Non etichettate Francesco Mandelli.
Francesco fa di tutto: è stato comico, è ora regista per la prima volta con il film “Bene ma non benissimo” (presentatao il 3 aprile al BAFF – B.A. Film Festival, presentato ad Alice Nella Città alla Festa del cinema di Roma e distribuito da Europictures), ha scritto il suo primo romanzo “Mia figlia è un’astronave” (uno spaccato meraviglioso di vita “semplice” e vera), è attore di teatro con un monologo di quelli tosti sulla difficoltà di comunicare. Proprio questa difficoltà, e poi la nascita di sua figlia, hanno instillato in Francesco la voglia di cambiare, di crescere, come dice lui, dopo ben 20 anni d’adolescenza. Questo cambiamento gli ha permesso di cominciare quella seconda parte della sua vita, colma di ciò che gli piace fare, di sfide ma che è ancora più interessante della prima, su questo è sicuro.
Noi lo abbiamo incontrato a Milano, all’Hotel Sina The Gray, dove abbiamo parlato di tutti i suoi nuovi progetti (sono tanti e tutti entusiasmanti). Ma di una cosa siamo certi: non etichettatelo, perché lui può fare tutto e farà ancora di più.
Musica, teatro, cinema, televisione e un libro: cosa manca alla lista?
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Sinceramente mi piacerebbe riuscire a fare sempre quello che mi piace: il difficile è trovare sempre una sfida nuova, qualcosa che sia stimolante; fare tante cose diverse, come ho sempre fatto. Mi hanno detto che questo non paga perché probabilmente dal punto di vista carrieristico se uno si concentrasse solo su una cosa sarebbe più semplice per la gente inscatolarlo, mentre per le persone è difficile capire cosa faccio; ma alla fine ho sempre pensato che avrei dovuto seguire il mio istinto. Mi piacerebbe tanto fare anche qualcosa in inglese.
Esce ora il tuo film “Bene ma non benissimo”: quali sono state le difficoltà e gli aspetti più belli dell’essere regista per la prima volta?
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In questa sceneggiatura ho trovato molti stimoli interessanti, forse perché il tema è quello dei ragazzi e del bullismo che mi sta molto a cuore, avendo una figlia. Ci ho trovato qualcosa di commovente e sensibile: la sceneggiatura aveva delle cose da sistemare, poi è cambiato il protagonista a due settimane dall’inizio del film, cosa che dopo si è rivelata una benedizione; all’inizio avevo optato per un maschio, poi abbiamo scelto una ragazza.
Mentre mi preparavo al film leggevo degli articoli di cronaca grazie ai quali ho scoperto che in realtà sono le ragazze quelle più colpite dal bullismo e che tendono ai gesti più estremi, quindi mi sembrava bello dare un punto di vista femminile al film. C’è stato un attimo di panico per trovare una protagonista, ma quando ti si pongono davanti delle difficoltà è sempre un’occasione per migliorare le cose, e così infatti è stato: l’unica persona che ho visto dopo l’invio dei selftape è stata Francesca, mi sono seduto al tavolo con lei e ho capito che era la persona giusta.
La difficoltà poi è stata anche portare il film da un’altra parte, perché da commedia ha preso dei toni più delicati e sensibili, e convincere le persone che quella fosse la strada giusta è stato complicato. Poi il film è a basso budget quindi bisognava trovare il compromesso giusto anche lì. È stata un’esperienza meravigliosa, ho capito che forse in questo momento al cinema mi va più di fare il regista che l’attore, essendo anche un momento di passaggio in cui non so bene chi sono io. È difficile interpretare qualcuno se non sai bene chi sei.
In quel ruolo mi sono trovato molto a mio agio: quello che fai è essere un po’ il padre del progetto, devi trasmettere entusiasmo, coinvolgere la gente, far sentire a loro agio i ragazzi alla prima esperienza ma anche portarti dietro i professionisti che hanno fatto mille film e far loro sentire che quella cosa è speciale e che deve esserlo anche per loro.
Da amante del cinema, c’è un regista in particolare che ammiri?
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Ce ne sono tanti, dipende, vado a ondate. In questo momento direi Jim Jarmusch, ho rivisto recentemente molti dei suoi film: mi piace questo suo modo minimalista, anche “Bene ma non benissimo” lo è a modo suo. Ho cercato di mantenere lo stesso piano sequenza e di fare pochi tagli, anche perché quando ne fai tanti per la stessa scena rischi di togliere la naturalezza. Abbiamo girato con la macchina a mano anche per dare ai ragazzi questa sensazione di instabilità: il film comunque parla di una ragazza che si trasferisce, che ha delle difficoltà con i compagni di classe, e che cerca di diventare amica di un ragazzo che ha più difficoltà di lei ed è più bullizato di lei. Jarmusch mi piace perché lui fa dei quadri, racconta una storia a volte molto semplice ma con le inquadrature giuste, senza essere troppo barocco.
