I film sono, per definizione, il risultato di un assemblaggio di scene, alcune più memorabili di altre. Tuttavia, è difficile immaginare una valutazione oggettiva dei momenti cinematografici, dato che la loro capacità di suscitare emozioni spesso e volentieri è tutta una questione personale: può dipendere da varie circostanze, per esempio da quanto vicini ci si sente alla storia e ai personaggi, dalla canzone che c’è in sottofondo (se ce n’è una), da quanto ci piace la maniera in cui la scena è girata, a livello di angolazione, inquadrature, luci, e così via. Ad ogni modo, è anche vero che esistono alcuni fattori oggettivi che permettono di distinguere una scena di buona qualità da una mediocre o insignificante: la recitazione, la regia, il montaggio, l’armonia dell’insieme, per nominarne alcuni.
Qui di seguito, qualche spunto di riflessione in una lista di buoni candidati al titolo di “scene di film oggettivamente indimenticabili”:
CORSA NEL LOUVRE
(“The Dreamers” – 2003)
Matthew (Michael Pitt), Isabelle (Eva Green) e Theo (Louis Garrel) corrono a perdifiato per i corridoi del Louvre, imitando i personaggi del film “Bande à parte” di Jean-Luc Godard nel tentativo di battere il loro record di velocità. Niente musica in sottofondo, solo il rumore dei passi pesanti sul pavimento in marmo; nessuno parla, si ride e si ansima, in una gara frammentata in continui cambi di scena e paralleli tra i nostri tre protagonisti a colori e i tre in bianco e nero del film di Godard.
Un momento memorabile di spontanea e genuina bellezza è, in questo modo, condensato in una prova di amicizia mascherata da test di velocità, facendoci quasi venir voglia di infrangere la legge mano nella mano con i nostri amici.
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BALLO PSICHEDELICO
(“Les amours imaginaires” – 2010)
È la festa di compleanno di Nicolas (Niels Schneider) e noi siamo gli occhi di Francis (Xavier Dolan) e Marie (Monia Chokri), seduti sul divano con aria sprezzante a guardare tutti gli altri che ballano al centro della stanza. Poi, parte il ritornello di “Pass This On” e il tempo si congela: le luci si abbassano e si colorano di blu e cominciano improvvisamente a lampeggiare in una sequenza di giochi ipnotici di vedo-non-vedo: si alternano primissimi piani di Nicolas, immortalato in una danza inebriata con sua madre, e istantanee di busti marmorei e disegni in inchiostro su carta.
Battiti di ciglia incontrollati e respirazione accelerata sono il segnale che siamo al 100% immersi nella scena, che stiamo vedendo quello che Francis e Marie stanno vedendo e che stiamo pensando esattamente quello che stanno pensando loro di fronte allo spettacolo sovrumano che si sta svolgendo davanti ai loro/nostri occhi.
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PIOGGIA DI VESTITI
(“Il grande Gatsby” – 2013)
“Ho un uomo in Inghilterra che mi compra i vestiti!” dice Jay Gatsby (Leonardo DiCaprio) alla sua Daisy (Michelle Williams), dirigendosi verso una delle rampe di scale della sua magione. Poi, risuona in sottofondo la voce languida di Lana Del Ray che intona “Will you still love me when I’m no longer young and beautiful?” e vediamo Mr. Gatsby che comincia a svuotare tutte le sue mensole piene di camice costose, lanciandole una ad una al piano di sotto. Una pioggia di vestiti pastello si riversa su Daisy, che ride, emette gridolini di gioia, nuota nel mare di rosa, gialli e verdi e, alla fine, scoppia in un pianto inaspettato.
Costruita su un bellissimo contrasto tra la modernità della canzone in sottofondo e l’atmosfera da “Ruggenti anni Venti” che permea tutto il resto, la scena è emblema della potenza con cui esplode quel tipo particolare di gioia che cela in sé un qualche residuo di tristezza, tracce di un sentimento uguale e contrario.
