Iniziare un film con una scena 1:1 di “Via col Vento“, terminare quello stesso film con alcuni spezzoni di un video di cronaca, risalenti a due anni fa, che demoliscono un finale positivo e contestualizzano la necessità di raccontare una vicenda svoltasi negli anni Settanta,
“maledettamente vera, cazzo!”
mobilitare gli elettori per le elezioni presidenziali del 2020 chiedendo loro di “fare la cosa giusta” nel momento stesso in cui stai ricevendo il primo premio Oscar (per un film in competizione e meritatissimo). Ladies and gentlemen, this is Mr. Spike Lee, regista coraggioso e arrabbiato da almeno trent’anni. Siamo di fronte ad un altro film politico (riguardate, per favore, l’etimologia della parola ‘polis’), siamo di fronte ad un film sincero che prende una posizione inequivocabile in termini di razzismo, ignoranza e storia, siamo di fronte ad un film che non ha bisogno di improbabili riconciliazioni buoniste o di strizzare l’occhio al pubblico.
Il soggetto, tratto dalla vera esperienza del poliziotto Ron Stallworth, è spinoso: ci troviamo in Colorado negli anni Settanta, quando un giovane di colore riesce ad entrare a far parte del corpo di polizia della città di Colorado Springs, diventando è il primo poliziotto nero nella storia della città. Angherie, soprusi, derisioni e tutto il campionario di offese che un uomo medio è in grado di sciorinare è ciò che attende Ron. È poco esperto ma entusiasta, propositivo, intelligente e pratico. Ha la fortuna di avere dei colleghi inizialmente reticenti ma poi coraggiosi al punto da seguire il suo intuito (posso dire da pantera nera?), nonostante i pochi indizi.
L’ottima sceneggiatura del film alterna il lato chiaro e scuro della medaglia mettendone in luce ogni sfumatura, senza filtri. Il film è, in un certo senso, corale, e la buona scrittura permette anche a ruoli cosiddetti minori di avere uno spazio ed una visibilità importanti per la trama: Walter (un irriconoscibile Ryan Eggold), Felix (Jasper Pääkkönen, inquietante e splendidamente in parte), Ivanhoe (Paul Hauser, tanto scemo quanto bravo) e David Duke (Topher Grace) sono i suprematisti bianchi che esibiscono la loro visione del mondo, mentre Patrice (l’affascinante Laura Harrier), Kwame Ture (Corey Hawkins) e Jerome Turner (Harry Belafonte) supportano gli ideali delle Pantere Nere.
Spike Lee non censura, come del resto non ha mai fatto, cercando di riportare fedelmente due correnti di pensiero che collidono per definizione in una spirale che sempre più velocemente si annoda, anzi, s’ingarbuglia. Il tutto grazie ad un duetto di agenti sotto copertura, l’ottimo John David Washington (sempre perfettamente pettinato) e Adam Driver (in quest’occasione alle prese con il difficile compito di interpretare un personaggio un po’ apatico), i quali alternano sotto il nome di Ron Stallworth in modo complementare, tanto da dover copiare Ron a carta carbone: una copia nera, una copia bianca.
Un autentico nero, con la sua faccia bianca!
Memorabile lo scambio telefonico tra David Duke e il Ron nero in cui il fondatore del Ku Klux Klan loda il Ron nero, riconoscendolo come un vero maschio bianco americano. La sequela di equivoci che ne segue è tanto spassosa quanto terrificante, l’angoscia ed il riso si alternano piacevolmente in un crescendo di tensione che culmina in un finale catartico e quasi commovente (con l’aiuto di una buona colonna sonora composta da Terence Blanchard, più volte collaboratore di Spike Lee) in cui la riconciliazione tra bianchi e neri non era prevista negli anni Settanta e, forse, nemmeno oggi: il primo a decidere di usare la violenza cade vittima di se stesso, come se stavolta chi usa le armi fosse proprio il primo a morire per un proprio errore. Il film è di Spike Lee, non di Peter Farrelly. Spike Lee, il buonismo l’ha esaurito alle elementari.
Ho trovato particolarmente interessante rappresentare dettagliatamente la vita nel commissariato di polizia, quasi un microcosmo, specchio della realtà esterna. E’ una cornice dentro la quale si svolge tutto il film: lo apre e lo chiude per ricordarci che questa è la storia di un poliziotto; i colleghi deridono più volte Ron per il colore della sua pelle, alcuni cercano di mettergli i bastoni fra le ruote, altri lo aiutano ed il commissario, senza partecipare attivamente all’azione, ne riconosce il valore, oltre a punire il più sadico dei suoi sottoposti.
Un plauso va ai dialoghi, secchi e pronti ad innescare cortocircuiti, un altro va al casting director Kim Coleman, in grado di scegliere i volti giusti per interpretazioni sostanziose fino al ruolo meno presente, e un penultimo plauso ai costumi (di Marci Rodgers), perfetti nel sottolineare sia il look ricercato dei neri degli anni Settanta che quello da boscaioli dimessi dei suprematisti bianchi, stabilendo così due divise, elegante pelle nera e colori sgargianti da un lato e camicie a quadrettoni come se piovessero dall’altro.
L’ultimo riconoscimento va alla regia, che sottolinea con piccoli accenti lo svolgersi della trama: il punto macchina è sempre scelto con precisione, la fotografia racconta ogni particolare e la macchina da presa, talvolta perfettamente in bolla per inquadrature simmetriche, pochi fotogrammi dopo s’inclina leggermente per suggerire allo spettatore l’assurdità della realtà per come si è svolta.
Un’ultima notazione per gli spettatori non anglofoni: cercate di vedere il film in lingua originale, a causa del doppiaggio non si colgono le piccole ma importanti sfumature della lingua dei suprematisti in contrapposizione a quelle dei neri americani: perdereste così l’occasione di sorridere di fronte alle telefonate tra David Duke e Ron Stallworth (quello nero!).
Grazie Spike. Anche se ti ostini a tifare per i Knicks, io ti voglio un gran bene perché peli sulla lingua non ne hai mai avuti. Ce li hai sputacchiati in faccia ad ogni film e speriamo che stavolta il grande pubblico sia in grado di comprendere l’urgenza di raccontare le vicende di uno str***o razzista a capo di un drappello di esaltati e di un poliziotto nero e sorridente armato di ideali pericolosamente in via d’estinzione.
I Spike Lee!
Credits Cover: Time Magazine.