Nella regia di “Euforia”, Valeria Golino ha esplorato un tema difficile della vita di chiunque, attraverso uno strato coloratissimo di vivacità e di un costante “stupore,” di superficialità: un realtà che è, però, solo un’illusione, uno strumento della mente per proteggersi. Per dimenticare.
“Euforia” è una diapositiva interessante del momento più difficile della vita di una persona: quando perdiamo qualcuno e, attraverso questa perdita, ci viene dato un assaggio della nostra stessa mortalità. Quando Matteo [Riccardo Scamarcio] scopre che suo fratello Ettore [Valerio Mastandrea] soffre di una malattia terminale, all’improvviso si sente schiacciato dal peso titanico della morte, della fragilità della sua stessa esistenza. Ettore e Matteo sono diversi e non sono mai stati molto intimi, ma come portanno ritrovare il loro legame nel momento più instabile della vita senza cadere preda delle proprie differenze? In questo gioco di dimenticanze, di rimozione che il protagonista impone a sè stesso e agli altri, la luce colorata delle feste e di uno stile di vita lussuoso (la “superficie”, per l’appunto, di Matteo e ciò che mostra al mondo) si uniscono e cozzano con tematiche più oscure, più profonde: temi che, forse, la nostra natura cerca di tenere a bada con bugie, con colori e con un leggero senso di, per l’appunto, euforia.
Abbiamo incontrato Valeria a Londra, in occasione del Festival del Cinema Made in Italy: giorni che il panorama internazionale dedica interamente alle novità e alle bellezze del cinema italiano e che si focalizzano sul Made in Italy, nonostante questi sia indubbiamente già una forte presenza nel più grande London Film Festival che si tiene a Novembre (e in cui abbiamo incontrato Valeria per la prima volta per il suo ruolo in “Figlia Mia“).
Questo è ciò che ci ha raccontato di “Euforia”. Dalle difficoltà presentate dai temi più superficiali, agli archetipi della drammaturgia esplorati nel film, fino a cosa significa essere una regista nel mondo di oggi e le molte nomine ricevute da “Euforia” ai David di Donatello.
Sei stata nominata ai David di Donatello come miglior regista con “Euforia” che è stato anche nominato come miglior film e miglior sceneggiatura. Come ti senti al riguardo? Te lo aspettavi?
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Sono molto contenta del montaggio, molto contenta dei due attori. Sono molto, molto contenta. É sempre allegrissimo quando vieni nominato, poi quasi sicuramente non vincerò niente perchè sono con dei film che…ecco, sono molto contenta di stare in una bella cinquina. Preferisco perdere con dei bei film che vincere in mezzo alla mediocrità. Però sono contenta, penso che abbiamo ottenuto le nomination importanti.
In superficie c’è quasi un senso di “leggerezza”, di euforia appunto, che intervalla momenti drammatici. Sotto questa leggerezza, però, quello che traspare dei personaggi è che hanno un fortissimo bisogno di amore (che a volte non possono o non riescono a comunicare). È una profondità che si nota per tutto il film. Come l’hai gestita?
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Sai, per me era più facile il lavoro sulla profondità che sulla superficie. Questa è stata per me la vera sfida. Perché, sulla profondità, i temi erano già così gravi e così seri che il mio lavoro ha tentato di trattare dei temi che sono quasi degli archetipi anche: i due fratelli, la malattia, la morte, l’essere diversi. In tutti questi archetipi della drammaturgia, quasi Biblici, ho tentato di non cadere nella retorica. Ho cercato di spostarmi di volta in volta e di vedere un punto di vista che non è proprio il primo a cui penseresti, il primo a cui penso. Però diciamo che quella cosa lì è più nelle mie corde, quello che mi ha più preoccupato era proprio la superficie, perchè chiamavo il mio film “Euforia” e doveva essere un contenitore pieno di colore, di superficialità, di distrazione, con dentro una cosa molto grave.
Questa parte diciamo “superficiale” era quella che mi preoccupava di più.
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la morte,
essere diversi
…
Infatti è un film che distrae l’occhio. Matteo per primo cerca di ignorare la tematica più profonda, cerca di sviare.
