Quello del cinema e del teatro è un mondo in cui le storie si intrecciano e si manifestano attraverso un linguaggio comune, il linguaggio dell’arte, fatto di onestà e sperimentazione. In questo mondo, Dajana Roncione emerge con una voce forte e chiara. La sua carriera nasce sul palco del teatro e si dirama nel cinema, riempendosi di un amore per la scrittura e per l’espressione che diventa sempre più grande ad ogni progetto.
Parlando con Dajana ne ho percepito nitida l’essenza, la passione per l’onestà del racconto e il suo potere trasformativo, in cui il contatto con il pubblico diventa un elemento vitale.
Attraversando i suoi ultimi ruoli, da Giuli De Rosa nella serie “Vanina – Un vicequestore a Catania” fino allo spettacolo teatrale “Sleeping Beauty”, Dajana ci porta con sé in un percorso intimo e introspettivo, riflettendo sull’importanza della scrittura nella sua vita, sull’equilibrio tra razionalità e istinto nell’interpretazione dei personaggi, e su come alcuni mirati atti di ribellione possano diventare vitali atti di libertà personale.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
In realtà, ho iniziato con il teatro, quindi è stata quella la prima “apertura”. Sicuramente l’accademia Silvio D’Amico, con le sue 8 ore al giorno per 3 anni, mi ha fatto capire che mi trovavo nel posto giusto e che volevo fare questo mestiere.
Il primo spettacolo che ho fatto debuttando come protagonista in accademia è stato “La cucina” di Arnold Wesker per la regia di Armando Pugliese. È un testo molto corale e dinamico, in cui uno dei protagonisti era un uomo, ma Armando Pugliese decise di fare due versioni di questo spettacolo, una versione con un attore uomo e una con attrice donna. E scelse me per il ruolo di Peter. Durante le prove dello spettacolo mi tagliai un dito perché avevo sbattuto troppo violentemente il piatto da portata e il dito mi sanguinava, ma visto che anche da testo il personaggio di Peter ad un certo punto si taglia la mano, sembrava una scena di teatro nel teatro. Ricordo che mi rimase impresso questo sincronismo e che per me fu in qualche modo significativo a livello interpretativo visualizzare quel momento vero, fatto di reazioni vere e agitazioni vere, che quasi potevano confondersi con la rappresentazione di quel testo. Ero affascinata nel vedere la vita che a causa di un incidente si mischiava al testo rendendolo inevitabilmente più interessante. Da quel giorno ho sempre accolto gli incidenti a teatro come un “blessing”.
Ma la mia prima vera apertura è stata a 16 anni quando, durante il liceo, ho scelto di prendere parte a dei corsi di recitazione nei quali abbiamo studiato alcuni grandi autori teatrali. Il primo anno abbiamo lavorato al testo “Romeo e Giulietta”, che era un testo che conoscevo e che a me, a 16 anni, sembrava completamente onesto rispetto alle emozioni dell’amore. Visto che nella vita facciamo fatica ad essere onesti nelle relazioni, specialmente quando siamo piccoli e ancora non ci conosciamo, dato che ci dobbiamo difendere e recitiamo delle parti, capire che attraverso il teatro, un testo scritto bene e onestamente, tu potessi avere l’opportunità di vivere quel momento senza vergogna e senza difese, per me è stato il primo vero innamoramento verso questo mestiere.
Chiaramente ha tutto a che fare anche col cinema, che ha un linguaggio diverso, più dettagliato. Quando ho scoperto anche il cinema, mi ha appassionato il fatto che dovessi cercare di trovare quel tipo di comunicazione nel dettaglio, nel piccolo, che era sicuramente più difficile venendo dal teatro. Forse, in fin dei conti, il primo innamoramento per me è stata la scrittura: per me la scrittura è l’elemento principale. Quando ti trovi di fronte a parole che vanno veramente a fondo in un’emozione e non sono superficiali, è lì che mi viene voglia di farle mie, di recitarle e di condividerle. Questo è il motivo che mi ha spinto a fare questo lavoro.
