Siete in grado di trattenere il respiro per 100 minuti? Perché è quello che dovrete fare se vedrete “Mosul”, opera prima da regista di Matthew Michael Carnahan (sceneggiatore di “Deepwater – Inferno sull’oceano”, tra i tanti), prodotto dai fratelli Russo e dal produttore esecutivo Mohamed Al Daradji.
100 minuti per mostrare al pubblico una giornata nella vita dello SWAT Team iracheno a Mosul, 100 minuti per mostrare il coraggio di questi uomini che farebbero di tutto pur di riavere la loro città e le loro famiglie. 100 minuti per sviluppare questi personaggi e per mostrare i gesti umani più semplici e toccanti.
Abbiamo fatto due chiacchiere con il regista (R) e con il produttore esecutivo (P) su come, partendo dall’articolo di Luke Mogelson, sia nato questo progetto, su quali siano state le principali sfide e sull’importanza di raccontare queste storie.
Una domanda per entrambi: perchè è importante raccontare questa storia?
____________
R: È nato tutto dall’articolo di Luke Mogelson, che mi era stato mandato essendo uno scenggiatore, e ne sono rimasto completamente affascinato fin dalla prima pagina.
Nelle prime pagine si trova un pezzo dedicato ai criteri per diventare un membro della squadra SWAT: ovviamente devi sapere cosa fare su un campo di battaglia e maneggiare le armi, ma devi anche aver perso qualcuno a causa dell’ISIS o essere stato ferito dall’ISIS. Ho pensato che fosse un modo così brutale per entrare nel team, ne sono rimasto soggiogato, è quello che, dopo aver letto l’articolo, mi ha fatto prendere in mano il telefono per chiamare i fratelli Russo e dire loro: “va bene, se posso dirigerlo”.
È l’idea che non sapevo che questi uomini, che queste persone esistessero, avevo una visione molto distorta di ciò che era l’Iraq. L’Iraq e gli Stati Uniti sono sinonimi di guerra, rappresentano la parola stessa. Quando ero bambino c’è stata la prima guerra del Golfo, che in qualche modo sta continuando tutt’oggi. Quando ho letto l’articolo di Luke mi sono reso conto di quanto distorto fosse quel poco che sapevo, ma non solo, perché queste persone sono molto simili a me, e io a loro, è più forte di tutto ciò che ci separa: siano maledette le differenze linguistiche, vogliono le stesse cose che voglio io, per il bene della loro famiglia, delle loro case e città; inoltre, pregherei per avere lo stesso livello di coraggio che devono mostrare loro quotidianamente nella speranza di riconquistare quelle cose.
È il fatto che tutti gli esseri umani vogliono la stessa cosa indipendentemente dalla lingua, cultura, religione, nazione… Questo è quello che mi piace fare: lasciarmi coinvolgere e portare sul grande schermo queste persone. Ed è parte del motivo per cui volevo raccontare questa storia in lingua araba, mi è venuto d’istinto mentre lo stavo leggendo, perché per me quella differenza linguistica sottolinea le somiglianze; intuitivamente si vedono queste persone che parlano una lingua molto diversa da quella che parliamo negli Stati Uniti, eppure tutti si stanno sacrificando per tornare a questa cosa che ti rendi conto, alla fine, essere le loro case e le loro famiglie, e per me è un messaggio umano universale.
P: Quando ho letto la sceneggiatura di Matthew, ero già a conoscenza dello SWAT Team e quando sono stato contattato dalla casa di produzione ho pensato, “ok, ho rifiutato un sacco di progetti americani sull’Iraq, perché a volte non vi ritrovo il mio punto di vista, il punto di vista iracheno”, ma quando ho finito di leggere il suo copione, ho pensato: “wow”.
