Come in una partita di scacchi, Alessandro Bedetti calcola attentamente ogni mossa, muovendo le pedine del suo mondo con grande abilità. Recentemente, il gioco l’ha portato su un set internazionale, quello della prima serie tv di Roland Emmerich, “Those About to Die”, ora disponibile su Prime Video. Ambientata nell’Antica Roma all’epoca di Vespasiano, tra lotta al potere e corruzione, gare di bighe e combattimenti dei gladiatori, è un prodotto gigantesco che mette in scena i lati più oscuri della vita nel 79 D.C., che stranamente a tratti ricordano la nostra quotidianità.
In questa intervista, Alessandro ci racconta il suo percorso, le sfide affrontate e le emozioni vissute sul set di una produzione così imponente. Condivide aneddoti divertenti e riflessioni profonde sulla recitazione e sulla sua esperienza personale, rivelando il lato umano dietro la figura dell’attore.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
La prima volta che ho guardato “Ritorno al futuro” con la mia famiglia in salotto. Ma anche “Troy”, guardato da piccolissimo con i miei genitori, e “Il cavaliere oscuro”.
Sei nel cast di una serie internazionale, “Those About To Die”. Cosa ti ha attratto in particolare del progetto?
Innanzitutto, il fatto che fosse un progetto gigantesco. Anche solo ricevere l’email del provino mi ha spiazzato. In realtà, è stato il provino più semplice che abbia fatto: ero molto a mio agio con la casting director Michela Forbicioni, che penso sia bravissima, e con Greta, mi hanno aiutato moltissimo con il provino. Ora a posteriori, con la serie in uscita, posso dire che non è stato difficile, ma allo stesso tempo stranissimo. Era un set gigantesco e l’ho condiviso con attori enormi: il giorno in cui ho incontrato e ho lavorato con Antony Hopkins lo ricorderò sempre come uno dei giorni più importanti e belli della mia vita, non solo carriera, ma perché è uno dei miei idoli. È stato incredibile vedere queste persone e rendermi conto che sono delle persone vere anche loro e che non sono alieni, pur essendo “mostri” della recitazione. Conoscere questi giganti del cinema mi ha dato la forza di pensare: “Ma allora se sono persone vere anche loro, posso farlo anche io”.
Ho capito che se non hai ancora tutti gli strumenti per dare il massimo sul set, se hai ancora esperienza da fare, quando lavori con attori come loro non hai bisogno di recitare: ti basta guardarli negli occhi e fanno tutto loro. Tramite la loro bravura e la loro passione, tu sei già dentro il personaggio e l’atmosfera.
Quando entravo sul set, era un po’ come entrare a Narnia: luci pazzesche, costumi impeccabili. Come dice Antony Hopkins nelle sue interviste: “Play the game of believe. And believe it, believe it, believe it”, anche se non ci credi, fai finta di crederci finché non ti dimentichi di star facendo finta di crederci.
Partecipare a questa serie mi ha regalato una libertà scenica incredibile, che è ciò che mi lega e mi fa appassionare alla recitazione, che per me è un momento in cui tu puoi esorcizzare tutte i non detti della tua vita quotidiana e sperimentare una personalità diversa senza conseguenze sulla tua vita normale.
“Conoscere questi giganti del cinema mi ha dato la forza di pensare: ‘Ma allora se sono persone vere anche loro, posso farlo anche io’.”
Il tuo personaggio, Hermes, vive in un mondo di violenza e sete di potere. Come ti sei approcciato al ruolo e c’è qualcosa che hai imparato e che ti ha colpito particolarmente del periodo storico in cui è ambientata la serie?
Innanzitutto, il lavoro che ho fatto sul mio personaggio è stato impegnativo. Hermes è lo schiavo greco di Domiziano, gli sta sempre dietro o a fianco, capisce gli intrighi e i giochi di potere in atto per riuscire ad arrivare al trono, ma non può fare o dire nulla. L’unica cosa che può e cerca di fare, essendo il compagno di Domiziano, è temperare e stemperare, spiegare a Domiziano dove e quando sbaglia. JoJo [Macari], che interpreta Domiziano, mi ha consigliato di lavorare sul personaggio partendo con la Sindrome di Stoccolma: durante l’analisi dei personaggi, abbiamo deciso che Hermes è innamorato di Domiziano, c’è una love story tra di loro, seppur drammatica e occultata.
