Aneddoti dal set, lavoro sul campo, trucchi del mestiere e tanti ricordi di famiglia: la mia intervista con Alessandro Nivola è stata più unica che rara. Non mi era mai capitato di chiacchierare con una persona con così tante storie da raccontare, un essere umano gentile e riflessivo, con una grande attenzione ai dettagli e una profonda dedizione al suo lavoro e all’impatto che ha sulla vita delle persone e sulla loro percezione del mondo.
Con Alessandro, ci siamo piacevolmente dilungati sui suoi ultimi film, “The Brutalist” di Brady Corbet e “The Room Next Door” di Pedro Almodóvar, entrambi presentati e premiati al Festival del Cinema di Venezia di quest’anno. Abbiamo discusso dell’esperienza dell’immigrazione e della sensazione di sentirsi “fuori posto” in un paese che non è il tuo, ma che devi imparare a sentire tuo, che sia a causa una guerra o del destino. E abbiamo anche parlato un po’ di cinema, dell’esperienza affascinante e formativa di essere guidati dai più grandi registi dei nostri tempi.
Una chiacchierata che avrebbe potuto durare per sempre, proprio come quei due capolavori cinematografici che presto arriveranno al cinema e che, si spera, saranno anche tra i protagonisti della prossima Awards Season.
Prima di tutto, complimenti per “The Brutalist”, per me è un’opera d’arte.
Grazie mille. In effetti, alcuni l’hanno paragonato a film iconici del passato, come “Il Petroliere”, ed è stato il primo segnale che ci ha fatto sperare in una risposta positiva da parte del pubblico! Ricordo che stavo cenando con Brady [Corbet] la sera prima della première a Venezia, quando c’era stata una proiezione stampa, e gente aveva iniziato a mandargli messaggi dicendo che c’era stata un’ovazione durante l’intervallo.
È successo anche a me quando sono andata a vedere la proiezione stampa: all’intervallo, la gente si è alzata in piedi e ha iniziato ad applaudire e a fare foto alla “foto di famiglia”!
Sì, e pare seguissero il conto alla rovescia per la ripresa del film. Comunque, è stato in quel momento che abbiamo iniziato a pensare, “Ok, sta succedendo qualcosa”.
È stato incredibile poter essere testimone del percorso di Brady, sapendo quanto abbia sofferto per realizzare il film. Vive a un isolato da me a Brooklyn, proprio nella strada accanto, quindi ho praticamente assistito a tutto il suo viaggio. Sono stata una delle prime persone ad essere coinvolte nel film. Mi ha chiamato durante la prima settimana di Covid, quando tutti eravamo appena entrati in lockdown e stavamo accumulando lattine di fagioli cannellini e roba simile in cucina, e lui mi ha chiamato su Zoom. Sin da subito mi è sembrato un progetto interessante, perché la storia che mi ha raccontato aveva molti punti in comune con la storia della mia famiglia. Sai, mio nonno era un grande amico di Le Corbusier, il padre del brutalismo secondo alcuni, e mia nonna era una rifugiata ebrea dell’Olocausto, quindi Brady e io abbiamo avuto molto di cui discutere. Poi mi ha detto che avrebbe girato il film in Polonia di lì a due mesi, e, sai, era un momento in cui non si facevano film, non stava succedendo niente, se non la fine del mondo, e così ho accettato.
Tornando ai miei nonni, comunque, mio nonno era uno scultore sardo cresciuto in un piccolo paese della Barbagia, aveva otto fratelli e la sua famiglia era poverissima, ma lui ottenne una borsa di studio per studiare con Marino Marini in una famosa scuola d’arte vicino Milano, a Monza. Mia nonna, invece, era una ebrea tedesca nata a Monaco e vissuta a Francoforte fino all’età di circa 12 anni, quando con la famiglia fuggirono dai nazisti e si trasferirono a Torino nei primi anni ’30, quindi lei è cresciuta a Torino. Poi è andata alla stessa scuola d’arte di mio nonno e quando è scoppiata la guerra, i suoi genitori fuggirono a New York mentre lei rimase. Mia nonna e mio nonno erano innamorati, così decisero di trasferirsi in Sardegna e si sposarono lì.
