Ridere è semplice, istintivo: un bisogno, una necessità, un piacere da condividere e da vivere.
Saper far ridere, è tutt’altro che immediato: richiede una certa consapevolezza di sé e delle persone che si hanno davanti, uno studio, una prontezza e una gran voglia di regalare un momento che ci si ricorderà nel tempo.
Perché l’arte del saper far ridere, ovvero, la comicità, è un’arte di vita.
E Giorgia Fumo questo lo sa bene: nel passato, ha ricoperto diversi ruoli. Oggi è una comica e improvvisatrice che, attraverso il suo spettacolo “Vita Bassa” parla ai millennial dei millennial, non solo sul palco teatrale, ma anche sui social. Mattoncino dopo mattoncino, si è costruita una carriera fatta di ispirazioni quotidiane, di reference internazionali, di aneddoti inerenti alla sua community e di volontà. Lasciando sempre un posticino per i suoi “Ancieli“.
Forse alla fine è proprio vero quindi che saranno le risate a salvare il mondo… Nel dubbio, e nel mentre quindi, facciamocela una bella risata!
Il tuo percorso è sicuramente unconventional: come sei arrivata all’aspetto comico dopo gli studi di ingegneria e le experience come digital strategist e nel mondo del marketing? E in che modo questo tuo curriculum si è rivelato utile da comica?
Si è rivelato molto utile, perché in realtà c’è sempre stata la parte comica in tutti i lavori che ho fatto, e mi ha aiutato ad affrontare anche le parti difficili del lavoro, dello studio e di tutti quello che ho imparato. Alla fine la comicità non è tanto “una cosa da fare”, ma è come fai le cose.
La comicità, quella che piace a me, parla di vita vera, quindi se questa vita vera l’hai vissuta, hai tante ispirazioni.
Come si articola solitamente il processo creativo che ti porta ad uno sketch e/o spettacolo? Segui un metodo o ti lasci molto sorprendere dalle ispirazioni che vedi/trovi in giro?
La seconda. Il mio metodo è molto confusionario [ride]. Siccome mi vengono in mente sempre tante cose, alla fine il metodo che ho trovato più utile è segnarmele mentre mi vengono, segnarmi le ispirazioni… Sante note del telefono!
Fondamentalmente c’è sempre un lavoro di background dell’idea: la metti in fondo nel cervello, piano piano matura e poi, ovviamente, arriva la fase di scrittura. Però, scrivere è l’ultima cosa dopo che c’è già un’idea formata e magari anche provata.
Di solito fai sentire a qualcuno in anteprima quello che scrivi o ti tieni tutto per te fino all’ultimo?
Sì, ora mi tengo tutto fino all’ultimo. Quando facevo sentire in anteprima i testi a mio marito, lui magari rideva la prima volta, poi la seconda e la terza giustamente non rideva più, ma io ci rimanevo male, mi chiedevo se non gli piacesse [ride], anche se lui mi diceva: “Non è che non mi piace, è che l’ho sentita sei volte, basta così!”. Quindi, ho smesso di far sentire le cose in anteprima!
Come si è sviluppato invece il tuo lato comico? Come hai trovato il tuo stile e cosa invece hai capito che non fa per te?
Domanda molto interessante, non ci ho mai pensato, è una cosa che non ho mai analizzato di me stessa, quindi lo facciamo adesso. Ciò che non fa per me sono di base le cose che non mi fanno ridere: io non mi diverto particolarmente con le cose volutamente provocatorie, nate apposta per scioccare tutti e far ridere. Questo esclude anche un’enorme fetta di produzione comica, mi rendo conto. A parte quello, l’unica cosa che mi viene in mente per sviluppare il mio lato comico è guardare, leggere e ascoltare tante cose, anche in altre lingue e di altri Paesi, perché in ogni cosa puoi trovare un dettaglio che ti fa ridere. È una costruzione di mattoncini: inizi da piccolo con le cose che ti fanno ridere quando sei piccolo, poi ti evolvi, passi alle battute delle medie, inizi a costruire un flusso. Dovrebbe essere un processo che va avanti per tutta la vita, però in realtà vedo che è molto comune fermarsi, a un certo punto a quello che ti è piaciuto entro i 25 anni sarà l’unica cosa che ti piacerà per tutta la vita. Invece, secondo me è meglio continuare ad esplorare.