So che Roland Emmerich, il regista, ha sempre voluto fare una serie sull’Antica Roma in stile “Trecento” o “Il gladiatore”, e questa è stata la sua occasione per affermarsi semplicemente con sé stesso, e io sono orgoglioso di aver partecipato alla sua prima serie tv. In Roland poi ho visto, e questa è una grande differenza intellettuale e di focus tra gli americani e gli italiani, la voglia di raggiungere i propri obiettivi per sentirsi davvero realizzati.
Mi viene in mente una cosa che diceva Erich von Stroheim, un regista e sceneggiatore degli anni ’20, ovvero che a Hollywood vali quanto vale il tuo ultimo film; Totò invece diceva che in Italia vali solo quando muori [ride].
Cosa hai scoperto su te stesso, invece, nei panni di Hermes?
Stai zitto e rimani in silenzio finché non è il momento giusto per parlare. Ecco cosa ho imparato. Ho imparato per me stesso la strategia di Hermes.
È stato difficile preparare questo personaggio anche perché non parla, appunto, dunque ho ricercato un’impostazione, una presenza scenica per parlare con lo sguardo e con il corpo. Ho letto il libro di Michael Caine e ho guardato tantissime interviste di Christian Bale, per capire come interpretare i personaggi che stanno zitti. Michael Caine in particolare racconta di un regista che una volta gli ha spiegato che se il personaggio non ha battute, l’attore non deve solo “stare zitto”, ma pensare a tutte le cose che in quel momento vorrebbe dire e fare, e non dirle e non farle. Questa strategia cambia completamente la tua percezione in scena.
Un aneddoto divertente, a proposito: ho lavorato con Paul Mescal in “The History of Sound” di Oliver Hermanus, e su quel set, quando gli ho chiesto di darmi un consiglio, lui mi ha detto: “Watch everything and don’t be a dick” [ride].
“…finché non è il momento giusto per parlare”
E su questo set sei stato più istintivo o razionale?
Sul set di “Those About to Die” mi ha guidato una sorta di istinto emotivo. Se invece di un personaggio come Hermes avessi interpretato un personaggio in un film post-apocalittico, avrei lavorato sull’istinto in senso di ”allerta animale”. L’istinto, infatti, serve quando hai bisogno di salvarti, però quello è l’istinto animale: noi umani, di istinto di sopravvivenza, però, non abbiamo più proprio nulla, secondo me.
Avete girato in ricostruzioni del Colosseo e del Circo Massimo, scenari iconici. Come è stato per te lavorare in queste ambientazioni?
È stata un’esperienza indescrivibile.
Una delle prime cose che ho visto è stato il rendering sul programma di effetti speciali: una piantina in 3D di tutta Roma Antica. Pensa che mentre giravamo, utilizzando dei led wall, Roland Emmerich stava finanziando la casa di produzione di quei led wall per amplificare e fare continui upload! Ogni giorno, quindi, il led wall era migliore del giorno prima, pazzesco. Era tutto così giusto, delicato, in equilibrio, visivamente e a livello sensoriale, che quasi mi sentivo in colpa per il “poco” che facevo io in confronto. E non avevi bisogno di fare nessuno sforzo di crederci, praticamente, di far finta di essere Hermes nel 70 D.C., perché davanti a me avevo Roland Emmerich che mi diceva cosa fare e di fianco JoJo e il resto del cast che rendevano tutto più facile.
Roland ha fatto una mossa molto intelligente: ha scelto, per la sua prima serie tv, ragazzi che “non sono ancora nessuno”. Insomma, se il mio primo approccio a Hollywood è stato questo, con un regista meraviglioso, gentile e umile come Roland Emmerich, io ora dico che a Hollywood ci voglio tornare domani.
