Ah, i ruggenti anni ’20 del 1900, quelli che, a differenza degli attuali anni ’20, erano illuminati da eventi sfavillanti, personalità eccentriche e nuove occasioni: dopo i duri anni della guerra, si respirava finalmente, ed ex novo, la voglia di libertà e di uscire dagli schemi, animati da un grande desiderio di ricostruire e di rinascere, semplicemente Sono proprio questi gli anni immortalati dai romanzi di Francis Scott Fitzgerald in America, mentre in Europa, scrittori del calibro di Ernest Hemingway, Gertrude Stein, James Joyce ed Ezra Pound si riuniscono nella libreria Shakespeare & Co a Parigi, gestita da Sylvia Beach, per discutere dei loro (futuri) capolavori letterari. È un periodo nel quale si è bramosi di lasciarsi alle spalle gli anni della Prima Guerra Mondiale per esprimere sé stessi in modi nuovi e originali: questa volontà si ritrova anche nell’abbigliamento che si fa ricco di dettagli luminosi, “spinto” e libertino; si abbandonano dunque gli abiti semplici e pratici e si da sfogo al proprio desiderio di emancipazione con soluzioni provocanti e makeup esagerati. E chi è che detta lo stile in questo contesto? Che sia in America o in Europa, e in particolare modo in Inghilterra, si tratta di personalità “scandalose”, amanti delle feste e di tutto ciò che va oltre le convenzioni sociali dell’epoca. I veri protagonisti della moda di questi anni sono loro, i Bright Young Things e gli esponenti della “Generazione Gatsby”, con tutta la loro voglia di lasciare spazio alla creatività e al “troppo”.
In che modo? Rispettando un solo limite: non esistono limiti.
LA STORIA DEI BRIGHT YOUNG THINGS
Negli anni ’20, la stampa scandalistica inglese non parla altro che di loro, dei Bright Young Things (o Bright Young People), i ricchi rampolli di famiglie aristocratiche considerati oltraggiosi per il loro stile di vita esagerato, dove feste in maschera, abbigliamento elaborato, alcool e droghe erano all’ordine del giorno; una sorta di gruppo bohémienne che ha invaso le strade di Londra, oggigiorno li chiameremmo delle “celebrità”, che volevano cogliere l’attimo e dare sfogo ai loro desideri dopo i duri anni di soppressione e crisi. Sono giovani donne e uomini a cui tutto è concesso. Dalle cacce al tesoro per i mezzi pubblici di Londra alle gite fuori porta con le macchine ultimo modello, fino alle feste nelle lussuose tenute di famiglia: è qui che nasce veramente il mito dei Bright Young Things, immortalato dal leggendario fotografo Cecil Beaton che, in questo contesto, muove i suoi primi passi (in seguito, vincerà l’Oscar ai Migliori Costumi per “Gigi” e “My Fair Lady”, verrà ingaggiato da Vogue e diventerà uno stimato fotografo di personalità di spicco e della famiglia reale inglese).
Sono feste, spesso a tema, dove il jazz fa da colonna sonora, e dove si respira un’atmosfera selvaggia con acrobati, abiti teatrali e sostanze stupefacenti. Qui, donne e uomini indossano i loro vestiti appariscenti, il makeup scandaloso (per quanto l’omosessualità fosse un reato in Inghilterra, il gruppo permetteva ai loro membri di essere chiunque volessero e di amare chiunque volessero) e si lasciano andare alla frenesia assoluta. Fu un decennio scintillante e che, proprio come una scintilla, ebbe vita breve: negli anni ’30 infatti, quando la disoccupazione raggiunse vette preoccupanti, lo stile di vita dei Bright Young Things fu considerato fuori luogo e venne ampiamente criticato, segnando la fine di un’epoca senza eguali nella storia.
LO STILE DEI BRIGHT YOUNG THINGS
Essere a tema ma essere chi si vuole: così si potrebbe definire lo stile di questo gruppo aristocratico. Una volta definita la tipologia di festa, i suoi appartenenti erano liberi di interpretare chi preferivano, in una combinazione di stile androgino, femminile e genderless mai vista prima. I ragazzi e le ragazze indossavano dunque abiti e completi dai dettagli luminosi, copricapi appariscenti e accessori inusuali; amavano poi le sfumature dorate e argentate, i pois e le righe, lo stile decadente e i travestimenti, anche in chiave satirica. È così che li ha immortalati Beaton ed è così che li ricordiamo: come i giovani che hanno “illuminato” la moda dell’epoca in Inghilterra dimostrando che il look più efficace è quello che permette a chi lo indossa di esprimersi liberamente e creativamente.
