Ci sono troppe cose da dire su “Fiore Gemello” e nessuna di queste è facile. Fanno tutte un po’ male, così come fa male essere messi davanti alla sofferenza creata dall’indifferenza; proprio come fa male vedere la composizione perfetta realizzata dalla regista Laura Luchetti, questa fotografia realistica di un frammento d’Italia, la Sardegna, ma che parla a tutte le regioni, a tutti i paesini, a tutte le città. Una volta iniziato a vederlo, però, non si può più chiudere gli occhi. All’alba di un mondo governato dall’odio e dalla paura dell’altro, del diverso, Laura sceglie di raccontare una storia di amicizia ma senza nascondersi dietro il velo della finzione cinematografica per tracciare i contorni d’una realtà a cui troppi volgono le spalle, troppo spesso.
Al Festival Del Cinema di Londra abbiamo avuto modo di parlare con Laura Luchetti, sia del progetto che dell’essere una donna ed una regista nel 2018.
“Fiore Gemello”, presentato prima al Toronto Film Festival e ora a Londra, segue Basim (Kallil Kone), un giovane immigrato clandestino che parla solo poche parole di Italiano, e Anna, interpretata da Anastasiya Bogach, figlia fuggitiva d’un trafficante di migranti la cui vita viene messa in pericolo dal fatto stesso di essere una ragazza. É un road trip quello che i due affrontano, un’avventura per la sopravvivenza in cui strada e natura fanno da padroni, ma privo delle delicatezze tipiche del grande schermo: è la realtà, quella che vediamo attraverso la lente di Laura, nuda e a volte straziante, sullo sfondo di una bella storia d’amore e di cameratismo, di unione indissolubile. Una narrazione ricca di speranza.
Perchè “Fiore Gemello”, oltre a spezzare il cuore, sa anche come scaldarlo.
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Da dove nasce l’idea di questo film?
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Sull’idea ci ho lavorato per molto tempo, e nasce dal racconto di una persona, di una ragazza che ho conosciuto due anni fa e che era fuggita dall’Italia sparendo, per scappare da un background violento, e allo stesso tempo dalle varie letture sul fenomeno dell’immigrazione nazionale: ho scoperto che un numero altissimo di persone, 5000/7000, anche all’anno, soprattutto minorenni, scompaiono dopo essere arrivati, perché non hanno documenti, non hanno niente, e si perdono nei boschi, nei supermercati… L’idea nasce dall’incontro di questi due giovani in fuga che provengono dallo stesso ambiente del traffico dell’immigrazione, ma da due poli opposti, perché una è la figlia del trafficante di migranti mentre l’altro è un immigrato clandestino.
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Anche i due attori che hai scelto provengono da storie di immigrazione…
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Lui l’ho cercato fra i ragazzi appena arrivati in Italia sui vari barconi, cercavo una cosa vera, e per questo ho fatto tanti provini, tanti incontri. Quando poi è arrivata Anastasyia è cambiato tutto, durante le nostre chiacchierate ho scoperto che anche lei veniva da fuori, che aveva avuto questo lungo viaggio, che si era dovuta adattare a un paese totalmente nuovo e che ha la stessa qualità di lui, ossia l’essere sopravvissuti. Non sono normali, sono sopravvissuti ad un grande viaggio emotivo, anche geografico. Questo li rende un po’ selvatici, istintivi, capiscono subito perché hanno dovuto lottare per arrivare dove sono. È stata una coincidenza che li ha resi quelli giusti per me.
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Quelli di cui parli sono temi scottanti, soprattutto l’immigrazione e il traffico dei migranti: che messaggio vorresti dare all’Italia contemporanea?
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Non credo di essere all’altezza di dare messaggi, io racconto una storia la cui base fondamentale è che nonostante la grande differenza di lingua, cultura, provenienza ed esperienza, se due persone si incontrano, anche casualmente, non importa questa differenza enorme, perché nel momento in cui si incontrano diventano una cosa sola, non riescono più a vivere senza l’altro: rappresentano due poli opposti, e per me questo è molto importante. Ho scelto questo ambiente e questi protagonisti perché questa è la cosa più forte che sta succedendo adesso in Italia, è ciò che il nostro paese vive adesso. Mi sembrava interessante raccontare la storia di un incontro impossibile, ma che poi diventa fondamentale per i due ragazzi.
Funzionano meglio insieme.
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Hai parlato anche di un terzo protagonista, la natura e il paesaggio della Sardegna, che è bellissimo ma molto duro: come va interpretata la natura in questo film?
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Il paesaggio e la Sardegna stessa fanno da rifugio ai fuggiaschi, ma rappresentano un pericolo allo stesso tempo. La bellezza del pericolo è affascinante, no? E la bellezza della Sardegna sta proprio in questo, è ruffiana, non si fa conquistare subito, va conquistata, ma la difficoltà della conquista è proporzionale alla bellezza del successo nell’averla conquistata.
Mi sembrava interessante raccontare la storia di un incontro impossibile, ma che poi diventa fondamentale per i due ragazzi.