“È una costruzione di mattoncini: inizi da piccolo con le cose che ti fanno ridere quando sei piccolo, poi ti evolvi, passi alle battute delle medie, inizi a costruire un flusso. Dovrebbe essere un processo che va avanti per tutta la vita, però in realtà vedo che è molto comune fermarsi, a un certo punto a quello che ti è piaciuto entro i 25 anni sarà l’unica cosa che ti piacerà per tutta la vita“.
Stai portando in tour “Vita Bassa”, durante il quale guidi gli spettatori alla scoperta di ogni sfumatura dell’essere millennial. Come sta andando? In che modo queste tappe ti stanno sorprendendo?
Sta andando molto bene! Mi sorprende sempre quanto affetto ci sia da parte delle persone che vengono a vedermi: molte sono persone che mi seguono da anni e che magari non avevano mai avuto l’occasione di vedere uno show, ma finalmente lo show arriva nella loro città. Mi scrivono in tantissimi il giorno dopo per dirmi, “Mi sono commosso quando sei uscita perché mi sembravi un’amica che ce l’ha fatta”. Questa per me è una cosa molto bella, e quello che mi sorprende di più è che ci siano persone che sono affezionate e genuinamente contente di aver visto il risultato di tutto questo percorso.
Poi, sai, vengono anche tante persone che non ne sanno niente, spesso trascinate da chi è già fan, ma anche loro spesso mi dicono: “Non ti conoscevo, ma mi sei piaciuta!”. Mi sorprendo della sorpresa [ride]. Mi fa molto piacere, perché di volta in volta scopro e ho la conferma che ho fatto bene a insistere.
Essere millennial: cosa significa per te e quali insegnamenti porta con sé questa identificazione? L’ultima “scoperta” sui millennial che ti ha sorpresa?
La cosa più bella che ho scoperto andando avanti negli anni è che noi millennial siamo una generazione che si prende molto in giro. Questa credo sia una cosa bella, perché non tutte le generazioni sono così. Noi abbiamo iniziato a prenderci in giro molto presto, quindi accettiamo di prenderci in giro. Credo sia un po’ la nostra forza, perché non stiamo vivendo dei momenti semplici: non abbiamo vissuto un semplice inserimento nel lavoro, un semplice inserimento nel mondo degli adulti e dell’indipendenza. Questa capacità di ridere di quello che ci capita secondo me è quello che un po’ ci salva.
“Noi abbiamo iniziato a prenderci in giro molto presto, quindi accettiamo di prenderci in giro. Credo sia un po’ la nostra forza, perché non stiamo vivendo dei momenti semplici”.
Quale sarà il corrispettivo della “vetrinetta” dei millennial?
Secondo me le piante grasse, la collezione di borse di tela che i nostri posteri si ritroveranno, le candele e palo santo e le cose “da status” come il Dyson e il Bimbi.
Ma tu la password dello spid te la ricordi davvero? Perchè non è che noi millenial siamo proprio sempre sul pezzo anche con lo spid…
Ma che, ma per carità! Non me la ricordo assolutamente [ride]. Secondo me solo gli hacker hanno la pazienza di stare dietro a tutte queste variazioni… Purtroppo è così!
In che modo gestisci il rapporto e l’interazione con il pubblico? Essendo l’aspetto teatrale fatto di confronti diretti e anche dati dal momento, immagino che l’aspetto emotivo sia comunque molto presente.
La parte più complicata secondo me sono le serate collettive, quando sei con altri comici. Invece, quando hai lo spettacolo tuo, la gente è venuta a vedere te, ha pagato un biglietto perché vuole ridere, già sa che gli piaci ed è ben disposata a ridere, allora quella è una festa per tutti, perché il pubblico fa il 50% del lavoro e dell’energia della sala. È il pubblico che ti carica: quando sei sul palco non senti niente, il caldo o il freddo, ti arriva tutto dopo, perché sei “dopato” da questa energia che ti dà il pubblico.
C’è stata una reazione del pubblico che ti ha impressionata, in senso positivo?
