Sinceramente, non capisco come non si possa essere preoccupati della situazione del fast fashion in generale, ma soprattutto negli ultimi tempi. A fine estate, sono stati diffusi i risultati che un sito tedesco Oko-Test ha effettuato su alcuni prodotti Shein: solo un terzo dei 21 articoli ordinati ha raggiunto un voto appena adeguato, evidenziamo come addirittura su alcuni vestiti da bambini fossero stati ritrovati dei residui tossici. Qualche giorno dopo, la Consumer Product Safety Commission (CPSC) degli Stati Uniti, l’agenzia governativa incaricata di garantire la sicurezza dei prodotti in commercio, ha annunciato che svolgerà un’indagine su piattaforme come Shein e Temu per valutare la sicurezza degli articoli venduti, in particolare quelli per neonati. Come se non bastasse, su Tik Tok sono virali diversi video di persone che trovano degli scorpioni nei loro pacchi Shein. Scorpioni VIVI.
E ancora, le accuse di sfruttamento dei dipendenti, per non parlare della quasi totale assenza di informazioni sulla provenienza dei materiali e sull’utilizzo delle risorse e sui problemi di violazione del copyright dei prodotti. Trovo che la situazione sia davvero allarmante ma ciò nonostante, Shein punta ad un fatturato di 60 miliardi di dollari entro il 2025, mentre Temu ha raggiunto i 52,3 miliardi di dollari di fatturato. Insomma, per quale motivo il fast fashion corre così velocemente in un momento in cui più che mai è necessario rallentare?
L’overconsumptation è ormai un dato di fatto: che siano prodotti PR, beauty o fashion, sembra che sui social ci sia un vero e proprio desiderio di mostrare che si ha sempre di più, sempre qualcosa di diverso. Ma questo implica comprare sempre di più e sempre qualcosa di diverso, se non si ricevono regali dai brand. Ecco quindi che per soddisfare le aspettative del tanto e diverso, bisogna comprare ed è qui che colossi come Shein, Temu, Aliexpress, Primark o altri entrano in gioco. Maglietta a 3 euro? Aggiungo al carrello. Vestito da cerimonia che sulle foto sembra di ottima fattura a 15 euro? Mi serve. Stivali in “pelle” simili a quelli del brand famoso di lusso ma a soli 8 euro? Perchè no. E ancora, abiti da sposa, prodotti per bambini, accessori di tendenza: c’è tutto, certo.
Ma il problema è: come è possibile che ci sia tutto e a così poco prezzo? Come si riescono a sostenere dei ritmi di produzione tali per cui se oggi un capo diventa oggetto di interesse, domani ne trovo una replica online che costa poco?
È ovvio che cedere alla tentazione è facile, soprattutto per i giovani, che hanno meno possibilità economiche e autonome, oltre che essere il target maggiormente influenzabile da tutte queste “necessità” che sembrano assolute sul momento e che poi, la maggior parte delle volte, finiscono dimenticate in fondo all’armadio o messe in vendita su Vinted. Se è indubbio che un’azione legale ufficiale sia necessaria per controllare e regolamentare la vendita di articoli fast fashion in tutte le fasi e a tutti i livelli, è anche vero che è il consumatore stesso a giocare un ruolo da protagonista. Se la domanda diminuisce, la risposta rallenta. Se i controlli si fanno più severi per proteggere clienti, fornitori e lavoratori, l’asticella della qualità aumenta. Sembra così facile e intuitivo come modus operandi. Eppure.
Eppure il gioco degli interessi e appunto la mancanza di un sistema diligentemente controllato continuano a garantire il successo di questi e altri colossi del fast fashion, che sul concetto di contraffazione e sfruttamento costruiscono i loro imperi. Se è indubbio che una nuova consapevolezza intorno alle dinamiche della sostenibilità nella moda sta spianando la strada verso un rallentamento in termini di produzione e di rispetto delle risorse, è anche vero che le dinamiche del mercato globale e il metodo di vendita online ormai in ascesa costante/gli algoritmi pretendono la velocità, proprio l’elemento che contraddistingue il fast fashion. Sembra incredibile che nomi come Zara ed H&M si ritrovino ad essere affiancati da nomi come Shein che, in così poco tempo, è diventata una delle app di moda più scaricate a livello globale, capace di offrire fino a 6 mila nuovi articoli al giorno con un prezzo medio di 7 euro.
Nessuno tuttavia si domanda come sia possibile avere tali numeri? A quali ritmi si lavori per produrre così tanto in così poco tempo? All’assenza di controllo sulla qualità di questi capi? La risposta a tutte queste domande è che il modello è semplicemente insostenibile, sia nei confronti dell’ambiente che della forza lavoro umano. Le notizie e i contenuti social che ne denunciano gli aspetti negativi e che confermano la necessità di un cambiamento non sembrano quindi sufficienti per dar voce ad un vero e proprio cambio di rotta. È vero, in parallelo è rassicurante vedere quanti contenuti di denuncia verso il fast fashion vengono pubblicati tutti i giorni, ma è più facile lasciarsi andare alla rabbia piuttosto che alla speranza perchè tutti noi dobbiamo fare qualcosa nel nostro piccolo. Anche solo scegliere di non comprare quell’articolo a 3 euro perchè si comprende che non si può produrre proprio quell’articolo a soli 3 euro sarebbe già un passo da giganti. I campanelli di allarme ci sono tutti, ma non abbastanza persone li sentono: e così facendo, l’industria del fast fashion continua a mantenere il suo potere.
E, ripetiamolo, uno spiraglio di speranza c’è: la consapevolezza ambientale è in crescita, così come le abitudini di shopping più sostenibili e la ricerca di alternative ai grandi gruppi del fast fashion. Comprare meno e meglio è uno slogan che inizia a far sentire la sua voce: lo dimostra ad esempio il boom di realtà come Vinted e Vestiaire, che vogliono rendere la moda più democratica e accessibile senza dover spendere troppo e senza dover immettere nuovi elementi sul mercato, ma dando invece circolarità a quelli già esistenti. Si ricerca, di pari passo, l’unicità di un capo: al contrario del fast fashion, dove i prodotti sono sempre quelli perchè seguono una determinata tendenza, un articolo di seconda mano è più unico non essendo per forza di cose “all’ultima moda”.
Di pari passo, la strategia politica globale non può più rimanere indifferente alla necessità di un cambiamento: gli obiettivi sono segnati, i mezzi per raggiungerli ci sono tutti, anzi sono in continua crescita grazie alle innovazioni tecnologiche. Quando si inizierà a fare sul serio e ad impegnarsi per raggiungerli effettivamente? La trasparenza non è più un plus: è una necessità invocata a gran voce e il fatto che colossi del fast fashion si rifiutino di condividere i dati inerenti alla loro produzione o siano costantemente accusati di greenwashing, dovrebbe far scattare un segnale d’allarme che, come un eco, si amplifica nel tempo e nel mondo, portando tutti i consumatori a mettere in discussione le loro scelte d’acquisto.
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