E poi sono stato al telefono con Matthew, abbiamo parlato per una o due ore, è stato incredibile, era l’1.39 di mattina a Baghdad, la connessione continuava a cadere ed ero così stanco [ride], l’uscita del mio nuovo film in Iraq era imminente, e sarebbe stato il primo film iracheno ad essere diffuso, quindi ero così stanco ma allo stesso tempo ero così affascinato della sceneggiatura e quando mi ha detto che sarebbe stato in arabo, che ci sarebbero stati attori iracheni, ho pesato, “wow, ok, questo è IL progetto, questi sono i ragazzi che meritano di essere inseriti in una storia”. Ho ricevuto la sceneggiatura intorno al gennaio, febbraio 2018 e Mosul era ancora in guerra; il 10 dicembre 2017 il Primo Ministro iracheno aveva annunciato la liberazione di Mosul, ma non di tutta la città, ed ero stato a Mosul appena 3 mesi prima, proprio accanto alla zona di guerra, così quando ho letto il copione ho pensato: “wow, questo è il progetto che dobbiamo realizzare adesso” per molte ragioni, come uomo iracheno, come regista, si sente da che parte stiamo, in Iraq ci prendono in giro, ci dicono “stiamo combattendo per il bene del mondo”.
I tuoi amici e la tua famiglia vengono uccisi a causa della guerra, ma non vedi il nemico, non è una guerra comune, quindi il copione mi ha fatto pensare: “Ora riesco a vedere che forse stiamo combattendo per il bene del mondo” per il modo in cui Michael l’ha scritto e rappresentato, mostrandone il lato positivo; c’è molta positività nel mezzo del caos, ed è stato uno dei motivi che mi ha fatto venire voglia di partecipare nel progetto.
“Vogliono le stesse cose che voglio io, per il bene della loro famiglia, delle loro case e città; inoltre, pregherei per avere lo stesso livello di coraggio che devono mostrare loro quotidianamente nella speranza di riconquistare quelle cose”.
“Ho rifiutato un sacco di progetti americani sull’Iraq, perché a volte non vi ritrovo il mio punto di vista, il punto di vista iracheno…”
Quali sono state le maggiori difficoltà nel realizzare questo progetto?
____________
R: I limiti di un regista al primo film. [ride] Ma quella che si pensava sarebbe stata la difficoltà più grande – cioè la lingua e il cast – si è rivelata invece la forza maggiore, la cosa migliore che abbiamo fatto, quindi quella che si potrebbe ritenere la risposta immediata è in realtà l’esatto contrario. Non c’è stato niente relativo alla produzione, perché è stato tutto perfetto e sono stato supportato come mai un regista alle prime armi o non, quindi penso che per me si trattasse semplicemente di rendere giustizia alla storia, e la sfida più grande è stata pensare:
“Come posso rappresentare i tre anni d’inferno che queste persone hanno dovuto sopportare? Combattere ogni ora, perdere amici ad ogni ora e senza mai ritirarsi, quando tutti gli altri invece stavano fuggendo, loro sono rimasti e hanno combattuto; come posso racchiudere queste cose in un solo giorno, in un giorno nella vita dello SWAT Team, e avere anche abbastanza tempo che per sviluppare i personaggi, per mostrare chi sono queste persone, per mostrare chi è il maggiore (Suhail Dabbach), per mostrare come Kawa (Adam Bessa) passi da essere una recluta ad essere forse, alla fine del film, il leader di ciò che resta della squadra?”
Questa per me è stata la sfida più grande, in un accavallarsi di scene che stava avvenendo principalmente nella mia mente, e pensavo: “Sto facendo abbastanza per entrambe le parti, in questa scena particolare, per contribuire a questa cosa?”
Questa è stata la sfida più grande ma allo stesso tempo è stato quello che non mi ha mai fatto perdere di vista le cose su cui dovevo concentrarmi nel film, non so se abbia senso. E penso che Joe, Anthony e Mohamed si siano resi conto che ero presissimo, pieno di preoccupazioni, ma non ho dovuto stare attento alle spese, mi bastava dire: “questo è quello di cui abbiamo bisogno, questo è quello che siamo in grado di fare”. Non c’era una barriera linguistica o di produzione insormontabile, perché in realtà c’era una vivace comunità di produzione a Marrakesh, quindi la sfida più grande è stata: “Posso raccontare la storia nel modo in cui devo raccontarla?” Probabilmente è una domanda ridicola e ovvia, ma è la vera domanda.