Succedono a volte delle cose divertenti. Tipo spesso capita che durante lo show suoni una sveglia: io so che quando suona una sveglia alle 10 di sera, è qualcuno che deve prendere la pillola, non ci possono essere altre ragioni [ride]. Se la sveglia è particolarmente forte, io fermo tutto e dico: “Prendi la pillola che è importante”. Una volta è successo che la sveglia era suonata ad una persona in prima fila chiaramente incinta di nove mesi e mezzo, io quindi la guardo e le dico: “Oh no, troppo tardi, dovevi prenderla prima!” [ride]. Questa cosa chiaramente ha fatto ridere tutti e la signora due giorni dopo mi ha scritto che aveva riso tanto e questa cosa aveva fatto da induzione al parto e aveva partorito 48 ore dopo lo spettacolo. È stato il clou della mia carriera, che vuoi fare di più di far nascere un bambino!
E il rapporto con i social invece? Quanto è sottile la linea tra mezzo per comunicare te stessa e la tua arte, il mondo di ispirazioni che rappresentano e i follower, in tutte le loro sfaccettature?
Devo dire che avendo lavorato su una community molto lentamente e senza mai grossi exploit – nel senso che non sono una che la sera è andata a dormire e la mattina dopo si è ritrovata due milioni di visualizzazioni a un video – ho messo insieme un gruppo di follower carini ed educati che si sanno rapportare. Poi, quello che non si sa comportare sui social ti capita sempre, però devo dire che nel mio caso fortunatamente quei soggetti rappresentano una percentuale molto molto bassa.
Per me i social sono un lavoro, ma una parte del lavoro che faccio molto volentieri. Mi diverte fare i video, mi diverte leggere i messaggi che mi scrivono, ormai si sono create delle consuetudini: la gente spesso pubblica le foto mentre si prepara per venire a una serata e si mette qualcosa con le paillette perché in un mio pezzo famoso sulle cene aziendali parlavo delle paillette; ci sono tutti questi richiami nella vita vera che sono proprio carini, fanno community. Certo richiede tanto lavoro perché ci devi stare tanto dietro, ma siccome quella del comico è una carriera solitaria, secondo me, sapere che ci sono tante persone che ti seguono anche sui social, che ti scrivono, che arrivano dopo lo spettacolo e ti portano la focaccia o i dolcetti, ti senti seguito da persone che ti apprezzano.
Se penso al mondo della stand-up e della commedia, penso a spettacoli e show internazionali, soprattutto americani o inglesi, mentre l’Italia (almeno opinione mia) sta vivendo un nuovo rinascimento ora sotto questo aspetto. Hai dei punti di riferimento esteri o delle correnti che speri arrivino anche in Italia o, al contrario, vorresti essere tu a influenzare la comicità estera in qualche modo?
Prima che noi influenziamo la comicità estera, credo che passeranno parecchi lustri. La stand-up comedy comunque è stata inventata in America e poi è stata portata qui, mescolandosi con una tradizione di cabaret che già c’era e che non è neanche da buttare. Noi abbiamo una bellissima tradizione teatrale e comica, quindi stiamo creando un genere un po’ nostro.
Ammetto che anche io ho tanti riferimenti principalmente stranieri: mi piacciono molto gli americani, forse gli inglesi ancora di più, tipo Ricky Gervais, Jimmy Carr e i suoi programmi come “The Fix”, con comici che risolvono i problemi del mondo; ho adorato serie nate da stand-up comedy tipo “Fleabag”. Fuori dall’Italia c’è una tradizione diversa e un diverso ritmo di produzione, ed è anche tutto molto più strutturato; c’è più roba e te ne accorgi quando vai per esempio al Fringe Festival di Edimburgo, dove ci sono tremila show ogni giorno per un mese e lì vedi tante cose. Io amo le improvvisazioni teatrali perché arrivo da lì, e ci sono delle compagnie, come gli Showstoppers o i Mischief, che creano dei format, degli spettacoli incredibili che in più sono anche improvvisati e con una band che improvvisa musica. C’è uno studio molto importante dietro, c’è gente che si prepara veramente tanto per improvvisare, e credo sia bello guardare quello che fanno gli altri perché fa da stimolo anche e soprattutto a inventare una tua versione, non a copiare o reinterpretare, perché ormai basta un trend di TikTok per reinterpretare qualcosa. La sfida è inventare qualcosa di tuo.
“Per me i social sono un lavoro, ma una parte del lavoro che faccio molto volentieri. Mi diverte fare i video, mi diverte leggere i messaggi che mi scrivono, ormai si sono create delle consuetudini”.
