A volte ci convinciamo che certi generi non facciano per noi, a priori, senza neanche dargli una possibilità, senza provare a comprenderli. Poi, un giorno, una spintarella, quella giusta, uno stimolo o un parere influente ci persuadono e da un momento all’altro, così de botto, ci ritroviamo intrappolati tra i cuscini del divano, con una ciotola di taralli al finocchio in grembo, a guardare i successi tratti da Philip K. Dick. E scopriamo che ci piacciono più di quanto avremmo mai potuto immaginare.
È allora, col sapore dolceamaro del rimorso e del tarallo aromatizzato, che ci domandiamo: quanta vita senza “fantastico” ho sprecato?
Sci-fi, surrealismo, fantasy, distopico, fantascienza, horror fiction: tutti generi, e/o sinonimi di un unico genere, che ricadono nello stesso pozzo, quello degli snobbati da chiunque non si consideri un “nerd” o un fan di fantasy e sci-fi dalla nascita. O da chi non voglia considerarsi tale. Io stessa, in invani (e col senno di poi irragionevoli) tentantivi di infilarmi, una volta tanto nella vita, in una categoria, ho sempre pensato di potermi definire una fan del “cinema sofisticato”, un’amante dell’”arte che imita la vita”, dei drammi realistici che vedi al cinema appena escono o che ti procacci prima che spopolino sulle piattaforme. Tuttavia, è anche vero che sono sempre stata (e per sempre sarò) anche una fan sfegatata della saga di Harry Potter, di “Hunger Games” e di “Ritorno al futuro”, avida lettrice di libri come “Una serie di sfortunati eventi” e “I racconti del terrore” e il mio preferito di Jane Austen è “Northanger Abbey” (il meno realistico che abbia scritto). Dunque le basi c’erano perché prima o poi mi scoprissi apprezzatrice del fantastico. Penso, comunque, che le basi ci siano in ognuno di noi: basta trovare le cose giuste da guardare.
“Blade Runner”
Il cult di Ridley Scott ispirato a “Il cacciatore di androidi” di Philip K. Dick è stato il mio battesimo sci-fi in età adulta. Dopo una lunga fase dedicata al cinema indie triste, in quel periodo indefinibile della vita a cavallo tra la fine dell’adolescenza e il principio della maturità, nuove conoscenze, nuovi stimoli, nuovi interessi, nuovi desideri mi hanno convinta a esplorare un genere a cui non mi sono mai concessa con tanta facilità. Lo sci-fi può suscitare diffidenza tanto quanto creare dipendenza e il film di Scott sugli androidi (replicanti) che tentano di evadere dalle colonie extra-terresti in cui sono stati spediti per invadere la Terra e prendere il posto degli uomini è il primo di una lunga serie di storie capaci di farti, se non innamorare, quantomeno incuriosire dal genere.
“I segreti di Twin Peaks” 1, 2, 3 + “Fuoco cammina con me”
Tutto l’inverno. David Lynch nei panni dell’agente Gordon e compagnia bella mi hanno fatto compagnia per tutto quanto l’inverno. Meglio tardi che mai per scoprire un capolavoro famosissimo nel suo genere, la quintessenza dell’onirico e del surreale perfettamente in linea con i miei gusti. La prima stagione è il principio di un grande, meraviglioso caos che ruota intorno all’omicidio di Laura Palmer, e che si rivelerà al massimo delle sue potenzialità deliranti nella terza stagione, girata 27 anni dopo la prima. La seconda stagione e il film, “Fuoco cammina con me”, sono tasselli indispensabili per reggere e inspessire il filo logico della trama (per chi crede che esista, effettivamente, un filo logico) dal sapore più soap e patetico. Insomma, una serie che più va avanti, più sconfina nell’allucinazione, con personaggi impossibili, e al contempo così evocativi, che ti ingoiano nel loro mondo e a cui, parola mia, continuerai a pensare a lungo, forse anche per sempre.
“Gremlins”
Tra i film cult ambientati a Natale, che si guardano a Natale, la storia prodotta da Spielberg e diretta da Joe Dante la guardo solo a Natale anche io per preservare quel suo status guadagnato di film “speciale” che per restare tale non può esser visto più di una particolare volta all’anno. Così, ogni dicembre, io trepidante fisso la data in cui ritroverò i miei pelosi, diabolici amici Mogwai, li ascolterò cantare la loro canzoncina e parlottare con il loro linguaggio bambinesco fino a farmi sciogliere il cuore. Una storia che, purtroppo, è fantasia pura: niente coerenza scientifica, né manifestata né voluta, solo animaletti dolcissimi dall’anima oscura, che hanno bisogno di cure speciali e che non esistono, ma che quella volta all’anno mi addolciscono con la loro storia assurdamente iconica.