“…in questo momento al cinema mi va più di fare il regista che l’attore… È difficile interpretare qualcuno se non sai bene chi sei”.
Hai detto che scrivere il tuo libro è stato come correre una maratona dove a un certo punto ti vuoi fermare perché non ce la fai più: quale è stata per te la motivazione più grande nello scrivere un libro?
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Ci vuole molta costanza ed è un processo molto lungo: girare un film sono sei mesi, preparare uno spettacolo sono un mese di prove e tante date, mentre un libro è più complicato perché intanto sei da solo, devi iniziarlo e finirlo tu; spesso hai la sensazione di aver finito le energie, però era una storia che sentivo. Parte da delle cose autobiografiche quindi sapevo cosa volevo raccontare, ma era anche complicato dato che sono due storie con un personaggio comune, e soprattutto c’è un finale a sorpresa che andava calibrato bene, non potevo anticipare nulla, è stato complicato ma molto bello. Sono fiero del libro e dei feedback positivi, era il momento giusto per scriverlo: arriva dal fatto che mia figlia mi ha cambiato la vita, volevo raccontare questo cambiamento, quindi c’era una spinta umana molto forte e c’era anche la voglia di crescere, di fare qualcosa di diverso.
Non rimpiango le cose che ho fatto in precedenza, ma quel Francesco non esiste più, non potrei più fare “I soliti idioti”, è meraviglioso che la gente se ne ricordi ancora ma è un capitolo assolutamente chiuso della mia vita, a meno che non mi ricoprano di soldi [ride]. Non si sa mai ma in questo momento è chiuso, non ho più nemmeno così tanta voglia di far ridere la gente, mi interessa più scatenare altre reazioni. Non è che scrivendo un libro uno diventa scrittore, sono i primi passi verso una seconda parte della mia vita che credo sia molto più interessante della prima.
“…mia figlia mi ha cambiato la vita, volevo raccontare questo cambiamento, quindi c’era una spinta umana molto forte e c’era anche la voglia di crescere, di fare qualcosa di diverso”.
Nel tuo libro citi molti film, qual è il tuo preferito di sempre? E uno invece che ti ha colpito ultimamente?
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È strano perché uno dei miei film preferiti è “Ubriaco d’amore” di Paul Thomas Anderson, è molto profondo, quasi grottesco ma anche assurdo per certi aspetti: ha preso un attore che di solito non fa quelle cose e lo ha messo in un impianto diverso, poi ha una fotografia incredibile. Un altro dei miei film preferiti è “Stand by Me – Ricordo di un’estate”; mi piacerebbe molto fare un film che sia un romanzo di formazione: in qualche modo il mio libro lo è, è la storia di due protagonisti, uno che cerca di diventare adulto e un altro che si trova sulla soglia dell’essere adulto ma che sembra non avere gli strumenti.
Mi piace parlare dell’adolescenza, forse perché inizio ad avere una strana e piacevole malinconia verso quell’età che inizia a essere lontana: al mattino mi sveglio pensando a dei ricordi del liceo che poi racconto alla mia compagna. Si tratta di sensazioni adolescenziali di una potenza incredibile che poi però perdi con il tempo, sono le scoperte emozionali che fai a quell’età.
Di recente che mi è piaciuto molto è stato “Green book”, l’ho trovato incredibile, con un grande tema e dei grandi attori, una storia semplice ma con dei dialoghi pazzeschi. I registi sono quelli di “Scemo + scemo”: la forza dell’industria americana è che non etichettano uno perché ha fatto un film demenziale, forse addirittura il più demenziale della storia del cinema con il grande Jim Carrey. Se mi chiedessi che film mi sarebbe piaciuto fare nella vita in questo momento ti direi “Green book”.
C’è un momento, quando Viola sta per partorire nel libro, dove lui le legge “L’amica geniale” per distrarla: quale sarebbe il primo libro che vorresti che tua figlia leggesse da grande?
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Direi “Jack frusciante è uscito dal gruppo” di Enrico Brizzi, è stato un libro che mi ha segnato, un romanzo di formazione super italiano ambientato nei miei anni; magari per lei non avrebbe lo stesso senso ma vorrei che lo leggesse perché è molto semplice, ma ti spiega cosa vuol dire diventare grande. Te lo dovrei dire tra una decina d’anni quando ne avrà 14.
“Mi piace parlare dell’adolescenza, forse perché inizio ad avere una strana e piacevole malinconia verso quell’età che inizia a essere lontana”.
Il libro parla della capacità e della voglia di cambiare: diresti che per te è questo il momento del tuo cambiamento?
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Sì, sicuramente. Sono stato adolescente per 20 anni tra i 15 e i 35. È anche capitato un po’ per caso ed è filato tutto liscio fino al successo gigante de “I soliti idioti”, che per assurdo è stato uno dei momenti più cupi della mia vita. Poco dopo è nata mia figlia e lì c’è stato il taglio del cordone ombelicale con la giovinezza.
