Vedere “The Painted Bird” si rivela una vera e propria esperienza, non solo dal punto di vista cinematografico ma anche da quello umano: un viaggio intorno ad un mondo che potrebbe essere narrato in un futuro distopico tanto quanto nel Medioevo, e un viaggio di umanità che fa vedere la violenza, ma, come dice il regista, solo come cornice di un quadro fatto di amore.
Amore per il cinema, amore per i colori (bianco e nero), amore per una storia che parla di tutti noi. Di questo quadro d’amore, dipinto dal regista Václav Marhoul e dal direttore della fotografia Vladimír Smutný, fanno parte anche gli attori Udo Kier e Barry Pepper, due leggende del cinema che hanno alle spalle film come “Melancholia” (Lars Von Trier) e “Salvate il soldato Ryan” (Stephen Spielberg) rispettivamente. Solo per fare alcuni dei molti, molti esempi.
Un film impossibile da dimenticare, che ti porta non tanto ad avere un confronto sul film di per sé, ma ti porta a parlare della vita, perché cos’altro è il cinema, quando ci riesce, se non la trasposizione della realtà nel modo più onesto? E allora, quando questo succede, quando le storie di vita, del presente e del futuro vengono unite in un mondo nuovo, allora è lì che si crea la magia, allora è lì che si passa del tempo a parlare con Udo Kier e Barry Pepper di qualcosa che va oltre la vita cinematografica.
La magia l’ha creata “The Painted Bird”, film che per molti potrebbe essere uno di quelli per cui ci si alza dalla sala a metà spettacolo, ma che in realtà, se si vuole guardare da vicino, nasconde, ma neanche troppo, tanta bellezza.
E così, proprio come quell’uccellino dipinto che non viene accettato perché diverso, il film ci insegna a spiegare le ali, a rischiare, anche se sembra una missione impossibile, anche se il mondo forse non sembra pronto.
Prima di tutto, lasciate che vi dica che ho adorato il film.
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B: Sono così contento di sentirlo, penso tu sia la prima persona a dire una cosa del genere.
U: In modo diverso.
B: Nel senso che le persone non hanno mai fatto un commento del genere, hanno sempre e solo detto che è stato intenso e lungo.
Il film è inquietante a tratti, o meglio, intenso, ma per me è un’opera d’arte.
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U: È perché le giovani generazioni hanno dimenticato il significato di tutto, dei campi di concentramento e cose del genere. È successo 80 anni fa e la gente ha dimenticato cos’era.
B: A livello cinematografico, c’è tanto da apprezzare in quanto a respirabilità, il film consente al pubblico di respirare questi ambienti grandiosi mentre il ragazzo metabolizza il tutto, non c’è nessun tipo di violenza in atto. Vedi il ragazzo nella natura, che cammina nella foresta o nei campi di grano, ed è cinematograficamente strabiliante. Quando hai detto, prima, che hai adorato il film, capisco cosa la gente può apprezzare in particolare, ovvero la creazione visiva a cui Václav Marhoul ha dato vita.
“Vedi il ragazzo nella natura, che cammina nella foresta o nei campi di grano, ed è cinematograficamente strabiliante”.
“…le giovani generazioni hanno dimenticato il significato di tutto…”
Il regista ha dichiarato che la violenza è solo una cornice del film, che in realtà parla d’amore. Qual è per ciascuno di voi il messaggio d’amore legato a voi stessi e alla storia?
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U: Il mio personaggio ovviamente è violento, ma ama sua moglie così tanto da diventare violento perché è geloso che lei abbia una storia con l’aiutante, ed è questo il motivo per cui fa quello che fa nel film. Lo fa per amore, non per violenza, ecco perché vuole cavargli gli occhi. Il motivo per cui vuole farlo, sul momento, è perché così l’aiutante non può più vedere sua moglie.
Il bello è che il ragazzo è stato brillante nel film, ci ha uniti. Io non ho scene con Stellan Skarsgård, né con Barry o Harvey Keitel. Sono tornato in America e la gente mi ha chiesto “com’è andata con Harvey Keitel?” E io ho risposto, “non lo so”, “Che intendi?”, “Abbiamo tutti lavorato separatamente”.
Il film mi è piaciuto, è difficile spiegarlo in poche parole. Penso sia un capolavoro. Di solito, quando senti che un film dura 2 ore e 50 minuti, pensi a Bernardo Bertolucci, Lars von Trier, che sono tutti grandi registi, quindi per quanto mi riguarda, gli è concesso di fare un film di 2 ore e 50.