“Quando ti trovi di fronte a parole che vanno veramente a fondo in un’emozione e non sono superficiali, è lì che mi viene voglia di farle mie, di recitarle e di condividerle”.
È molto bello quello che dici sull’onestà. Quando la riconosci in un progetto, è forse l’elemento che ti attira di più.
Sì, io credo profondamente nell’onestà della scrittura. Credo che i progetti migliori che abbiamo amato abbiano sempre avuto una scrittura forte in cui sicuramente si andava a fondo. Per esempio, “Anatomia di una caduta” non è un film particolarmente bello esteticamente, né dispendioso economicamente, ma ciò che ci ha colpito è stata la sceneggiatura, quanto siano andati a fondo nella psicologia dei personaggi e nelle emozioni dei personaggi. Quello per me ha un significato importante, come attrice. In più, venendo dal teatro, in cui ti confronti sempre con scrittori di un certo tipo, ti educhi a una pretesa diversa dalla scrittura.
I personaggi che mi colpivano di più mentre studiavo allo stabile di Palermo, come Antigone o Medea, sono tutti personaggi che hanno delle fortissime emozioni e delle fortissime azioni che ti coinvolgono: senti il personaggio, senti cosa sta vivendo dalla scrittura. È dal testo, dalla lettura in generale che per me nasce l’immaginazione.
Già da piccola ero interessata al cinema: mi piacevano film “particolari”, avevo insegnanti che mi facevano vedere film vecchi, perché era importante per loro che io conoscessi la storia, film magari anche difficili da comprendere ma che io ho avuto la fortuna di vedere con persone che me li hanno spiegati. Anche lì, il potere dell’immagine, combinato con la scrittura, per me era un’evasione da estasi. Io guardo tanti film, tante serie, leggo tanto, quindi mi ha sempre affascinato e attratto questa dimensione e farne parte per me è motivo di grande gratitudine, perché è un privilegio fare questo lavoro a livello umano, perché ti consente di connetterti con tantissimi stimoli che ti fanno crescere.
È un lavoro che mette insieme persone diverse che per un periodo lavorano insieme e hanno un obiettivo comune e si spera che siano si trovino bene in compagnia e si crea un rapporto intenso, lavorativo, produttivo, artistico. Quando il film o il progetto finisce, poi all’improvviso tutte quelle persone che vedevi ogni giorno non le vedi più, e subito dopo io mi sento come se avessi perso qualcosa, perché è difficile distaccarsi dalla micro-famiglia che hai creato per un periodo. Questo vale soprattutto per i film indipendenti, quando ci sei tu con le tue idee sostenute da un gruppo di persone che la pensano come te e ci sono meno meccanismi in azione.
Di solito, il motivo principale che ti muove a fare un progetto è l’amore e la voglia di condividere qualcosa di bello, senza altre dinamiche in mezzo, e questo tipo di lavori è quello che preferisco, con tutti che lottiamo per un obiettivo comune.
Nel tuo ultimo progetto, la miniserie “Vanina”, interpreti l’avvocato matrimonialista Giuli De Rosa, un personaggio complesso e sfaccettato. Cosa ti ha attratto di più di questo ruolo e cosa ti ha fatto dire di sì al progetto?
Mi trovo in un momento artistico di grande apertura, in questo momento. Non mi era ancora capitato, se non brevemente con “Io sono Mia” in cui si era creato questo rapporto di sorellanza con Serena Rossi, di dover interpretare un rapporto di amicizia con un altro personaggio, Vanina appunto. Mi piaceva l’idea di poter raccontare un’amicizia femminile e che il mio personaggio avesse dei lati comici, cosa che non mi capita spessissimo. Quando ho fatto i provini, ho scoperto di avere un lato comico che non mi aspettavo [ride]. Io la commedia fatta bene la trovo molto più difficile della tragedia e recitare con quell’energia è difficile, perché devi averne una tua già dall’inizio. Questa serie quindi l’ho vista come un challenge, uno step in più artistico che mi interessava esplorare nella complicità con Giusy [Buscemi], che abbiamo trovato sin dal primo provino. Mi sono poi trovata in un set pieno di persone così: Davide Merengo e Giusy trascinavano con la loro accoglienza, umiltà e apertura rispetto a ciò che ciascuno poteva portare di suo. Sul set sentivo che c’era uno spirito diverso, collettivo, che mi affascinava, per cui tutti avevano voglia di dare il loro meglio. È stupendo quando senti che si lavora insieme anche con persone che hanno atteggiamenti più individualisti, però in alcuni casi, come in questo, che era un lavoro corale, era importante avere il supporto della squadra.
