“Penso che alla fine, le persone se ne ricorderanno”. – Donald Mowat
Questa è la frase che Donald Mowat ci ha detto riguardo la devozione al suo lavoro e soprattutto alle persone con cui lavora. Persone che lo hanno aiutato ma con cui soprattutto continua a lavorare non solo per la sua bravura ma anche per il un senso di rispetto e cuore, che per lui sono al primo posto.
Donald Mowat, makeupartist nominato quest’anno ai Bafta per il film “Blade Runner 2049”, che ha compiuto una mervigliosa e delicata trafsormazione di Jake Gyllenhaal in “Stronger” e che nel suo currilum conta film come “Sicario” e “Prisoners”, porta in concosco alla Mostra del Cinema di Venezia il suo nuovo lavoro, il (meraviglioso) film “Il Primo Uomo“, diretto da Damien Chazelle che racconta la vita di Neil Armstrong e sua moglie, interpretati da Ryan Goslin e Claire Foy.
Abbiamo conosciuto Donald la prima volta a Londra per i Bafta e non ha mai smesso di stupirci per il genio del suo lavoro, per la dedizione nei confronti del suo insegnamento e per i suoi progetti che sembrano toccare sempre più l’eccellenza. In “Il Primo Uomo” abbiamo visto una Claire Foy tolta dal suo glamour e un Ryan Gosling che, anche con i minimi dettagli della sua pelle e dei suoi occhi, ci fa capire la sofferenza del suo ruolo.
Il lavoro di Donald è attento, fine, delicato, energico e unico.
Donald stesso è una persona unica e con noi ha chiaccherato non solo di “Il Primo Uomo”, delle difficoltà sul rendere al meglio i tratti di personaggi, ma anche delle difficoltà che il mondo del cinema può presentare, di come si è ripreso dopo un problema di salute e come ha affrontato “Il Primo Uomo”, il suo primo lavoro dopo il ritorno. La forza di Donald gli permettere di vedere la bellezza della vita ma che non nasconde ansie o preoccupazioni: senza la falsità del “semplice“, Donald le affronta parlandone e aprendo il suo cuore. E lo ha fatto anche con noi, in questa intervista.
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Che tipo di ricerche hai svolto per il makeup di “First Man”?
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È interessante perché ero un po’ preoccupato riguardo il periodo, gli anni ’60, che non sono esattamente i miei preferiti. Ed ero anche preoccupato perché si parla di ricreare le sembianze di persone davvero esistite. Ma la ricerca che Damien Chazelle mi ha presentato è stata la migliore che io abbia mai visto, quindi quando ho aperto i file che Damien aveva creato per lo styling e il makeup, era già tutto fatto. Ero impressionato.
Di solito un regista fa qualcosa, eventualmente aggiunge qualcosa. Ma lui mi ha stupito: mi ha consegnato clip specifiche e ovviamente ce ne erano molte a cui stavo già pensando per il film. Abbiamo parlato dei piccoli cambiamenti del viso che si affrontano durante un periodo drammatico. Abbiamo fatto riferimento ad Al Pacino ne “Il padrino” perché si doveva ricreare un po’ di invecchiamento, ma molto discreto.
Devo dire che sono rimasto molto sorpreso da Damien. Abbiamo fatto qualche ricerca per i altri personaggi, non volevano fare delle copie, non volevano spendere tempo, soldi e preparativi per ricreare dei look uguali agli originali, quello che abbiamo fatto è stato invece catturare la loro essenza.
– CATTURARE L’ESSENZA –
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Come è stato lavorare nuovamente con Ryan Gosling, dopo “Blade Runner 2049”?
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Ho avuto una splendida esperienza con Ryan sul set di “Blade Runner 2049”. È stato proprio in quell’occasione che mi ha detto: “È un buon copione, ci lavorerò e lo produrrò insieme a Damien Chazelle”, poi mi ha parlato di Claire Foy, che io amo. è nell’industria da qualche anno ormai, credo sia davvero un’attrice splendida.
Sapete, rispetto molto Ryan. Per esempio, il film è come se fosse costituito da due parti diverse: nella prima ci sono due vicende che si sviluppano mentre la seconda è quasi tutta incentrato sullo spazio, sull’essere nello spazio, in una capsula, sullo stare fermi e sulla claustrofobia. Ryan non si doveva muovere e noi non potevamo raggiungerlo per ritocchi, non poteva bere troppo per usare il bagno il meno possibile, e così via per tre settimane: durante il periodo di Natale, negli studios di Atlanta, ricordo che una sera mi ritrovai a pensare come nessuno si lamentasse mai e poi mai, e ne rimasi colpito. Questo perché gli attori si lamentano parecchio mentre Ryan non mi ha mai detto una volta: “Non ce la faccio più”.