All’inizio della guerra, una notte, uno dei loro amici più stretti nel loro villaggio li svegliò nel cuore della notte confessando che li stava spiando da tre mesi e che la polizia sarebbe venuta a prenderli la mattina successiva. Così, fecero le valigie e fuggirono attraversando la Francia, fino a New York. In seguito, mio nonno divenne un celebre scultore e fece parte del gruppo di pittori e scultori dell’espressionismo astratto che viveva nella parte orientale di Long Island. Ecco perché era diventato amico di Le Corbusier, che andò persino a casa loro a dipingere dei murales sulle pareti – si presentò un giorno dicendo: “Le vostre pareti sono troppo bianche, ci vuole un murale!” [ride]. Sono cresciuto in quella casa, d’estate, e quei murales sono ancora lì: sembra un museo, una galleria d’arte, ma è solo una casa.
Comunque, ecco, io e Brady avevamo tanto di cui parlare!
“La storia che mi ha raccontato aveva molti punti in comune con la storia della mia famiglia”
Sì, immagino che tu fossi emotivamente molto coinvolto nella storia. Voglio dire, non è ovviamente la stessa cosa, ma la storia della tua famiglia ha effettivamente qualcosa in comune con quella del film. È pazzesco.
Sì, e poi, man mano che parlavamo del mio personaggio in particolare, ho capito che la storia tra László, interpretato da Adrian Brody, e Attila, il personaggio che interpreto io, è una sorta di prologo al film. È quasi come un cortometraggio a sé stante che introduce la storia e ne stabilisce il tono, e ha un arco drammatico tutto suo, separato dal resto del film o come un film nel film, appunto. Il rapporto tra i due è molto sfaccettato e stratificato, perché sono cugini, ovviamente, e hanno una storia complicata.
Attila ha lasciato l’Ungheria dopo la Prima Guerra Mondiale, quindi vive già in America da 15 anni; da un lato, si atteggia e si pavoneggia, cercando di convincere tanto László quanto sé stesso di essere riuscito a farsi strada in America, anche se tutto dice il contrario, perché Attila vive in un piccolo appartamento squallido e gestisce un negozio di mobili che a conti fatti è un fiasco. Il suo status sociale non è dei migliori e lui è disperato, vuole dimostrare di ricoprire un ruolo importante nel mondo della cultura, anche se non è così. Dall’altro lato, si sente in colpa per non aver vissuto l’Olocausto. E poi arriva László, direttamente dall’inferno, e Attila prova una sorta di vergogna nei suoi confronti, ma anche una venerazione per il genio e il talento di László, e un risentimento verso quel potere. E poi c’è l’amore: penso che Attila voglia davvero molto bene a László come membro della famiglia, come sangue del suo sangue, nonostante tutto.
Questi sentimenti sono in ballo contemporaneamente, formando una sorta di microcosmo, che è ciò che dà tanta profondità e potenza al film in generale.
È stato molto interessante, dal punto di vista comportamentale, interpretare qualcuno proveniente da un paese straniero, che ha vissuto in America abbastanza a lungo da sembrare quasi americano, ma non del tutto, e capire come farlo parlare, che accento dargli, eccetera.
Come dicevi, Attila vuole in qualche modo negare il suo passato. Insomma, è arrivato in America, ha cambiato nome e si è persino convertito al cattolicesimo sposando una donna americana, e sembra orgoglioso di questi cambiamenti e di aver messo da parte le sue origini. Come hai affrontato la rappresentazione di questo personaggio e cosa pensi lo spinga a voler cancellare la sua storia?