Quale messaggio speri che il pubblico colga guardando questa serie?
Io spero che la gente finalmente riesca, come ho fatto io recitando in questa serie, a capire i meccanismi che continuano a far sì che le persone si odino e si facciano del male. Credo che l’unica cosa che impari dalla storia è che la storia si ripete, e con “Those About to Die” spero che la gente capisca quanto il male possa distruggere tutto, anche se sei l’Imperatore, perché oggi sei l’Imperatore, ma domani potrai essere ucciso e di Imperatore ne arriverà un altro, perché se sei il più forte, tutti vogliono avere quello che hai tu, la tua carica, il tuo posto, perché tutti vogliono essere i più forti. Vorrei che si capisca quanto è stupida e inutile la lotta al potere. L’unico governo che io stimo e al quale mi affido in base alla mia morale è quello che propone Henry David Thoreau nel suo trattato di Disobbedienza civile: perché le guerre non le fanno gli uomini, ma le fanno i capi, le fanno i re.
“Vorrei che si capisca quanto è stupida e inutile la lotta al potere”
Visto che la tua bio di Instagram attualmente è una citazione iconica, “why so serious” … Qual è la tua citazione cinematografica preferita?
Una sola è tostissima, però ce l’ho: “Buongiorno! E in caso non dovessimo rivederci … Buon pomeriggio, Buona sera e Buonanotte!” da “The Truman Show”.
Un epic fail sul set?
In “Those About to Die”, c’era una scena in cui dovevamo indossare delle bellissime, lunghissime tuniche, che però si incastravano sempre dappertutto [ride]. Quindi, capitava spessissimo che camminassimo e inciampassimo sbattendoci per terra.
Poi, un’altra storia divertente: dovevamo girare una scena nei bagni imperiali, e Jojo quel giorno aveva 39 di febbre, quindi avevano riempito le vasche di acqua calda per evitare che si ammalasse ulteriormente. Il problema era che la temperatura dell’acqua era così calda che io e Jojo, una volta dentro, non riuscivamo a muoverci, eravamo tutti rossi e abbiamo quasi perso i sensi [ride]. Una volta fuori dall’acqua, eravamo fumanti!
Il tuo must-have sul set?
Quando posso, porto una cavigliera a cui è legato un anello di mia madre. Cerco sempre di tenere con me un mio oggetto personale con cui ho un legame emotivo, che nessuno può vedere. Mi aiuta a ritrovare il focus quando vado troppo a braccio.
Qual è stato il tuo ultimo binge-watch?
La prima stagione di “True Detective” e di “Outer Banks”. Sono serie che hanno un ritmo pazzesco, fantastiche, con cast brillanti.
Poi divoro anche videogiochi, ho giocato tutto “Uncharted” 1, 2 e 3 di fila, per esempio.
Suoni la chitarra, vero?
Sì, ho imparato da pochissimo. Mi hanno regalato una chitarra per il mio compleanno e ho iniziato a studiarla. Poi, un mio amico mi ha insegnato “il suono” della chitarra, insieme alla tecnica che stavo già affinando da autodidatta, e adesso strimpello spesso.
E qual è la canzone che descrive questo momento della tua vita?
Interessante questa domanda… “Walzer für Niemand” di Sophie Hunger, che ho scoperto perché è nella colonna sonora del film “La bella estate” di Laura Lucchetti. Questo pezzo mi è entrato dentro in una maniera assurda.
Ci sono due categorie di persone: gli animali notturni e i mattinieri. Tu a quale appartieni? E qual è la tua ora preferita della notte o del giorno?
Io sono un animale notturno. Con la notte, io mi distacco completamente dall’ordine tempo ed entro in un loop per cui esiste un unico blocco, senza un prima e un dopo. Il giorno dopo, quando mi sveglio, mi ricordo un punto in particolare della notte prima e so che quello dev’essere stato il più bello, il mio preferito.
“Senza un prima e un dopo”
Il tuo più grande atto di coraggio?