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I FOLLOW RIVERS
(“La vie d’Adèle” – 2013)
C’è qualcosa che frulla nella testa di Adèle (Adèle Exarchopoulos), è evidente, il suo corpo è un libro aperto: percepiamo il suo disagio, mentre si trova in un minuscolo cortile sul retro, circondata da ragazzi e ragazze che si strofinano gli uni contro gli altri, ballando sulle note di una canzone che lei probabilmente non conosce, o che non le piace. Si muove distrattamente tra la folla, a tempo di musica o, meglio, al tempo dei passi delle persone intorno a lei, fino a quando dallo stereo non parte “Follow Rivers”: forse perché le piace la canzone, o perché proprio quella canzone le ricorda qualcosa o qualcuno, il volto le si illumina, gli occhi le si chiudono e la testa, le braccia, le mani e i fianchi iniziano a contorcersi in una danza sensuale.
In quel preciso istante, a quella festa nel cortile, tutti quanti scompaiono tranne Adèle, colta nel pieno godimento di uno tra i più rari, irripetibili momenti dell’esistenza umana: quello in cui riesci a concentrarti su te stesso anche se sei in mezzo ad una folla, e puoi sentire il tuo corpo e la tua mente come se finalmente fossero solo tuoi e di nessun altro, e ti senti felice, e per nessun motivo in particolare.
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INFERMIERE DA DELIRIO
(“Across the Universe” – 2007)
Max (Joe Anderson) è tornato dalla guerra in Vietnam e ora è ricoverato, esanime, con la testa avvolta in diversi strati di bende, nel letto di un ospedale militare. Dopo che sua sorella Lucy (Evan Rachel Wood) va via all’orario di fine visite, Max si gira sul fianco e comincia a guardarsi intorno, spaventato dalla schiera di soldati in punto di morte che lo circondano. Con lo sguardo fisso sul prete che, accanto a lui, sta dando l’estrema unzione ad un soldato, comincia a intonare fiaccamente “Happiness is a Warm Gun” . La canzone fa scattare un improvviso e surreale cambio di atmosfera, con il prete che si lancia in una danza selvaggia al centro della stanza, i letti con dentro i soldati che si spostano da soli, in cerchio, e infermiere provocanti che cantano i cori per Max, il quale, tra una cosa e l’altra, sta per ricevere una strana iniezione.
La coreografia e la performance vocale coinvolgenti, uniti all’atmosfera da sogno/incubo, riescono in qualche modo ad ipnotizzarci e a guidarci in un processo di empatia con i personaggi, e con Max in particolare, di cui è impossibile non essere innamorati a questo punto della storia.
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IL MONOLOGO DEL PADRE
(“Chiamami col tuo nome” – 2017)
Reduce da una lunga dormita in seguito alla partenza di Oliver (Armie Hammer), Elio (Timothée Chalamet) raggiunge suo padre (Michael Stuhlbarg) sul divano in salotto. Con aria stanca, malinconica, si siede sul lato opposto rispetto a dov’è seduto suo padre, intento a fumare placidamente una sigaretta. Il signor Perlman comincia a parlare senza impegno di Oliver con suo figlio, il quale, braccia conserte e sguardo sfuggente, sembra voler mantenere una certa distanza. È alla frase “Siete stati fortunati a trovarvi, perché siete in gamba entrambi” pronunciata dal signor Perlman, che Elio annulla ogni possibile divario creatosi tra di loro e gli si avvicina, anche fisicamente, nascondendo la testa tra le sue ginocchia.
Ciò che segue è un monologo profondamente toccante e universalmente valido del padre di Elio, incentrato sulla preziosità delle emozioni, sulla caducità della bellezza, ma in particolar modo sul principio dell’accettazione, carico della dose perfetta di delicatezza e provocazione. Siederemo e ascolteremo anche noi, come Elio; probabilmente, ci ritroveremo ad annuire quando lo fa lui e a cercare di trattenere le lacrime nel preciso istante in cui anche il suo viso si arrosserà per il medesimo sforzo.