Beh, come per tanti immigrati che arrivano in America, è molto difficile trovare davvero la fortuna e il successo: questo è un Paese in cui se sei un immigrato e un ebreo, finisci direttamente in “seconda classe”. Per esempio, sia Attila che László provengono da un ambiente piuttosto colto, bohémien o addirittura borghese, sono persone di cultura, ma quando arrivano in America, sono solo un altro ebreo e un altro immigrato. Quindi, penso che tra tutte le persone che arrivavano dall’Europa in quel periodo, anche italiani non ebrei, o irlandesi, fosse diffuso questa sorta di bisogno di adattarsi e di nascondere il fatto di essere immigrati per potersi integrare e andare avanti. Penso ci voglia molto coraggio per non nascondere le proprie origini e riuscire a sentirsi comunque accettati.
Attila, nonostante tutto il suo pavoneggiarsi, è una persona molto insicura con un disperato bisogno di approvazione, il che era una cosa molto comune tra gli immigrati, cercare di assorbire la cultura americana. Mio padre ha vissuto tutto questo in prima persona, non ha parlato inglese fino all’età di sei anni, e aveva acquisito uno status strano, era un po’ una via di mezzo. Alla fine entrò in una specie di collegio di lusso, dove voleva disperatamente essere accettato dai suoi compagni preppy ed eleganti. Infatti si cambiò il nome per un po’, da Pietro Salvatore Nivola a Pete! Non voleva essere classificato come il “rozzo italiano”, sai, il tipico immigrato italiano tutto unto, dai ragazzi del collegio, voleva sentirsi ben integrato, soprattutto a quell’età. È stato solo più tardi, quando sono nato io, che ha iniziato a sentirsi di nuovo orgoglioso delle sue origini, e si è cambiato di nuovo il nome, tornando a quello di battesimo.
Poi, quando sono nato io, mi ha dato il nome più italiano in assoluto, che in America nessuno riesce a pronunciare! [ride]
“Penso ci voglia molto coraggio per non nascondere le proprie origini e riuscire a sentirsi comunque accettati”.
A proposito, il film parla in un certo senso anche di successo e delle sue conseguenze, e tu stesso hai menzionato questa parola più di una volta. La storia dimostra come il successo porti a cambiamento e trasformazione, e in alcuni casi anche ad una degradazione dell’identità, del patriottismo, come dicevi, e perfino di sentimenti come l’amore, se pensiamo alla relazione tra László e sua moglie e a come cambia nel corso della storia. Questo è anche uno dei motivi per cui la trama è piuttosto complessa, anche dal punto di vista emotivo. Come hai gestito questi temi delicati e cosa hai trovato più difficile nel portare in vita tutti questi concetti sullo schermo?
Beh, penso che la cosa da tenere bene a mente, come attore, è che devi essere disposto a permettere a molte cose diverse di coesistere, aperto alla possibilità che molte cose paradossali, in opposizione tra loro, possano coesistere in ogni momento di una scena.
Come accennavo prima, per esempio, Attila può voler bene a László e allo stesso tempo provare risentimento nei suoi confronti, può idolatrarlo e volerlo distruggere allo stesso tempo. E vale anche per il personaggio di Guy Pearce [Van Buren] e la sua relazione con László. È come se Van Buren volesse possederlo, essere letteralmente dentro di lui, ha quasi un’ossessione per lui ed è affascinato dal suo genio, ma allo stesso tempo vuole distruggerlo, controllarlo e schiacciarlo.
La sfida più grande è permettere che emozioni diverse coesistano nello stesso momento in una scena. E, se ci pensi, è anche quello che facciamo come esseri umani nell’arco della giornata. Quindi, non lo trovo necessariamente difficile da realizzare – è più difficile trovare una storia che ti permetta di farlo.
Inoltre, una cosa che ho davvero apprezzato del film è il modo in cui la violenza e il dolore vengono rappresentati: sono presenti, ma raramente mostrati esplicitamente. Invece, i personaggi trasportano il loro trauma internamente, il che li rende quasi vittime “invisibili”. Come hai lavorato con il regista per rappresentare la sofferenza in modo così sottile? E come ha influenzato il tuo modo di recitare e, forse, anche la tua vita?
Ad essere sincero, gran parte della mia performance è stata istintiva. Sentivo di comprendere il personaggio così bene anche solo leggendo ciò che Brady aveva scritto. In realtà, ne abbiamo parlato, ma non troppo, nel senso che non mi piace mai parlare troppo del personaggio perché poi così finisci per intellettualizzare le emozioni, e non credo che sia molto utile.