Iniziare una carriera nel cinema. Che tu sia predisposto o meno, che tu abbia già iniziato e abbia conoscenze e contatti o meno, comunque metti una mano sul fuoco e affronti una prova di coraggio, perché scommetti tanto. Quindi chiunque stia provando a fare l’attore, deve darsi il cinque, perché sta cercando l’impossibile, ed è una bellissima ricerca.
La cosa più pazza che ho fatto, invece, è stata un salto di 15 metri in acqua su un’isola, in Spagna; era un posto in cui poca gente si lanciava, anche perché da lì in realtà non ci si poteva lanciare.
Di cosa hai paura?
La mia paura più grande è quella di andarmene senza aver fatto del bene alla mia famiglia. L’idea di lasciare la mia famiglia senza di me e provocargli questo dolore mi distruggerebbe. Proprio per questo, negli ultimi anni mi sono un po’ martoriato per la necessità di fare il più possibile, dicendomi “se non ce la fai, sei un fallito”. Forse la mia paura più grande, infatti, sono io, perché io posso trattarmi malissimo. Cosa che mi è già successo di fare, anche solo per paranoie o insicurezze.
È vero quello che dice Tedua in una sua canzone, “Il futuro è in mano ai deboli che si sono fatti coraggio”, e “Auguro a tutti voi che la vostra umiltà non si trasformi in insicurezza. E che la vostra sicurezza non si trasformi in arroganza” in un’altra. Se avessi conosciuto queste canzoni nel periodo in cui mi sono trattato peggio, mi avrebbe aiutato moltissimo. La ricerca dell’umiltà è un trabocchetto, perché rischi di diventare quello che fa finta di essere umile, e quando fingi l’umiltà, è peggio dell’arroganza. Però, nella ricerca dell’umiltà, finisci anche per sminuirti, com’è successo a me. E che palle, anche basta, ditti “bravo” ogni tanto. Ma ci ho messo un bel po’ a capirlo.
Come dice Jim Carrey: “Life doesn’t happen to you, life happens for you”.
“La ricerca dell’umiltà è un trabocchetto, perché rischi di diventare quello che fa finta di essere umile, e quando fingi l’umiltà, è peggio dell’arroganza”.
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
È un lavoro tosto. Per sentirsi a proprio agio nella propria pelle devi sradicarti un bel po’, fare un lavoro su te stesso importante. A me, studiare Jacques Lecoq ha aiutato moltissimo: ha scritto un libro bellissimo che si chiama “Il corpo poetico”, in cui spiega come approcciarsi al teatro. Lui dice che per iniziare si parte dalla maschera neutra, a cui poi si sovrappongono tutte le altre maschere, fino all’ultima, che è quella del pagliaccio. Il punto è che, per arrivare alla maschera neutra c’è comunque un lavoro da fare: quella maschera te la devi guadagnare togliendo prima tutte le sovrastrutture che ti sei auto-creato o che hanno creato le circostanze in cui vivi. Questo è un lavoro personale, in cui devi trovare la tua identità e in base alla sensibilità di ognuno c’è una risposta diversa. È alla fine di questo processo, secondo me, che riesci a sentirti a tuo agio nella tua pelle, perché quando hai trovato la maschera neutra, hai anche conosciuto tutti i lati della tua personalità.
Qual è la tua isola felice?
È casa mia, dove ci sono i miei genitori, mia sorella, mio fratello e i miei amici. Per un periodo, sono stato meglio fuori, perché avevo bisogno di lavorare, però quando torni a casa e trovi tua madre e tuo padre che non vedi da tanto, è una sensazione senza pari. La famiglia prima di tutto e su questo non ci piove. Lotterai sempre per la tua famiglia ed è giusto così.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Grooming by Sofia Caspani.
LOOK 1
Total Look: Leonardo Valentini
LOOK 2
Total Look: CO|TE
LOOK 3
Shirt: Leonardo Valentini
Trousers: Marc O’Polo
LOOK 4:
Total look: Caruso
Thanks to Maximilian Linz, Studio RE Media Relations, Beside Communication and Karla Otto.