“Veleno”
Il cortometraggio firmato Wes Anderson, tratto da un racconto di Roald Dahl, fa parte, insieme al premio Oscar “La meravigliosa storia di Henry Sugar”, “Il cigno” e “Il derattizzatore”, di una collezione di corti adattati dal regista più visionario dei nostri tempi. La storia, concentrata in 17 minuti di pura goduria visiva e metafore più o meno intelligibili, è quella un colone inglese (Benedict Cumberbatch) che prova a restare il più immobile possibile nel suo letto, patendo il caldo umido dell’India degli anni ‘50 per paura di essere morso da un serpente velenoso che ha visto infiltrarsi tra le lenzuola. Tra un maggiordomo iperprotettivo (Dev Patel) e un medico iperattivo (Ben Kingsley), una domanda sorge spontanea: quanta fantasia c’è alla fine in questa storia? E chi è il serpente velenoso, gli indiani o la Corona? Perché come in tutti i capolavori andersoniani, i pastelli e i deliri simmetrici nascondo sempre un messaggio più profondo e complicato di quel che sembra.
“Povere creature!”
L’ultimo di Yorgos Lanthimos è il mio film dell’anno. Un film che o lo ami o lo odi, ma un indiscutibile capolavoro. Un concentrato di citazioni ed elementi tratti da ogni possibile campo dello scibile umano, performance attoriali di altissimo livello, scenari onirici o meglio, allucinatori, che ti trasportano dall’inizio alla fine in una dimensione assurda, surreale, ma anche vagamente familiare, che ti ricordano il mondo come lo vedevi da bambino, e poi da ragazzo, e poi da adulto. Con una versione inedita dello scienziato pazzo, un “dio” di nome e di fatto che usa sé stesso e gli altri come cavia per le sue sfide sperimentali contro la natura, danze macabre e la vita raccontata in totale assenza di pudori e inibizioni, a questo film ci ho pensato spesso, a lungo. Adesso al mattino mi sveglio con “Bella” di Jerskin Fendrix (il brano della scena d’apertura del film).
“Wonka”
“Oompa, Loompa, doompa-dee-do / I’ve got a perfect puzzle for you / Oompa, Loompa, doompa-dee-dee / If you are wise, you’ll listen to me”. Unpopular opinion, ma a me questo film (e questa canzoncina irritante) ha rapita e ipnotizzata. Forse è stato il cioccolato, o forse i colori, o forse Timothée Chalamet che balla e canta e sembra Fred Astair, anzi, oppure Hugh Grant con i capelli verdi in versione tascabile, ma io mi sono genuinamente divertita. Ho iniziato il film con poche aspettative, immaginando impossibile e inutile riproporre con successo una storia già iconicamente raccontata da Johnny Depp e Tim Burton e da Gene Wilder e Mel Stuart prima di loro, e invece ho finito il film col sorriso sulla bocca e le lacrime negli occhi. Perché quella di Willy Wonka resta la storia di tutti noi che abbiamo tantissimi, grandissimi sogni e solo buone intenzioni, e che ci mettiamo in gioco, anche col poco che possediamo, per riuscire a realizzarli.
“Scissione”
Io non amo divorare le serie, il binge-watching non fa per me – preferisco sempre assaporare quello che vedo, prolungare il piacere quando la serie mi prende, ritardare il momento triste in cui dovrò abbandonare i personaggi che ho incontrato per realizzare che non sono miei amici e lasciare il loro mondo per realizzare che non è il mio. “Scissione”, però, l’ho divorata in un paio di giorni. Forse perché quel mondo era scomodo e inquietante e non ci volevo stare, perché con nessuno di quei personaggi vorrei mai avere a che fare, perché la storia era ipnotica. In altre parole, il cosiddetto “cliffhanger”, la fine di ogni puntata in cui non si capisce in che stato sia e in che stato finirà il cervello dei coraggiosi che hanno voluto scindere vita privata da lavoro, era sempre troppo sospeso. Dovevo sapere cosa c’era sotto, dovevo decidere da che parte stavo, dovevo capire perché e fino a che punto mi sembrava appetibile quel mondo in cui dimenticare traumi del passato attraverso manipolazioni chirurgiche era una possibilità.
Altri titoli interessanti
“Dune” (1 e 2, di Denis Villeneuve)
“Blade Runner 2049”
“Fallout”
“Il problema dei 3 corpi”
“L’uomo nell’alto castello”