LA STORIA DELLA GENERAZIONE GATSBY
Negli anni ’20, si respira in tutto il mondo l’aria di rinascita: esplode l’Art Déco in tutti i settori e l’Europa guarda con curiosità oltreoceano, verso l’America, la terra del cinema, del jazz, del charleston e del fox-trot, delle città che si innalzano verso il cielo con i loro grattacieli, dove il desiderio di evadere sembra particolarmente forte e condiviso. Sono gli anni immortalati alla perfezione dalle pagine del romanzo “Il Grande Gatsby”, quelli di una gioventù trasgressiva e ottimista che vuole divertirsi, ballare e ribellarsi. Un forte desiderio di emancipazione (politica, femminile e sociale) risuona lungo le strade e la notte diventa protagonista: si frequentano i club, si va a sentire la musica dal vivo, si organizzano feste private, si fuma, si beve, si sperimenta la libertà sessuale… In altre parole, si torna a vivere e si inizia a vivere in modo del tutto nuovo.
Questo cambiamento nello stile di vita (che riscopre un certo benessere) si riflette anche nell’abbigliamento, soprattutto quello femminile: le donne infatti, si fanno disinibite, audaci e indipendenti; guidano, studiano, giocano a tennis e golf, bevono cocktail ed esprimono le proprie idee. Tale atteggiamento le porta ad abbandonare la semplicità e ad accorciare gli orli, a vestirsi comodamente e ad un certo desiderio di esibizionismo provocante e innovativo. Nasce così, in questo contesto di libertà e sperimentazione, lo stile della “Generazione Gatsby”, quella di Zelda Fitzgerald, la moglie del famoso scrittore, delle flappers e delle dive come Joan Crawford, Norma Shearer e Louise Brooks.
LO STILE DELLA GENERAZIONE GATSBY
Le ragazze del tempo si scrollano di dosso la tenuta pratica e austera del periodo bellico e iniziano a scoprire nuove forme che hanno come filo conduttore i concetti di autonomia, femminilità e comodità: gli abiti, pensati per muoversi liberamente sia di giorno che negli sfrenati balli notturni, presentano linee dritte, dalla vita bassa bassa, e sono corti, proprio come i capelli. Si prediligono tessuti morbidi e leggeri (chiffon, tulle, seta) e i dettagli preziosi, ricchi di frange e perline, senza più timori di mostrare le gambe. Completano il tutto piume, stole, lunghissimi fili di perle, paillettes e lustrini, senza dimenticare le cloche in testa e le pellicce. Piacciono molto i colori intensi come bordeaux e viola e le scarpe con tacco basso. Anche l’uomo si concede delle comodità extra: le spalle delle giacche si allargarono, così come i pantaloni, e si fanno sempre più strada i completi spezzati.
In questo contesto, ad animare la vita e la moda dell’epoca ci pensano le flappers, un nome in slang americano che richiama il battito d’ali di un uccellino, per riferirsi alle giovani donne disinvolte che non temevano i giudizi altrui. Con le ampie scottature (mai prima di allora le donne avevano esposto così tanta pelle, lasciando scoperti anche collo e braccia), le calze a rete, i capelli corti (il “bob cut” è il loro taglio di riferimento) e un makeup quasi eccessivo, le flappers portarono una ventata d’aria fresca per le strade americane. I loro look leggeri, a tratti androgini, e succinti, facili da cucire e replicare, li rendono accessibili alle appartenenti di ogni classe sociale. Le donne di questa generazione sono le prime “party girl” che danzano in modo scandaloso, che vogliono evadere dal proibizionismo ed essere al centro dell’attenzione, complice anche il trucco vistoso che prevede rossetto ben delineato e trucco occhi nero con abbondante khol liner. Sono le esponenti di una fase di passaggio al cui richiamo era impossibile resistere, il cui animo ruggente viene copiato e ricordato ancora oggi nella moda, e nella storia.