Beauty. Bellezza. Personalità. Unicità. Accettazione. Espressione. Arte. Un gomitolo di parole che si snoda al ritmo di associazioni mentali, quelle che si sviluppano spontanee in un brainstorming sul concetto della cura estetica. Come la moda, anche il beauty è manifestazione del proprio io, riflesso della natura, del carattere, delle passioni e del credo di ognuno di noi, che facciamo del nostro corpo una bandiera della nostra interiorità. Il beauty è manifestazione della nostra unicità, estensione della nostra personalità, lavoro artistico e curativo su noi stessi. C’è chi dice che il “trucco e parrucco” sia un mero atto di vanità, intervento superficiale sull’immagine di noi che vogliamo restituire a chi ci guarda. Pensiero discutibile. Il beauty è un concetto molto più profondo, è l’arte del coltivare la bellezza in tutti i modi in cui si manifesta, in tutte le dimensioni in cui è nascosta; il beauty è andare a ripescare la bellezza nascosta in ognuno di noi e allevarla, guidarla mentre emerge, sboccia e si concretizza nella nostra essenza e nel nostro biglietto da visita.
I momenti di beauty sono rituali, quasi mistici, quasi magici: sono pezzettini di tempo in cui mettiamo in pausa i pensieri frenetici della quotidianità, che, belli o brutti che siano, affollano il nostro cervello e lo mettono in moto ad una velocità stressante e nociva per il nostro organismo. In questi momenti rituali e spirituali, con una serie di azioni, miste a unguenti, polveri, fragranze, come stregati fermiamo il tempo reale ed entriamo in una nostra, personalissima, dimensione, in cui è ora di dedicarci a noi stessi, al nostro benessere fisico e mentale. Così, la bellezza emerge, e noi, ritornati sulla terra, ci sentiamo guariti, ci sentiamo definiti. Ci siamo presi cura di noi, così da poterci curare meglio del resto.
Casi in cui il beauty è sperimentazione, casi in cui il beauty è espressione, casi in cui il beauty è preliminare, casi in cui il beauty è trasformazione: un’ampia rosa di utilizzi e applicazioni per un concetto vastamente rappresentato nel teatro della celebrazione della bellezza, il cinema. Il trucco, la capigliatura di un personaggio sono parte integrante del suo profilo, e necessaria ad esso, espansione della sua personalità e movente d’azione, tanto quanto il percorso attraverso cui giunge a determinati risultati estetici. Pensiamo alla celeberrima “skincare routine” di Patrick Bateman (Christian Bale) in “American Psycho”.
“American Psycho” di Mary Harron (2000)
Un rituale eloquente, che basta da solo a descrivere il personaggio, un dettaglio congruente con la sua natura. Nella celebre scena della routine del mattino, il personaggio si presenta, e descrive dettagliatamente ogni singolo passaggio del suo rito di bellezza, nominando i prodotti che usa e svolgendo i vari step quasi come fosse un video tutorial. Nella sua casa ricca e splendidamente arredata, tra camera da letto, soggiorno e doccia, Patrick afferma il suo credo nella cura della persona e “in una dieta bilanciata, nel rigoroso e quotidiano esercizio fisico”, delineando i primi tratti del profilo di un personaggio forte, che presto si rivelerà ossessivo e psicotico. Momento clou della scena della “morning routine” è quello della rimozione della maschera esfoliante, che Bateman effettua con un’accuratezza maniacale, quasi come se si stesse liberando di uno strato di pelle, quasi come se si stesse strappando la faccia; non a caso, proprio allora, davanti allo specchio confessa: “C’è una vaga idea di Patrick Bateman, una sorta di astrazione. In realtà non sono io, ma una pura entità, qualcosa di illusorio. Anche se so mascherare la freddezza del mio sguardo, e tu puoi anche stringermi la mano e sentire la mia pelle a contatto con la tua […] la verità è che io non sono lì”.
Della serie “personaggi forti” e beauty come affermazione dei tratti caratteristici della loro personalità, ricordiamo la bella e dannata Charlotte di “A Single Man” di Tom Ford.
“A Single Man” di Tom Ford (2009)
Interpretata da una straordinaria Julienne Moore, Charlotte è una donna esausta, risucchiata dal suo passato e vissuto, una donna dura, sfacciata, sensuale, sicura di sé, ma anche devastata e stanca, tratti sottolineati ed efficacemente resi da un trucco evidente e pesante: palpebre decorate con spesse linee di kajal nero, stile anni ’60, abbinato a capelli cotonati e raccolti in acconciature elaborate. Sequenze di primi piani ci mostrano make-up look e acconci nel dettaglio, come fossero fili costituenti della trama del film. In effetti, lo sono.
Esempio di rituali beauty come camuffamento o dissimulazione (di stati d’animo negativi) è la Tonya Harding di Margot Robbie nel biopic “Tonya”, che racconta la storia vera dell’ex pattinatrice artistica su ghiaccio.
