiren.
Amo entrambi i personaggi e mi sono divertita così tanto a scrivere i loro dubbi, e penso che la storia avesse bisogno di un personaggio come Seiren, che è tosto anche in senso negativo, portando Itchiro a pensare: “Non è bello uccidere le persone”, e quindi cambiando i luoghi comuni in un certo senso, perchè di solito è il personaggio femminile che dice quel tipo di cose.
Itchiro fa parte di un gruppo ristretto di amici e di un clan, ma c’è una solitudine dentro di lui che non va mai via, ed era qualcosa che probabilmente era in grado di condividere solo con Hiinahime. Essere parte di qualcosa ed essere da soli: come gestisci questi aspetti, entrambi essenziali per la salute mentale tra l’altro?
Uno degli argomenti principali del terzo libro sarà la solitudine, che penso sia diventata sempre più pesante, perché ho scritto quel libro durante il Covid, in un momento in cui molte persone si sentivano sole, e io mi sentivo sola perché eravamo solo io e mio marito e non potevamo vedere molte persone. Avremmo dovuto viaggiare e non abbiamo potuto farlo, mia sorella viveva da sola e stava attraversando un momento difficile in termini di salute mentale. Quindi, questa è stata una questione molto importante per me. Inoltre, quando ero più giovane, al liceo, avevo degli amici certo, ma mi sentivo sola molto spesso. Forse, quando sei un adolescente, puoi facilmente sentirti come se nessuno ti capisse e tu fossi l’unico a provare quelle cose. A volte, mi sentivo molto diversa ed era difficile per me adattarmi, quindi la solitudine è stata per molto tempo qualcosa con cui ho dovuto fare i conti. Sono riuscita a migliorare il giorno in cui ho imparato ad essere felice stando da sola: a volte puoi essere in una stanza piena di persone, anche amici e familiari, e sentirti comunque sola.
A volte, la solitudine non è un atto fisico, non si tratta solo di essere soli in una stanza, a volte è sentirsi soli nella mente, è sentirsi invisibili.
Adoro Itchiro come personaggio perché è un modo di rappresentare qualcuno che non sa nulla della vita intorno a lui, e un mezzo per focalizzarsi su argomenti come affrontare la solitudine. Non so se ho la risposta perfetta a questa domanda, ma ora, a 32 anni, amo vivere dei momenti di solitudine, amo stare sola, ma avere la sensazione di essere esclusa in una stanza piena di persone è molto difficile. Ecco perché è così importante trovare la tua famiglia, fatta di persone che ti capiscono e ti accettano così come sei, e questo è quello che sto cercando di fare con i romanzi.
Qual è il libro sul tuo comodino in questo momento?
Sto leggendo “Nous sommes l’étincelle“, un romanzo dell’autore francese Vincent Villeminot, sul cambiamento climatico, ambientato in Francia tra 60 anni, dopo una sorta di collasso. È scritto molto bene.
Itchiro è sempre in movimento, in un viaggio che, almeno per quel che sappiamo ora, avrà una fine. Qual è invece il tuo luogo felice, quello a cui senti di appartenere?
Sono felice quando viaggio. Amo viaggiare, è una parte molto importante della mia vita. Non ho una vera casa da quasi cinque anni, ho scritto il primo libro quando ero in Nuova Zelanda, vivendo lì con mio marito. Forse, è per questo che anche i personaggi del mio romanzo viaggiano tutto il tempo. Adoro stare in viaggio, ma allo stesso tempo so che essere in viaggio a volte mi fa sentire la nostalgia di casa, e una parte di me non vede l’ora di avere una casa, un posto che è solo mio, ma sono anche felice di essere libera e di poter andare dove voglio. Quindi, direi che il mio posto felice è ovunque io sia con mio marito perché è la persona che amo di più al mondo, è il mio migliore amico, siamo sempre insieme, quindi finché è accanto a me, so che starò bene.
Thanks to Ippocampo Edizioni