All’inizio non sapevo se accettare o meno il lavoro, perché si sarebbe svolto ad Atlanta e stavo affrontando dei problemi di salute, quindi ero preoccupato di non poterlo affrontare dopo un film grosso come “Blade Runner 2049”, sentivo che sarei stato troppo stressato. E un po’ lo sono stato all’inizio perché il progetto era difficile, non come “Blade Runner 2049”, ma comunque era stressante perché si tratta di una storia delicata, alcuni direbbero deprimente addirittura.
“…Ryan non mi ha mai detto una volta: “Non ce la faccio più”.”
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Con Ryan e Claire hai lavorato ad alcuni tratti specifici dei personaggi?
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Oh sì. La prima cosa che abbiamo fatto a Ryan è stato il taglio di capelli in stile anni ’60. Abbiamo fatto una specie di test prima delle riprese, il che era molto importante per Damien: c’erano solo Ryan, Claire e i bambini a bordo piscina, a casa loro, proprio come nei filmini fatti in casa. È stata una buona strategia per scaldarli e per fare le prove; non c’era nessun altro, solo io ogni tanto andavo e facevo qualche aggiustamento di makeup su Claire e Ryan e uscivo: è stato un buon modo per capire e provare.
È un makeup abbastanza semplice se paragonato a quello di “Blade Runner 2049”, ma presenta comunque molte difficoltà. Il modo in cui lui si presenta a casa, la tragedia e Claire: siamo abituati a vederla sempre in look glamour, mentre nel film non è affatto così, quindi questo è stato difficile, perché il makeup doveva essere appropriato.
Penso che lo scorrere del tempo sia stato rappresentato dai bambini. I bambini lo determinano. Non è possibile far invecchiare davvero Ryan di sette anni, come potrei farlo? Sono i bambini a dare l’idea del passaggio del tempo.
“Penso che lo scorrere del tempo sia stato rappresentato dai bambini. I bambini lo determinano”.
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Hai lavorato recentemente anche ad un altro biopic “Stronger”, che abbiamo amato. Come descriveresti il lavoro per un biopic rispetto a quello per un qualsiasi altro tipo di film?
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A volte le persone si confondono. Quando si lavora ad un biopic dove si devono ricreare dei look realistici si pensa che la persona debba essere completamente trasformata, ma poi il film rischia di concentrarsi solo su questo.
“First Man” è diverso. All’inizio mi dissero che dovevano rendere gli attori simili ai veri protagonisti, ma io ho subito detto: “Un attimo. Nessuno sa, almeno io non lo sapevo, come fossero queste persone. Potrebbe rivelarsi un errore. Non credo che ricreare i personaggi identici con makeup e capelli sia davvero necessario”.
Dovevamo fare qualcosa ai denti per Ryan, ma sarebbe stato troppo costoso e secondo me non avrebbe funzionato, e Ryan lo ha capito. Quel che ho fatto per Jake [Gyllenhaal] in “Stronger” con le lenti a contatto, è stato naturale. Con Ryan non è stato così: con il taglio di capelli e il makeup lo abbiamo reso molto simile all’essenza di Neil Armstrong. Claire Foy non assomiglia alla moglie ma quando la guardi capisci che era una donna un po’ sportiva, simile ad un’insegnante struccata, che indossava magari il rossetto, solo per una festa. È questo il problema con molte persone: credono che gli anni ’60 si facessero solo makeup estremi.
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Dici di non amare particolarmente i film ambientati negli anni ’60. A quale periodo storico vorresti lavorare?
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Amo gli anni ’40, c’è qualcosa che mi attira particolarmente… Penso che la Guerra abbia cambiato molte cose a partire dagli anni ’30, e amo anche gli anni ’30. La cosa più bella dello scenografo e del costumista di “First Man” è che ci sentivamo tutti allineati. Stavamo realizzando lo stesso film.
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Com’è stato il ritorno al lavoro per te?