Funzionano meglio insieme.
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Il finale con Anna e Basim è criptico, appare quasi come un ritorno alla natura, può essere considerato un lieto fine?
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Io sono ottimista, per me c’è sempre speranza: una cosa importante per me in questa storia era sottolineare il fatto che nonostante l’esperienza e i pericoli, il pericolo che Manfredi rappresenta su ragazzi come loro, nonostante le difficoltà, la violenza e l’atrocità, c’è sempre una speranza. Per me il finale rappresenta finalmente l’inizio di un cammino verso il futuro.
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Al Toronto Film Festival hai avuto un’ottimo esito, anche alla critica è piaciuto molto, ha vinto come menzione d’onore della critica per il premio FIPRESCI: quale reazione ti ha colpito di più, sia del pubblico che della critica?
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La reazioni che più mi ha colpito è stata quella di un signore che durante un Q&A mi ha detto che sarebbe stato difficile levarsi le immagini del film non tanto dalla vista ma dal cuore, mi sono anche un po’ commossa perché per un commento così sono valsi 5 anni di lavoro. È un film fatto con il cuore e l’istinto, non so se sono brava, ma quello che so è che lavoro molto con il cuore, l’istinto e lo stomaco. Abbiamo fatto questo film con tantissimo amore e spero che almeno un pochino di questo amore possa venire fuori anche in questa proiezione.
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Personalmente, credo sia terrible all’inizio quando si vede Basim che cerca di aiutare il signore con il carrello…
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Abbiamo messo la macchina da presa e l’abbiamo lasciata accesa per quaranta minuti e sono stati 40 minuti di orrore per Kalill, qualcuno gli ha anche dato dei soldi, lui gli ha presi e li ha dati a dei ragazzi di colore che erano in un angolo a fare proprio quel lavoro, dicendogli: “Io sono un attore, li do a voi” e glieli ha regalati. Lui ha già fatte quelle cose in precedenza, è arrivato in un barcone, e quando è arrivato parlava la lingua che si sente nel film, un misto tra francese, italiano e bambara, il suo dialetto tipico della Costa d’Avorio. Quindi quando ha letto la sceneggiatura ha detto: “Non è tanto lontano dalla mia storia”, poi la sua storia personale l’abbiamo un po’ inglobata dentro al personaggio.
Ha detto: “Non è tanto lontano dalla mia storia”.
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Adesso che hai concluso questo progetto, cosa c’è nel tuo futuro?
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Un sacco di cioccolata (ride). Sto scrivendo un’altra storia adesso, io faccio anche animazione in stop motion, è una mia passione da 4 anni: abbiamo iniziato a Venezia durante la settimana della critica con un progetto intitolato “Sugarlove”, doppiato da Pierfrancesco Favino e Anna Ferzetti; prima ancora ne avevo fatto un altro che aveva ricevuto un sacco di premi, era anche andato ai Nastri d’Argento. Quindi oltre ad essere all’inizio della scrittura di un altro film spero di fare presto un altro progetto di animazione in stop motion, perché è la mia grande passione.
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È un periodo difficile per essere una regista donna in Italia, dove ci sono anche poche figure femminili di riferimento: come vivi questo fatto, e quali sono state le tue più grandi difficoltà nell’affrontare un ruolo così ostracizzato, in un industria prettamente maschile?
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La più grande difficoltà è fare un film intanto, sia per gli uomini che per le donne. Personalmente potrei dire un sacco di cose ma credo nel lavoro duro e serio, nelle capacità della donna di gestire un lavoro del genere e dei figli anche, perché io che ne ho una, so cosa vuol dire andare sul set con un figlio piccolo. Questa è la cosa più difficile per chi fa dei mestieri totalizzanti, ma lo è anche per chi lavora in ufficio dalle 9 alle 17. Chiaro che c’è bisogno di una griglia legislativa “speciale” che ci aiuti ad avere le stesse opportunità ma ho molta fiducia, il numero di donne che fa questo lavoro sta crescendo. Piano piano stiamo arrivando, può essere stato difficile ma c’è una grande resilienza, resistenza e attenzione al dettaglio nell’essere donna. Io penso a lavorare e ad andare avanti con il paraocchi e se ci sono problemi cerco di risolverli, c’è bisogno di fare questo insieme ad altre donne, e di ricevere un aiuto che dia un senso alla parola “pari opportunità”, anche se poi quello che devi raggiungere è la qualità del lavoro: devi riuscire a fare le cose non solo perché si è donne, ma perché si cerca la maggiore qualità possibile all’interno dei propri limiti.
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C’è una/un regista che ti ha ispirato durante la tua carriera?
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Tantissimi, alla fine uno si innamora dei film di alcuni registi, li immagazzina, li metabolizza, a volte poi pensi di avere delle idee originali e invece era qualcosa di già fatto nel passato. Una regista che amo è Agnès Varda, meravigliosa, un genio di follia, ha fatto dei film meravigliosi che mi piacciono tantissimo.
LIBERTÁ.