Come siete riusciti a ricreare Mosul a Marrakech?
____________
R: È stato merito di Phil Ivey, lo scenografo, e del suo team. Ha lavorato a tutti i film di Neill Blomkamp, ha fatto “District 9” ed “Elysium”, è fantastico ed è anche, come tutti in questo film, uno degli esseri umani più belli che abbia mai incontrato, è un ragazzo neozelandese così modesto, ed è raro incontrare qualcuno che sia bello a livello umano e anche molto bravo in quello che fa.
Phil, insieme al fixer di Luke Mogelson a Mosul, che ha fatto entrare Luke nello SWAT Team, ha lavorato con Mohamed, con persone che facevano parte della produzione e che conoscevano questa parte del mondo e la guerra, ha costruito dei faldoni di materiale di riferimento e ha letteralmente ricreato queste zone di guerra in una città bella come Marrakech. Ha ricreato questa devastazione dell’Iraq settentrionale, e tutto il merito va a lui e alla sua squadra. Phil ha fatto un lavoro incredibile, c’erano cose come il campo minato, che i protagonisti devono attraversare per tornare al lato peggiore della città, e nella sceneggiatura originale c’era il Tigri, il fiume, ma non ci sono fiumi in Marocco; abbiamo visto quello che considerano un fiume e abbiamo detto, “ragazzi questo non funzionerà, è un torrente!” E Peter ha detto: “E se facessimo un campo minato e considerassimo questo come la barriera?” Si tratta di quel genere di improvvisazioni che poi funzionano alla perfezione nel film.
Fondamentalmente, durante tutto il film si sente il continuo rumore degli spari, ma poi ci sono queste toccanti scene di umanità, come quando Jasem mette il ghiaccio sulla guancia di Kawa e tiene la mano lì, o quella in cui si capisce che stanno andando dalle loro famiglie: come hanno fatto questi dettagli a prendere vita? Quanto erano importanti per te mentre stavi scrivendo il copione e come li hai curati durante le riprese?
____________
R: Erano fondamentali.
Tutti quei momenti rappresentano il punto dove il film vive o muore, perché il combattimento è il combattimento e non c’è molto che si possa ancora fare che non sia stato già visto. Ho cercato di farlo nel modo più veritiero e credibile possibile, basandomi sulle persone con cui ho parlato, non essendo mai stato in battaglia, ma ho cercato di farlo al meglio delle mie possibilità, e dove il film poteva vivere o morire era nei momenti con quei personaggi, negli attimi di tranquillità tra un orrore e l’altro, dove si vede chi sono veramente. Come questa idea che ho avuto, mentre la scrivevo, di Jasem che avrebbe dovuto raccogliere la spazzatura…
Mentre continua a ripetere: “dobbiamo ricostruire, dobbiamo ricostruire…”
R: Esattamente, per me è stata la cosa più straziante e bella mostrare come quest’uomo voglia rimettere insieme la sua città; quando parla di quando era un detective e di quanto gli piacesse, perché era bravo e gli piaceva chi era allora, il modo in cui lo faceva, mi commuove ogni volta, perché è così dannatamente bravo con quel volto, con quei suoi occhi.
Quindi, per rispondere alla tua domanda, questi dettagli erano l’aspetto più importante a livello di scrittura e di regia, perché, tornando alla mia risposta iniziale, come potevo sviluppare dei personaggi nell’arco di un giorno che sarebbe stato altrimenti pieno di orrore, come potevo farlo nel modo più interessante e breve?
P: Una delle scene più importanti per me è quella con il generale iraniano: “il momento di Kawa”, che è una dei passaggi più importanti del film, perché è il momento in cui per il personaggio principale, Kawa, tutto cambia in maniera irreversibile.