B: Nessuno batte ciglio di fronte al fatto che “Avengers” sia lungo 3 ore, ma quando si tratta di un’esperienza cinematografica come questa, la gente dice “wow, 2 ore e 49 minuti”. Comunque, per rispondere alla tua domanda sull’amore, nell’ultima parte del film, il momento in cui il ragazzo vede i numeri tatuati sul braccio di suo padre per me rappresenta la volontà della famiglia di proteggerlo dalle torture del campo di concentramento o di qualunque cosa possano aver vissuto in quanto famiglia ebrea. Quindi, ho pensato fosse una bella cosa nonostante il ragazzo non riuscisse a capire perché la sua famiglia l’avesse mandato via, ma era ovvio che lo facessero a causa degli orrori che stavano vivendo e non volevano che lui soffrisse; poi, alla fine, il fatto che finalmente riesca a scrivere il suo nome è davvero bello.
U: Anche a me piace quella parte, è un bel momento finale, non si sa niente del nome per tutto il film e poi alla fine lo scopri.
B: Eppure, il padre non è mai riuscito a dire al ragazzo “ecco perché, mi dispiace molto, l’abbiamo fatto per il tuo bene”. Non gli dice niente, il ragazzo deve processare il tutto e poi vede i numeri e capisce da cosa i suoi genitori l’hanno salvato, probabilmente, e secondo me in questo c’è della speranza e dell’amore. Udo può parlarvene in maniera più approfondita, ma anche i miei parenti che me ne hanno parlato, mi hanno detto che hanno cercato di proteggere i loro bambini dagli orrori che hanno vissuto nei campi di lavoro o di concentramento, mandandoli in campagna o al sicuro in una fattoria. È una storia che senti così spesso che mi ci sono identificato abbastanza.
“Il film mi è piaciuto, è difficile spiegarlo in poche parole. Penso sia un capolavoro”.
Barry, correggimi se sbaglio, ma il gesto del tuo personaggio che dà la pistola al ragazzo è un atto d’amore, perché lo fa per proteggerlo.
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U: Sì, certo, è per quello che gli dà la pistola.
B: Come ha già detto Udo, non abbiamo avuto l’occasione di lavorare con gli altri attori. È bello, per certi versi, come Václav abbia presentato queste vignette, tutti quanti arrivavamo, giravamo la nostra breve parte come se avessimo dei paraocchi su cosa fosse successo prima e cosa sarebbe successo dopo. Quindi, quando gli davo la pistola, non avevo idea del contorno, avevo letto il libro ma non sapevo di quelle scene o di chi fosse l’attore contro cui avrebbe usato la pistola. Quindi, per me, la prima è stata una rivelazione, non facevo che ripetermi “Oh, ecco cosa succede”. È stato bello il modo in cui Václav ha programmato tutto. Non ci siamo mai incrociati, io e Udo, prima di vederci qui.
U: Per quanto riguarda il ragazzo, quando ho visto il film, anche quando ho letto la sceneggiatura, mi sono reso conto che ha in comune molte cose con la mia vita: sono nato alla fine della guerra, nel 1944, e crescendo non c’era niente da mangiare, quasi tutto era stato distrutto, sono nato a Colonia. Oggi la vostra generazione non concepisce come io possa aver avuto solo acqua fredda per lavarmi anche d’inverno, per 14 anni, e poi andare a scuola. E una volta alla settimana ci lavavano in una grande tinozza di metallo e l’acqua bisognava bollirla, ma il tempo di versarla nella tinozza e si era già raffreddata. Le persone oggi, la generazione dei messaggi sul cellulare, non capiscono; per me è stata un’assimilazione, non conoscevo la guerra perché ero un bambino, ma 10 anni più tardi avevo capito tutto. Abbiamo attraversato praticamente lo stesso percorso, ma in modo diverso.
“…tutti quanti arrivavamo, giravamo la nostra breve parte come se avessimo dei paraocchi su cosa fosse successo prima e cosa sarebbe successo dopo”.
I vostri personaggi sembrano trasmettere ogni emozione attraverso le rughe, un dettaglio del volto, il modo in cui muovono gli occhi. Quali sono le sfide di interpretare un personaggio che non dice quasi una parola?