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Vuole farlo dimenticare e dimenticarsene. É un film sulla rimozione, proprio: la rimozione della morte di una persona cara ma anche della propria morte. Perché, quando abbiamo una persona cara che rischia di scomparire o che scompare, naturalmente quello è anche un campanello della propria mortalità. Infatti, ad un certo punto lo faccio dire a Valentina Cervi, quando Matteo [Riccardo Scamarcio] sta sognando e Tatiana [Valentina Cervi] gli dice: “sai che stavi sognando? Dicevi ‘non voglio morire’ ”.
Lei glielo dice quasi con leggerezza, ma lui risponde, “ah, sì?”.
Perchè è come se lui avesse preso in sé, assimilato questa cosa. É un film sulla rimozione che secondo me tutti abbiamo…poi, tutti, non voglio generalizzare, ognuno affronta il tema diversamente. Ma c’è questa cosa diciamo che sento in me e nelle persone nel mio mondo, di evitare di pensare alla morte.
“Sai che stavi sognando? Dicevi ‘non voglio morire’ “.
Avevo letto in un’intervista di Cannes che ti “limiti a fare i film che sei in grado di fare e non che sogni di fare”. É stata una considerazione interessante come filmmaker donna, e mi domando se sia una cosa che hai realizzato perché è difficile come regista in generale, perché è difficilissimo fare un film, o perché è difficile essere donna, attrice e regista e riuscire a mettere in piedi un film grande, più ambizioso.
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Allora, c’è molto di tutto questo che dici, sicuramente. Anche se penso che forse tra tutti i motivi, l’essere donna in questo momento più che un ostacolo è quasi un vantaggio. Perché siamo passati da “non vi facciamo fare niente” a “dovete fare tutto”. Forse tra qualche anno arriveremo a quel giusto equilibrio in cui non ci sentiremo più una specie protetta e non dovremo più parlarne, e sarà naturale guadagnare gli stessi soldi di un uomo, sarà naturale avere le stesse opportunità senza dover continuare a cadere in questa cosa propagandistica. In questo momento serve molto, sta servendo effettivamente a far lavorare molto di più le donne ed è utilissimo, anche se rischia di ricadere anche un po’ in quella cosa di “specie protetta”, come dicevo, che è l’ultima cosa in cui mi voglio rivedere. Però è vero quello che dici.
Anche quando disegno, ad esempio: non disegno quello che vorrei disegnare, ma quello che so disegnare. Sono quasi sempre le stesse cose, in qualche modo la tua fantasia si sviluppa in quel modo e tu hai imparato a fare una cosa: certo che vorrei fare delle cose bellissime e diverse, ma non le so fare e quindi faccio quello. Oppure disegno sempre le stesse facce. E nei film certo che vorrei essere Kubrick, e vorrei avere quel tipo di arte, ma alla fine le cose che mi interessano, le mie piccole ossessioni, il modo in cui filmo le cose, sono quelle che so fare io. É vero anche che noi in Italia siamo abituati a censurare un po’ la nostra fantasia, perchè sappiamo. Adesso c’è un nuovo trend in cui c’è un po’ più di libertà, vengono dati a giovani registi anche più mezzi per fare film, però per tanto tempo il cinema che ho fatto io, anche come attrice, in Italia era composto da film che dovevano essere sempre uguali: dovevano costare poco, dovevano non essere girati in molti posti, cose così.
Quindi la nostra fantasia censurava la storia prima ancora di arrivare a proporla.
“Siamo passati da ‘non vi facciamo fare niente’…”
“…a ‘dovete fare tutto'”.
E adesso senti che si potrebbe azzardare di più?
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Semmai avrò di nuovo un’idea, perché sono in quel momento in cui ho paura di non averne mai più. Sto ricominciando a pensare a cosa fare e sono molto preoccupata di non avere un’idea.
Però qualcosa uscirà [ride]. E sì, mi piacerebbe potermi allargare un po’ orizzontalmente: ad esempio anche con altre lingue, altri paesi, perché ho vissuto tutta la mia vita un po’ qui e un po’ lì. Sarebbe un peccato non poter esplorare delle cose che ho già accumulato, delle cose che so e che mi piacerebbe riprendere.