Kawa mi ricorda uno dei miei studenti: quando è cominciato l’assedio di Mosul da parte dell’ISIS, io ero a Baghdad, dove stavo tenendo un corso di cinema con 20 studenti, che ho dovuto interrompere e 7 o 8 di loro sono entrati nell’esercito e se ne sono andati. Due anni dopo, uno di loro, Ahmad, che sarebbe stato un ottimo cameraman, si è unito all’esercito e io ho rivisto Ahmad nel volto di Kawa dopo che ha colpito l’uomo. Questo tipo di scena per me è molto toccante, è stato toccante vedere il personaggio nella zona di guerra, vedere dove va e da dove viene.
R: Ho scritto quella scena non per mostrare chi fosse diventato Kawa, ma per far capire al pubblico questa cosa: se non avesse fatto quello che ha fatto, se non avesse ucciso quell’uomo, il suo vecchio collega, quell’intera stanza sarebbe saltata in aria. Questo livello di brutalità viene imposto alle persone: fare ciò è giusto, è effettivamente la cosa giusta da fare? Questo è il mondo che stavo cercando di mostrare, c’è una versione del mondo in cui sparare a qualcuno che conosci, ucciderlo, è la cosa giusta da fare, potenzialmente stai salvando altre vite, e quel mondo può prendersi tutto, può cambiare le persone.
E alla fine, quando si alza, si rimette la maschera e chiede ad Amir quanto sia lontano il suo ragazzo, ci sono un paio di modi per intenderlo e non li rivelerò, ma ci sono diversi modi per interpretare Kawa in quel momento.
Questo è il mondo che stavo cercando di mostrare, c’è una versione del mondo in cui sparare a qualcuno che conosci, ucciderlo, è la cosa giusta da fare, salva altre vite potenzialmente, e quel mondo può prendersi tutto, può cambiare le persone.
Spero che questo film possa portare maggiore consapevolezza, nel senso che ogni giorno siamo bersagliati da notizie, fake news, notizie unilaterali, mentre il film ha svelato una nuova realtà che raggiungerà più persone. Ci sono altre storie che vorreste portare sul grande schermo per farci conoscere altre realtà?
____________
R: Non adesso, ma solo perché non ho trovato nulla di altrettanto avvincente. Non so se avrò di nuovo l’occasione di lavorare su un set o con un gruppo di persone bello come questo.
In un senso più ampio, gravito verso le lacune nella mia conoscenza; quando si parla di storie vere, tutti pensano di conoscere la maggior parte della storia e tuttavia ci sono questi dettagli che la maggior parte delle persone non conosce, è per questo che ho voluto far parte del film dal primo momento; prendi il film “Deepwater – Inferno sull’oceano” ad esempio, il motivo per cui volevo partecipare era perché si trattava della storia di questi 11 ragazzi coinvolti in una terribile lotta per mantenere in vita il maggior numero di persone possibili. Penso che questa storia sia andata persa nella scala dell’enorme disastro ecologico qual è stato, ma penso meritasse comunque di essere raccontata. Ho incontrato le famiglie di queste 11 persone: c’era un uomo che stava studiando per diventare ingegnere e, ho incontrato sua moglie e suo figlio, nato due giorni dopo la sua morte.
Quelle storie, per esporre un quadro più completo, sono il motivo per cui voglio far parte di questi film, per cui voglio svegliarmi la mattina.
P: Sto sviluppando un nuovo progetto; parla di una donna sulla quarantina che guida il suo autobus a due piani per le strade di Baghdad nel 2006, quando la città era caoticamente divisa tra l’esercito americano e al-Qaeda, con un unico obiettivo: raggruppare i bambini senzatetto, fare loro da insegnante nella sua scuola mobile, che è ciò in cui ha trasformato il suo autobus, e non perché ami i bambini, anzi, ma capiremo il perché, quale sia la sua motivazione nel tentare di educare quei bambini e quello che vuole ottenere da tutto ciò.
R: Sembra fantastico! È la prima volta che ne sento parlare.
P: Sì, ho appena finito la prima bozza.
Photos by Johnny Carrano.