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U: Io non ho recitato, non avevo trucco in faccia, avevo solo la sceneggiatura. E credo che nessuno degli attori abbia recitato, in un certo senso. Ho lavorato per 25 anni con Lars von Trier e la cosa che preferisce dire agli attori, indipendentemente da chi siano, per esempio Lauren Bacall o Nicole Kidman, è: “Non recitare!”. E loro dicono, “Ah, ma non sto recitando”, con fare vanitoso, e lui dice “che fai con quella spalla? Che cosa hai fatto ora? Sii presente, le tue battute le conosci, conosci la situazione”.
Io non ho recitato nel film: so che il mio personaggio è geloso e che per questo succede di tutto. Sapevo che il copione diceva che dovevo cavare gli occhi del tizio con il cucchiaio e darli al gatto. È stata dura rivedere quella scena alla prima, quando il ragazzo raccoglie gli occhi e tu dici “argh”. È un film molto duro e ne sono molto fiero. Stamattina ho letto alcune critiche e gli americani lo stanno chiamando un capolavoro. È duro, ma è un film meraviglioso, e a pensare a quanti anni ci ha messo il regista per farlo. Václav ha avuto il potere e la fortuna di acquistare i diritti del libro che è stato scritto nel 1965.
B: Il film è minimalista nel modo in cui il ragazzo sta costantemente metabolizzando. Il suo flusso di pensieri è quasi narrato nel libro, al punto che ti chiedi: come si fa a farne un film? Perché tutto sta nel modo in cui lui metabolizza il mondo, nel modo in cui vede ognuna di quelle persone nel loro universo culturale, chiedendosi, mettendo in discussione che cosa stiano facendo, interpretandolo con la sua mente di bambino. Ti chiedi in che modo si possa rendere tutto questo senza una narrazione, ma nonostante ciò il dialogo è così minimale nel corso di tutto il film, penso che ci siano in tutto 9 minuti di vero e proprio dialogo.
“Io non ho recitato, non avevo trucco in faccia, avevo solo la sceneggiatura”.
Non ci avevo pensato. Quando alla conferenza stampa il regista ha detto che ci sono solo 9 minuti di dialogo, ho detto “sul serio?”
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B: E pensa alla colonna sonora. C’è un brano di Beethoven suonato dal bambino e basta. Quindi, ovviamente avevamo informazioni dal romanzo, sapevamo che anche il film sarebbe stato crudo e minimalista, ma poi arrivi sul set e, ovvio, il copione è interpretazione diretta, ma arrivi lì e vedi Peter Kotlár e il modo in cui interagisce con Václav e capisci quando tutto sarà incredibile, anche solo guardando il bambino stare fermo e in silenzio.
U: E nessuno gli diceva mai “adesso facciamo un primo piano”, non puoi dire al ragazzo “vai adesso” perché potrebbe innervosirsi, ma lui era sempre concentrato e sulla strada giusta tutto il tempo: lo guardavo e vedevo che lui guardava me e capivo come stesse processando la situazione. Era concentrato tutto il tempo. Penso che abbiano girato molte scene solo con lui per più di un anno.
B: È davvero incredibile quello che ha sopportato fisicamente come attore: le varie condizioni atmosferiche, le arrampicate sugli alberi, i nascondigli. È incredibile quello che ha sofferto e non si è lamentato neanche una volta quando ho lavorato con lui, ed eravamo vicini alla fine delle riprese quando sono arrivato io, era un così bravo ragazzo. Abbiamo passato del tempo insieme sul set, in costume, lui non se n’è mai andato, non ha mai giocato con il tablet, era sempre concentrato, è stato bello. Quindi siamo semplicemente rimasti nel personaggio insieme, tiravamo fuori i nostri coltelli e intagliavamo ramoscelli e altre cose e facevamo giochi che si sarebbero fatti in quei tempi.
“…siamo semplicemente rimasti nel personaggio insieme, tiravamo fuori i nostri coltelli e intagliavamo ramoscelli e altre cose e facevamo giochi che si sarebbero fatti in quei tempi”.
Qual è la vostra scena preferita?
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U: Quella con gli uccelli è la mia scena preferita, quando mettono la pittura sulla testa dell’uccellino e lo lasciano andare e vedi sempre più uccelli e poi lo uccidono, e lui cade giù.
B: E ti rendi conto che “siamo noi”, sono gli altri, è come trattiamo l’altro, se sei di una razza o ideologia diversa, sei un credente, e lo vedi oggi in tutto il mondo come in un certo senso ci dividiamo.
“E ti rendi conto che ‘siamo noi’…”
Photos by Johnny Carrano.