“Tonya” di Steven Rogers (2017)
Quello di Tonya Harding è un personaggio contraddittorio, le cui accuse di aver commissionato l’aggressione della sua rivale prima dei Giochi Olimpici ne segnarono carriera, vita privata, fama, e aspetto estetico. Sì, perché lo stato d’animo ha ripercussioni anche su fisico, pelle, capelli… Più la vita di Tonya va complicandosi, più i segni dell’ansia, stress, frustrazione sono visibili sul suo corpo, come dimostrata la brillante interpretazione di Margot Robbie e il grande lavoro del makeup department del film. Emblematica, la scena in cui Tonya si prepara per una gara di pattinaggio, truccandosi davanti allo specchio: trattenendo le lacrime, facendosi forza ad ogni costo, traccia sui suoi zigomi con un blush in stick color ciliegia dei segni spessi, quasi come un guerriero pellerossa che si dipinge le guance prima di combattere contro il nemico; mentre sfuma il blush con le dita, in una serie di tocchi violenti sulle guance, sembra quasi essere sul punto di abbandonarsi al pianto, ma il trucco l’ha ormai protetta, mascherata, e le ha donato il coraggio e la forza di rilassare il volto in un sorriso di circostanza.
Nella stessa posizione di Tonya, seduta e ben vestita davanti allo specchio, affinamene intenta a truccarsi per prepararsi ad affrontare una sfida, troviamo la Nonna di “Mine Vaganti”, il film di Ferzan Ozpetek tutto ambientato a Lecce e dintorni.
“Mine vaganti” di Ferzan Ozpetek (2010)
Personalità forte, anticonformista, l’unica non conservatrice e mentalmente aperta in una famiglia omofoba e tradizionalista, il personaggio (interpretato da Ilaria Occhini) escogita il più estremo tra i piani per salvaguardare la coesione della propria famiglia. Tale piano lo mette in atto proprio partendo da un rituale di bellezza preliminare: in uno dei momenti più toccanti e affascinanti del film, la Nonna si accomoda alla toeletta nella sua camera da letto e, in penombra, si trucca con cura e dedizione: prima gli occhi, con un ombretto sui toni del blu, poi la matita nera sul bordo delle ciglia, per poi spennellarsi le guance con un blush rosato e infine dipingersi le labbra con un rossetto lucido, color pesca. Orecchini ai lobi, ed è splendidamente pronta per entrare in azione.
Colta a mettersi il rossetto e prepararsi e scrutarsi davanti allo specchio di un bagno glaciale e triste è Marion (Jennifer Connelly) di “Requiem for a Dream”.
“Requiem for a Dream” di Darren Aronofsky (2000)
Rossetto rosso ciliegia e matita nera intorno agli occhi riflettono la cupezza del suo stato d’animo, tanto quanto la noncuranza con cui si dipinge le labbra perché costretta a farlo, così com’è costretta a fare ciò per cui si sta preparando. Il fidanzato, Harry (Jared Leto), le telefona dalla cella in cui è stato rinchiuso perché è un tossicodipendente e, tra le lacrime, le promette che tornerà da lei quella sera, pur sapendo che non tornerà mai; anche Marion lo sa, e a rigarle la guancia compare una lacrima, che lei prontamente asciuga, perché col trucco rovinato, col viso sbagliato, non raggiungerà il suo sogno.
Ancora un rituale di preparazione, preliminare di un atto (truce), è il momento del trucco per Buffalo Bill ne “Il silenzio degli innocenti”.
“Il silenzio degli innocenti” di Jonathan Demme (1991)
Jame Gumb alias Buffalo Bill (Ted Levine) è un serial killer: rapisce giovani donne per scuoiarle e creare un macabro vestito da donna in una sorta di vendetta contro il sistema, poiché gli è stata negata l’operazione per il cambio di sesso. Una famosa scena del film, tra le più inquietanti ed emblematiche con il personaggio per protagonista, inscena un suo rituale di bellezza; il primo step è l’ombretto marrone sulle sopracciglia, per infoltirle, poi, dopo collane e piercing ai capezzoli, è il momento del rossetto: “Mi scoperesti? Io mi scoperei a non finire”, dice mentre si dipinge le labbra di rosa pesca davanti allo specchio, e la sua vittima, in attesa di giudizio, disperata, cerca di scappare. Ma lui non se ne cura, è ipnotizzato in un incantesimo di vanità, in una danza sensuale davanti alla telecamera, in un rituale di finzione che, per qualche effimero istante, lo fa sentire e apparire chi e come vorrebbe essere.
Smalto nero ai piedi, rossetto rosso, matita agli occhi, occhiata insoddisfatta lanciata alla propria immagine riflessa nello specchio: questo il rituale beauty mattutino di Cheyenne (Sean Penn) in “This Must Be the Place”.
