Il nuovo film di Wim Wenders è un’opera d’arte. Nessun eufemismo, nessuna cerimonia. È un’opera d’arte nel senso più letterale dell’espressione: una rappresentazione della realtà e dell’essere umani da contemplare e interiorizzare, così come, in maniera speculare, nel film si contempla l’esistenza e la natura dell’uomo.
“Perfect Days” l’ho visto una volta e mezza: la proiezione in anteprima per la stampa si è interrotta sul più bello, più o meno a metà pellicola, per problemi tecnici (il server dell’Anteo quel mattino faceva i capricci) lasciandomi con il cuore in gola e un sacco di domande sulla punta della lingua. Ero elettrizzata per quanto mi stesse emozionando un film che, uscita dalla sala, ho istintivamente descritto alla prima persona con cui ne ho parlato come “pressoché senza trama”. “È la storia di un signore che di mestiere pulisce i bagni pubblici di Tokyo e non parla quasi mai, ma è sempre così pacifico e sereno e gentile con tutti, anche se nessuno lo è con lui”, gli ho raccontato. L’idea me l’ero fatta ancora per metà, però era giusta. Poi, qualche settimana dopo, il film sono andata a rivederlo, questa volta per intero, e la storia del signore che pulisce i bagni di Tokyo si è sviluppata nella storia di un signore pieno di grata meraviglia per ogni piccolo pezzo di vita che si è costruito, e mi ha riempito il cuore, gli occhi e lo spazio che c’è dietro.
Hirayama ha una semplice routine giornaliera: si sveglia molto presto al mattino, quando il cielo è ancora indaco e Tokyo è addormentata, si lava faccia e denti e si fa la barba, regolando al millimetro la lunghezza dei baffi, annaffia le sue piante tutte allineate in una stanzetta-serra della sua casa, indossa la tuta da lavoro; degli oggetti disposti in ordine sulla mensola in ingresso raccoglie chiavi dell’auto e qualche spicciolo, fa colazione con una bibita fresca erogata dal distributore subito fuori dalla sua porta d’ingresso. A questo punto, le giornate cominciano: Hirayama entra nel suo pick-up pieno di attrezzi da lavoro, la maggior parte dei quali costruiti da lui stesso, sceglie una colonna sonora dalla sua collezione di vecchie cassette e attraversa la città, di bagno pubblico in bagno pubblico.
“Il tema pulizia dei sanitari non mi convince, forse mi disgusta un po’”, mi ha detto un’indecisa, che ancora non ha visto “Perfect Days”. Ma spugne, stracci, sapone e olio di gomito in questo film sono fili di una grande tela metaforica: Hirayama si dedica con minuzia, anzi, con passione, alla pulizia dei sanitari perché crede fermamente che ogni elemento ospite sulla Terra, che sia natura, che siano persone, che siano oggetti di uso e dominio pubblico, vadano trattati con cura, riconoscenza e sacralità. “E poi, i bagni di Tokyo sono arte, avanguardia pura”, ci ho tenuto a precisare.
Il bello è che Hirayama comunica tutto questo e tantissimo altro, ma senza effettivamente dire una parola (o quasi). E va tutto bene, così come vanno bene le sue giornate, fatte di cura e contemplazione.
Quando alla sera torna a casa, Hirayama legge romanzi e poesie sul suo futon fino a che le palpebre non calano come sipari sullo spettacolo che è stato quel giorno, e inizia quello della notte, fatto di sogni in bianco e nero.
La domenica Hirayama non lavora, e passa il suo tempo libero ad ascoltare Lou Reed, Patti Smith, Van Morrison, i Velvet Underground, a scandagliare rullini di foto di alberi che scatta quando in pausa pranzo mangia il suo sandwich nel parco e si meraviglia della luce che filtra tra le foglie (“komorebi”) ogni giorno, abitudinaria come lui.
Fino a quando imprevisti scombinano il suo puzzle quotidiano, e Hirayama allora è costretto a farsi sentire, perché è necessario rimettere insieme i pezzi quando “elementi di disturbo” interferiscono nei suoi giorni perfetti. Eppure, ciò che a noi può sembrare una tragica rottura di equilibri longevi, per Hirayama è invece insegnamento e occasione di riconoscenza per il momento presente che rende ogni giorno non troppo uguale a quello che lo ha preceduto.
“Adesso è adesso. Un’altra volta è un’altra volta”. Tra le poche parole di Hirayama c’è questa massima, che altro non è che, ancora una volta, un contemplativo apprezzamento della vita.
Usciti dal cinema, la mia seconda volta, abbiamo avuto fiato per poche parole, volevamo fare come Hirayama. Per comunicare non servono sempre e solo le parole. Ci siamo guardati intorno, accecati dalla luce del primo pomeriggio (komorebi?), e abbiamo passeggiato in silenzio, percorrendo con attenzione insolita strade che avevamo percorso mille altre volte. “Guarda il sole come colpisce il fianco di quelle case” e “Vieni, ti mostro il mio edificio preferito di Milano”.
Senza dire niente, stavamo dicendo tutto.