Il successo di questa serie secondo me dipende anche da questo palpabile lavoro di squadra.
“Mi piaceva l’idea di poter raccontare un’amicizia femminile e che il mio personaggio avesse dei lati comici”.
Quali sono state le sfide più grandi che hai dovuto affrontare nell’interpretare Giuli e quali le cose più belle?
Il personaggio ha delle tematiche che mi affascinano come donna e mi sono care. In questa prima stagione c’è una transizione che Giuli deve fare anche nella vita personale, come in quella professionale, il che è anche il suo pregio e la parte divertente che aiuta Vanina a distrarsi. Mi piace, poi, che tutti i personaggi abbiano delle ferite da sanare per capire chi sono, trovo sia una cosa interessante che una serie dia al pubblico la possibilità di rispecchiarsi in loro.
Di solito gli attori, interpretando ogni volta personaggi diversi, fanno un lavoro introspettivo molto approfondito, si auto-analizzano, per forza di cose, imparando di sé stessi cose che prima magari non sapevano. Qual è stata l’ultima cosa che hai scoperto di te stessa grazie a questi due progetti?
C’è stato un momento in cui mi sono sentita un po’ meno libera artisticamente, evidentemente c’era qualcosa nella mia vita che mi faceva sentire meno aperta e meno libera, quindi più spaventata. In alcuni casi, il più delle volte quando recito sono quasi “obbligata” ad andare oltre le mie paure. Anche nello spettacolo teatrale che ho fatto di recente, “Sleeping Beauty”, il cui testo scritto da Carolina Balucani ha vinto alla Biennale College di Venezia, il mio personaggio affrontava una tematica molto bella dell’essere una persona quasi infantile o di cui gli altri non si fidavano abbastanza; entrando nel sogno di un altro personaggio, in qualche modo, lei fa esattamente quello che aveva paura di non saper fare, ovvero diventa la madre del personaggio. Questo è stato uno scalino che a me, che non sono biologicamente madre, ha aperto gli occhi su alcuni aspetti, facendomi scoprire delle cose in cui avevo più paura ad entrare personalmente.
L’atto teatrale che esorcizza il sentimento mi ha messo nella condizione di poter affrontare una tematica che sentivo poco chiara e invece mi ha fatto capire molte cose.
Lo spettacolo teatrale “Sleeping Beauty”coinvolge direttamente il pubblico invitandolo a partecipare alla festa iniziale. Come cambia la tua performance sapendo che c’è un tipo di interazione diretta con gli spettatori?
Io vengo da un teatro molto classico, ma sono sempre stata una fan di Fabrizio Arcuri e quando sono andata a vedere i suoi spettacoli, mi ha sempre colpito l’autenticità degli attori e il contatto costantemente attivo con il pubblico. Io, infatti, amo Pirandello e credo che lui, per esempio in “Sei personaggi in cerca d’autore”, cercasse di fare in modo che il pubblico non si addormenti ma si senta attivo nella conversazione. Quando ho scoperto questo tipo di teatro, è stata la mia rivelazione, ho sentito che era la cosa che mi parlava di più. Adoro avere il contatto con le persone, vorrei stare sul palco le ore, perché è un’emozione incredibile.
Ricordo che ad un certo punto c’erano le bolle di sapone in scena e mi è venuto in mente di spingere una bolla fino allo spettatore: si è creato un momento molto intimo quando la bolla è esplosa e noi ci siamo guardati e io ho sentito una carica infinita. La cosa bella è che non sai quello che accadrà, perché non sei solo tu, ma sei tu con il pubblico e non sai mai cosa accadrà. È quasi un aspetto performativo che ti rende vivo: non puoi che essere costantemente vivo in scena, nonostante e forse proprio perché a volte le cose possano farsi pericolose e scomode, tanto per l’attore quanto per lo spettatore.