“This Must Be the Place” di Paolo Sorrentino (2011)
È proprio l’inizio del film, la scena dei titoli di testa, a mostrarci una serie di azioni compiute dal personaggio che lo descrivono al meglio, che lo presentano allo spettatore, ancora ignaro del passato e del presente del personaggio e assetato di dettagli: Cheyenne è una rockstar ritiratasi dalle scene, ma nonostante ciò continua a vestirsi e truccarsi come quando si esibiva in concerti con la sua band. Da anni, ha scelto l’esilio nella sua magione di Dublino, in cui passa le giornate depresso e ansioso, disilluso sul fronte del potere del rock. Ancora una volta, la beauty routine, i prodotti utilizzati e il modo in cui vengono trattati dal personaggio, parlano al posto suo: unghie nere, labbra rosse e kajal applicati con la flemma e il disinteresse di un dio del rock che ha perso la fede nel suo culto storico.
Restando nell’ambito “beauty come momento di preparazione” per un evento o azione di svolgimento imminente, non possiamo non citare uno tra i maestri dell’estetica e cultori dell’esaltazione della bellezza in ambito cinematografico: l’attore/regista Xavier Dolan e, in particolare, la meravigliosa scena di beauty routine del suo secondo lungometraggio “Les amours imaginaires”.
“Les amours imaginaires” di Xavier Dolan (2010)
I due amici e rivali in amore, Marie (Monia Chokri) e Francis (Xavier Dolan), entrambi innamorati dello stesso ragazzo, entrambi convinti che lui ricambi il proprio interesse e non quello dell’altro/a, entrambi timorosi di sbagliarsi a riguardo, si preparano proprio per la sua festa di compleanno, meticolosamente, superbamente, con un unico obiettivo comune: piacere, conquistare. Mentre Marie, nel suo bagno con pareti rosse e luce calda, si spazzola i capelli bagnati, incurva e dipinge le ciglia con il mascara, Francis, nel suo bagno con pareti bianche e luce fredda, si spruzza il profumo sul collo, prima su un lato e poi sull’altro, scrutando la sua immagine riflessa sullo specchio a muro e su quello ingrandente. “Bang Bang… Vincerà chi al cuore colpirà” canta Dalida in sottofondo, mentre Marie e Francis, truccati e agghindati, sono pronti a colpire.
Il beauty per i “giochi di ruolo” è quello che appartiene al teatro, al cinema, alla danza, allo spettacolo in generale: il trucco può modificare i tratti somatici, migliorarli, peggiorarli, enfatizzarli, smorzarli, il make-up può trasformarti in chi non sei per il lasso di tempo che vuoi. È proprio un gioco di ruolo quello che il regista Guido (Marcello Mastroianni) propone alla sua amante, l’ingenua Carla (Sandra Milo) nel capolavoro di Federico Fellini “8 1/2”.
“8 ½” di Federico Fellini (1963)
“Ci vuole un trucco più… più da porca”, dice Guido a Carla nella camera da letto, ed ecco che prende un pennello e le impiastriccia il volto, dipingendole linee spesse e irregolari sulle sopracciglia sottili. “Fai la faccia da porca!” le suggerisce; “Mi hai presa per una delle tue attrici?” domanda Carla con impertinenza, uscendo dalla stanza con le sue nuove sopracciglia finte, pronta e disposta a trasformarsi a suo piacimento.
Sul fronte “beauty come camuffamento” dell’identità, troviamo personaggi completamente diversi fra loro, ma accomunati dal tipo di utilizzo che fanno del make-up e/o delle routine di bellezza. Iniziamo dalla protagonista del teen cult “Mean Girls”, Cady Heron (Lindsay Lohan).
“Mean Girls” di Mark Waters (2004)
Ragazza dolce e ingenua, ma ossessionata dal desiderio e dalla necessità di piacere agli altri – alle ragazze popolari della scuola in particolare –, usa il trucco come fosse una maschera da supereroe, per nascondere la sua vera natura e omologarsi a standard e mode seguite e predicate dalle hit girl del liceo, al cui successo la stessa Cady vorrebbe arrivare, anche a costo di rinunciare ai suoi pochi, veri amici. Così, alla proposta di questi ultimi di passare del tempo insieme, Cady risponde aprendo il suo specchietto e mettendosi il lucidalabbra con aria spocchiosa, e rifiutando gli inviti e dichiarandosi impegnata in dubbie attività che non li riguardano.
È con obiettivo simile, ma modalità differenti che Arthur Fleck fa uso del trucco: costruire una maschera per nascondere sé stesso e trasformarsi in un’altra persona, in questo caso nel “Joker” di Todd Phillips.
“Joker” di Todd Phillips (2019)
Esasperando e enfatizzando l’aspetto che quotidianamente è costretto ad assumere, per guadagnarsi da vivere come clown, un disperato e psicotico Arthur (Joaquin Phoenix) sceglie la tinta al posto della parrucca, e il viso chiazzato di bianco al posto del cerone steso uniformemente, e così cambia identità. In un rituale davanti allo specchio, lo ammiriamo contorcersi semi-nudo in una danza scoordinata, mentre si inzuppa i capelli di tintura verde e si spennella viso, occhi e lingua di cerone, preparandosi a diventare il cabarettista che ha sempre sognato di essere. E mentre la scritta sullo specchio del suo camerino gli ricorda di “fare una faccia felice”, Joker, con un sorriso dipinto di rosso, esteso fino al mento, gioca con la sua vita e con quella degli abitanti di Gotham City.