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Ho avuto un problema di salute grave lo scorso anno ed è stato un periodo molto difficile. “First Man” è stato il mio primo lavoro dopo la mia ripresa. Penso sia stato molto faticoso per me perché sentivo che c’era qualcosa nel film che poteva rendermi depresso. Sentivo una certa ansia, ma ero circondato da un bel team, mi ha fatto bene. Ero afflitto da stress post-traumatico per quello che avevo passato ed ora ne riesco a parlare senza problemi: Blade Runner, gli Academy Awards e tutto il resto… Ho iniziato a pensare che la mia vita fosse molto più importante, e sono stato così felice di essere stato nominato a un Bafta per “Blade Runner 2049”, poi però dopo quel che è successo con “Stronger”, mi sentivo un po’ depresso. Ma sapevo ciò che contava davvero. So cosa è importante, cosa mi piace guardare.Il dottore mi ha detto: “Devi stare molto attento quando torni al lavoro”. E sono stato così fortunato ad essere aiutato da persone come Jake e Ryan.
Quando la mente e il cuore non sono sincronizzati allora c’è un problema. È come l’orologio del nonno, vecchio di centinaia d’anni, che all’improvviso si blocca. Quando ero piccolo, mia nonna mi diceva: “Non toccare l’orologio, non toccarlo” e io lo feci, lo toccai e lo fermai. E così è come mi sono sentito.
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Qual è stato l’elemento che ti ha fatto dire di sì al progetto di “First Man”?
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Ryan un giorno mi ha scritto: “So che non ti senti bene, sei stato operato, ma c’è un lavoro per te: andiamo sulla Luna insieme!”. Ho sentito il film a me vicino, per esempio Neil Armstrong è morto in seguito ad alcune complicazioni dovute a un intervento al cuore, lo stesso che ho subito io. Quindi ho sentito una certa empatia. E durante il film ho parlato con molte persone del senso di perdita e della bellezza di essere vivi. E di quanto siamo fortunati. Sono stati tutti molto comprensivi.
E quando all’inizio ero incerto, ho deciso di chiamare una mia cara amica, una grande attrice, che mi conosce più di chiunque altro. Mi disse: “Sarà difficile, ma ce la puoi fare, ce la puoi fare davvero. Perché se non lo farai, ti ucciderà”.
“…Ho parlato con molte persone del senso di perdita e della bellezza di essere vivi.”
In questo business, o sei dentro o sei fuori. Le persone sono rimaste sorprese quando hanno visto che non ero stato nominato lo scorso anno, e sapevo che non lo sarei stato; credo sia stato allora che ho pensato: “Magari lo sarò ai Bafta, chi lo sa”. Ma non importa perché il mio insegnamento, l’affiancamento e il programma di studio che faccio sono molto più importanti per me, quindi alla fine non importa.
Siamo tutti sostituibili e il fatto che Damien si sia fidato di me pur non conoscendomi così bene, mi ha fatto stare meglio, le persone sono state molto gentili.
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Com’era l’atmosfera sul set?
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La paura mi ha aiutato a parlarne con persone come Ryan perché sapeva come stavo. E ne ho parlato anche con Claire un giorno, era così gentile con me ed io non mi sentivo molto bene, lei aveva capito che stavo passando un momento difficile, così mi ha chiesto cosa non andasse e le ho detto che sentivo che non stavo dando il 100% con lei perché stavo male. Lei mi disse: “Se questo è il tuo 70%, allora lo prendo ogni giorno”. Mentre Damien, che non mi conosceva molto bene, mi ha permesso comunque di apportare il mio tocco personale.
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A quale progetto stai lavorando ora?
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Sto lavorando con Jake Gyllenhaal a “Spider-Man: Far From Home”. Ho lavorato ad ogni genere di film, tranne il musical, ma con la Marvel è diverso, le persone amano questo genere di film e ora capisco perché. Non sono mai stata quel tipo di persona che va a vedere un film della Marvel ma ora che lavoro ad uno di questi film capisco il sentimento generale, perché la gente ne va pazza. È grandioso stare in questo ambiente, lavoro solo con Jake e solo per 12 ore al giorno, non 15 come in altri lavori.
È bello vedere uno stile diverso, è un po’ vecchio stile in un certo senso. E mi piace. Devi passare anche per delle interviste facili per essere preparato a quelle più difficili, giusto?! Cerco di lavorare in maniera intelligente, è quello che fanno sempre gli attori. Qui mi piace il team, il regista, è un genere diverso e stai sicuramente imparando qualcosa di nuovo.