“…non puoi che essere costantemente vivo in scena, nonostante e forse proprio perché a volte le cose possano farsi pericolose e scomode, tanto per l’attore quanto per lo spettatore”.
La trama è simbolica e onirica. Come sei entrata nel mondo del tuo personaggio?
Io ho lasciato che il testo piano piano mi suggerisse e mi sorprendesse, quindi mi sono limitata a stare nel momento quando recitavo. Lo spettacolo affronta delle tematiche molto importanti, trattate con una sensibilità e intelligenza magistrali, e in più il regista ci ha fatto lavorare affinché fossimo al di là della ferita che stavamo attraversando, quindi non c’era lamento né egocentrismo di alcun tipo verso il dolore, tutt’altro. Era questa la potenza del testo, che aveva una scrittura senza vergogna del sentimento, lo esplicitava, anzi, però noi lavoravamo come se fossimo un po’ al di là del dolore.
Sono andata a vedere a teatro a Londra “A Little Life”, e sia prima di cominciare, sia nelle pause, gli attori ripassavano sul palco davanti a noi, parlavano tra di loro, facevano i loro esercizi. Questa cosa mi ha colpito moltissimo e mi ha fatto sentire ancora più parte dello spettacolo e dei personaggi.
A Londra ci sono tantissime messe in scena di questo tipo, con una continua interazione col pubblico che secondo me è necessaria, come lo è anche la distanza, da cui capisci un sacco di cose. Ad oggi, per me, artisticamente, preferisco avere un contatto con il pubblico e capisco che il pubblico riesce ad entrare meglio in una situazione nella quale viene coinvolto e diventa attivo. Tra tutti gli scrittori teatrali, infatti, Pirandello è lo sperimentatore il cui lavoro mi affascina particolarmente proprio perché cerca di fare questo.
Tu scrivi? Quanto è importante per te la scrittura? Ha un ruolo anche nella tua vita quotidiana o solo nel tuo lavoro?
Sì, io ho sempre scritto nella mia vita quotidiana.
Quando tutti i pensieri si accumulano, io sento il bisogno di fare ordine e creare una distanza per vederli distintamente e lo faccio tramite la scrittura. Ogni volta che c’è qualcosa che non riesco a risolvere, che mi fa star male o anche qualcosa di bello, mi viene istintivo scrivere e rileggere e poi lasciarlo lì, senza costruirci nulla sopra. Non è, però, una pratica costante: lo faccio quando mi sento di farla. Invece, durante la pandemia, per la prima volta ho scritto un trattamento per una serie dedicata a Tina Modotti, una fotografa rivoluzionaria che mi ha sempre appassionata. Sono più di 10 anni che lavoro a questo progetto, finché non ho deciso di provare a proporre io qualcosa di creativo, dato tutte le ricerche che avevo fatto su di lei. Però, se dovevo proporre qualcosa, dovevo anche mettere su carta tutto quello che avevo in testa, cosa che ho fatto ed è stata un’esperienza bellissima. È un progetto ambizioso e sono felice di averlo fatto: mi ha dimostrato che la passione verso qualcosa ti fa scoprire delle cose nuove, perché poi non sono più riuscita a scrivere altro; quindi, evidentemente è stato per lei che l’ho fatto, quella volta, e non so se riaccadrà.
“Quando tutti i pensieri si accumulano, io sento il bisogno di fare ordine e creare una distanza per vederli distintamente…”
Come attrice, come ti avvicini alla creazione e alla comprensione di un personaggio? Tendi ad essere più razionale o istintiva, quando lo prepari?