Messaggi “seri”, come di stampo femminista, e comicità: dove e come trovi il punto d’incontro tra messaggio e mezzo d’espressione?
Il punto d’incontro è che più che parlare delle cose uno le deve fare. Secondo me non è tanto parlare del femminismo che ti fa essere qualcuno che lancia un messaggio femminista, ma è quello che fai, come ti poni, le scelte che fai, anche le scelte di vita. Non è cosa dici ma è come lo dici, quando, in che posti. Io di mio mi sono messa a fare quello che volevo: potevo fare l’ingegnere, ma volevo fare la comica, e ho fatto la comica. Se femminismo significa anche che possiamo fare quello che vogliamo, questo è il mio modo.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione finora?
Fare questo lavoro. Io facevo l’impiegata, l’ingenerino, sposata, vita di provincia… Poi, ho deciso di mettermi a fare la comica, che era quello che volevo fare a 17 anni. Quindi, il mio atto di ribellione è stato onorare il sogno della me diciassettenne.
Il “vaffanculo” più bello della tua vita?
Vecchie relazioni non più positive per la mia esistenza.
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stessa grazie anche al tuo lavoro?
Pensavo di essere più estroversa, invece mi rendo conto che negli eventi mi attacco alle pareti e gli altri mi dicono: “Fatti fare i complimenti, fatti fare gli applausi”. A me piace stare sul palcoscenico e quindi pensavo che gli applausi sarei stata in grado di godermeli, e invece no. Finisco di fare quello che devo fare e fuggo via, perché ho paura di disturbare la gente se devo tenerla lì ad applaudire. Non sapevo questa cosa di me: parlo con tutti ma, in realtà, ho difficoltà a farmi fare i complimenti.
Qual è il libro sul tuo comodino in questo momento.
Uno che mi sta piacendo è “Generazione X” di Douglas Coupland: sto realizzando che i giovani oggi sono molto più depressi. Noi Millennial, una botta di vita in confronto. Io nei miei spettacoli parlo molto delle differenze generazionali e a proposito della generazione X, intuivo delle cose e questo libro me le sta confermando. Poi, ho finito da poco l’ultimo di Zerocalcare che mi è piaciuto un sacco, “L’uomo di marketing e la variante limone” di Walter Fontana, che tra l’altro letto da Luca Ravenna su Storytel a 1,5x di velocità è perfetto, è la nostra vita nelle riunioni. Un grande mix, insomma: saggi, romanzi, graphic novel.
Che cosa significa per te sentirti a tuo agio nella tua pelle?
È strano, perché trovo più facile descrivere il disagio, che è qualcosa che ti porta via dal binario.
Sentirmi a mio agio nella mia pelle significa non pensare: è quando non c’è una parte del corpo che senti di dover sistemare perché ti fa male o c’è qualcosa che ti stringe. È quel raro momento in cui tu “stai”. Non è che ti dimentichi del tuo corpo, perché trovo sia molto brutto il concetto che non devi pensare al tuo corpo perché la bellezza è effimera, eccetera, questa disconnessione dal corpo secondo me non è neanche così sana e salutare. Però, nel momento in cui tu ti fai uno scan e ti dici che è tutto okay: quello è sentirsi a proprio agio nella propria pelle.
L’ultima cosa che ti ha fatto ridere?
Io rido tantissimo con i meme più stupidi che esistano: con i tirannosauri senza mento, i giochi di parole più stupidi e brutti. Poi, una cosa che mi ha fatto davvero divertire è stata una mia rubrica sui social che si chiama Ancieli, dove chi è ora grande racconta cos’ha fatto in stage: mi sono ammazzata dalle risate leggendo le storie delle persone. Quella per cui ho riso così forte che mio marito è venuto a controllare cosa stesse succedendo era la storia di una persona che doveva far fare una radiografia ad una signora e quando ha detto alla paziente, “Bene, signora, adesso col petto al muro”, lei ha bussato sul muro [ride]. Le cose che succedono nella vita normale fanno enormemente più ridere di qualsiasi cosa possiamo costruire.
Qual è la tua isola felice?
La Sardegna, dove sono cresciuta. Non dico mai dove vado quando ci torno perché non ci deve venire nessuno, è la mia spiaggia e non ci voglio nessuno [ride].
Photos by Johnny Carrano
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