Ho avuto poi un momento difficile di crisi in cui dovevo scegliere cosa dire, raccontare ed essere, non solo professionalmente ma anche nella vita reale. La crisi è arrivata in un momento molto sereno perché avevo la possibilità di concentrarmi su mia figlia e poter dire dei no. Per fortuna non ho corso il rischio di diventare un quarantenne patetico, anche se in realtà non è una scelta universale per tutti. Ho tanti amici poi che hanno lo stesso stile di vita di 15 anni prima e stanno benissimo così, non sono patetici, hanno trovato il loro equilibrio. Credo che il cambiamento presupponga anche trovare il giusto equilibrio.
“Sono stato adolescente per 20 anni tra i 15 e i 35”.
“Proprietà e Atto”: si tratta di un monologo sull’elaborazione della propria esistenza e del valore del tempo. Come sei riuscito a farlo “tuo”?
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È un testo molto difficile perché apparentemente sembra un flusso di coscienza senza capo ne coda. È la storia di questo straniero che arriva sul palco e che cerca di comunicare con il pubblico tentando di ricordarsi da dove viene per mettere meglio a fuoco dove sia, ma fa fatica. Il monologo racconta l’importanza delle parole: quello che abbiamo in comune sono le parole, perché riescono a farci comprendere, anche solo in minima parte. E del ricordo, cioè del ricordarci sempre da dove veniamo e cosa siamo stati per capire chi siamo adesso, anche se a volte è più facile dimenticare. Per lui in questo momento il tempo è una cosa complicata, non sa da quanto sia arrivato e quanto sia passato da quando ha deciso di partire. Alla fine vuole raccontare il rapporto con i suoi genitori perché si sente solo, si sente lontano, sia in quel posto ma anche molto lontano da casa sua e da dove stava prima, quindi c’è questo non sentirsi mai a casa.
Ho cercato di farlo mio perché mi sono sempre sentito così: da ragazzino andavo d’accordo con tutti ma magari ascoltavo musica diversa dagli altri o avevo interessi diversi quindi in qualche modo venivo visto come uno che ascolta cose tutte sue e che non si capisce bene chi è. Quando ho iniziato a fare tv ero un ragazzo della Brianza, quindi uno sconosciuto, poi al cinema ero uno che veniva dal mondo della tv quindi estraneo, poi quando ho scritto il libro ero uno che veniva da altri due mondi lontani dall’editoria, mentre quando faccio teatro sono uno che viene da tutto il resto. Hai sempre la sensazione di non appartenere ad un determinato posto, che tu sia con i tuoi amici o in una situazione lavorativa. È una sensazione che secondo me tutti proviamo.
“Il monologo racconta l’importanza delle parole: quello che abbiamo in comune sono le parole”.
Se potessi andare a cena con un musicista, uno scrittore e un regista del passato o del presente, chi sceglieresti?
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Come scrittore probabilmente Barros, come musicista, Bowie. E poi Buñuel: farei queste 3 B, vediamo che cazzo succede [ride].
Il libro sul tuo comodino?
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Ce ne sono un paio: un libro che mi è stato regalato a Natale da Luisa di Stephen King che parla di come scrivere, e racconta come intende lui la scrittura e come costruisce le sue storie. E poi una biografia su Sindona, il banchiere del Vaticano tra gli anni ‘50 e ‘60 che è stato assassinato o che si è suicidato.
Barros, Bowie, Buñuel.
Un epic fail sul lavoro?
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Non so se si possa considerare tale: un giorno ero con un amico a Prati, Roma, ed eravamo in un ristorante a guardare la partita sul computer. Stavamo per i fatti nostri quando vedo entrare una persona a ritirare il take away e mi sembrava di averlo già visto, pensavo fosse un runner o un autista di quelli del set, era vestito normale. L’ho salutato perché sentivo di conoscerlo e intanto guardavo la partita, intanto lui mi raccontava che adesso sta a Los Angeles per girare, e allora ho pensato: “Ah allora non è un runner”… Alla fine era Sollima (Stefano). Non sono stato scortese, semplicemente se mi fossi ricordato chi era avrei detto: “Wow ciao, prendimi per un tuo film, vorrei tantissimo lavorare con te”.
Il posto in cui sei stato più scomodo?
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Forse dormire sul ponte del traghetto andando in Sardegna… O quando con Fabrizio (Biggio) siamo andati in gara a Sanremo 2015: eravamo in sala stampa dove mi sentivo scomodo, avrei voluto trovarmi in un altro posto. Quindi ti direi la sala stampa di Sanremo.
Photos by Johnny Carrano.
Makeup by Chantal Ciaffardini.
Styling by Sara Castelli Gattinara @Factory4.
Location: HotelSina The Gray.
“Mia Figlia è un’atronave” (pubblicato da Deaplaneta).
Thanks to Factory4.