In realtà sono un po’ contraddittoria, perché alla fine con gli anni ho capito che è meglio spegnere il cervello e ascoltare il corpo. Poi come attrice sono molto fisica, cosa che ho capito più tardi, ed effettivamente il mio istinto funziona molto meglio della mia testa, tuttavia ho bisogno di creare un minimo di struttura e avere un minimo di idea, infatti lavoro sempre con una coach, Lucilla Miarelli. Ho sempre studiato, anche dopo l’Accademia, ho sempre seguito masterclass, perché penso che tutto possa servire. Ci sono dei momenti in cui, magari, penso che un metodo di recitazione da seguire sia importante, altri momenti in cui voglio solo essere presente sul momento, altri ancora in cui ho bisogno di sentire il mio pollice che trema, o cercare un contatto visivo col mio partner di scena.
Alla fine, per me è importante sentirmi viva, e qualsiasi cosa mi serva per sentirmi viva io cerco di farla. Una delle cose che ho scoperto ultimamente, anche se in realtà in fondo già lo sapevo, ma forse per pigrizia non lo facevo, è che io devo ballare prima di un provino o prima di girare, fino a quando non sento che sono lì nel momento. Solo così mi sento aperta e libera.
Cerco di trovare cose che mi aiutino a non stare nella testa, ma a stare lì, con tutto quello che succede, perché solo così tutto il resto funziona.
L’ultimo film che hai visto che è rimasto con te?
“Perfect Days”. Lo sguardo di quell’attore me lo porterò dentro per sempre, c’è un mondo in quel volto. Film meraviglioso, bello, puro, elegante.
Qual è il libro che stai leggendo invece, o uno che vorresti consigliare?
Io sono un’appassionata di Murakami e adesso sto leggendo “Il mestiere dello scrittore”.
Alcuni libri che mi hanno segnata sono “L’arte della gioia”, “1984” e “Quando il corpo dice no” di Gabor Maté, che hanno lavorato sulla mia esigenza di libertà, mi hanno aiutato a capire come posso essere libera.
Il tuo più grande atto di ribellione finora?
È successo circa quattro mesi fa. Non so se sia stato il più grande, ma è sicuramente stato quello di cui si sono accorti tutti. È stato come se un tappo esplodesse.
Io sono molto educata e attenta, e penso di aver represso la rabbia in moltissimi casi, anche quando avevo il diritto di dire: “Non mi sta bene”. Poi un giorno ho avuto un’esplosione incontrollabile, come i supereroi quando scoprono di avere i poteri e non sanno controllarli [ride]. Credo sia stato un momento di sana ribellione, perché avevo evidentemente bisogno di permettermi dei “no” che per un po’ mi ero tenuta dentro. All’inizio è stato strano e lo era anche per gli altri, però è stato salvifico, perché ora io mi sento molto più libera e ho trovato un equilibrio.
Delle volte secondo me è necessario ribellarsi o ascoltare quella voce che dice: “Basta, questo è un limite e non si può più dire di sì”. Viviamo in un momento storico complicato in cui si tende ad avere paura, per esempio a livello lavorativo per cui si pensa sia sempre meglio essere gentili e accondiscendenti, però ci sono anche cose che ci vengono preimposte e che maturando e riflettendoci riconosciamo come sbagliate.
Ora riesco a bilanciare la mia gentilezza essendo allo stesso tempo ferma su determinate cose che prima mi mangiavano: mi difendo di più grazie a questo atto di ribellione.
“…avevo evidentemente bisogno di permettermi dei ‘no’ che per un po’ mi ero tenuta dentro. All’inizio è stato strano e lo era anche per gli altri, però è stato salvifico, perché ora io mi sento molto più libera e ho trovato un equilibrio”.
Qual è la tua isola felice?
Io sono Siciliana e quando penso a qualcosa che mi fa star bene penso al mare e al sole, che rappresentano un po’ la mia origine.
Poi, mio marito, quando sono con lui sono felice.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup and Hair by Micaela Ingrassia.
Styling by Sara Castelli Gattinara.
Assistant stylist Ginevra Cipolloni.
Thanks to Other srl.
LOOK 1
Dress and Gloves: Palmatic Studio
Shoes: Sergio Rossi
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Dress: Max Mara
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