Sentivo di comprendere la sofferenza di Attila e il fatto che il modo in cui si presenta e maschera la sua provenienza erano un riflesso di un sentimento di profonda disperazione. Attila cerca costantemente di dimostrare qualcosa a László e a tutti gli altri, a sua moglie, ai Van Buren; secondo me, il bisogno di convincere gli altri che hai avuto successo o che ce l’hai fatta significa che stai soffrendo: ma non stai interpretando il dolore, stai interpretando il tentativo di nasconderlo.
Io e Brady comunicavamo a modo nostro, lui spesso mi incoraggiava anche a spingermi oltre, ma non ne parlavamo mai troppo. Le nostre conversazioni riguardavano più che altro lo stile del film, il tono, l’aspetto e i ritmi, così che potessi capire il mondo in cui mi trovavo. Una volta dentro, Brady mi ha dato molta libertà, dicendomi molto poco.
“Secondo me, il bisogno di convincere gli altri che hai avuto successo o che ce l’hai fatta significa che stai soffrendo”
C’è una battuta che mi ha colpita molto, ovvero: “I sogni svaniscono”. Trovo sia più di una semplice battuta in effetti. Penso che descriva perfettamente l’intera storia e sembra anche rappresentare un tema ricorrente. Qual è, secondo te, il significato di questa frase nel contesto del film e come riflette la narrazione più ampia o il percorso dei personaggi?
L’America, specialmente in quel periodo, era considerata un luogo pieno di infinite possibilità. Tante persone sono arrivate in questo Paese scappando da luoghi in cui erano state oppresse per le loro credenze, per la loro etnia, o per la loro storia culturale, o a causa di governi che semplicemente non concedevano la libertà. L’America sembrava un nuovo inizio, e lo è stato per molte persone. Diciamo le cose come stanno, però: i miei nonni, per esempio, quando hanno dovuto lasciare l’Italia, hanno sentito come se qualcosa fosse stato strappato via per sempre da loro, infatti mio nonno finì per trascorrere i suoi anni per metà in Italia e per metà in America una volta terminata la guerra. D’altro canto, erano grati all’America per aver dato loro rifugio in un momento di difficoltà.
Comunque, l’idea che alle porte di questo paese ci fossero ricchezza, prosperità e possibilità immediate per tutti, e che tutto era possibile a prescindere dalle tue origini, era spesso un’illusione, in particolare per gli immigrati ebrei. Arrivando in America e cercando di realizzare ambizioni straordinarie, gli immigrati ebrei si sono rapidamente scontrati con la realtà, ovvero con tutti gli ostacoli intrinseci nel tessuto della società americana.
Per me, il film parla dell’esperienza dell’immigrato, dell’esperienza di un genio artistico e di quali sono i sacrifici morali necessari per realizzare la grandezza. Brady una volta mi ha detto che l’idea del film era nata dal desiderio di raccontare la storia di un artista “fottuto” dal suo mecenate! [ride] Penso che intendesse sia metaforicamente che letteralmente.
Comunque, il film ha una sua poesia che va oltre tutto questo, che non ha bisogno di alcuna descrizione – l’esperienza di guardarlo è emotività pura anche al di là dell’ideologia alla base.
Cosa hai imparato lavorando a “The Brutalist” che porterai con te nei progetti futuri e nella tua vita?
Brady ha studiato cinema, in particolare la tradizione cinematografica europea. È nato a Phoenix, in Arizona, e sua madre è dell’Indiana, quindi è l’ultima persona che penseresti possa aver studiato la tradizione europea, e poi, da attore, lavorato con Michael Haneke, Ruben Östlund e tanti altri grandi registi. Io stesso, è stato dopo aver conosciuto sua madre che ho capito da dove è iniziato tutto, perché la madre di Brady è una donna affascinante, una francofila, lei voleva imparare a parlare francese ed è andata alla Sorbona, e quando Brady era piccolo, lei guardava film sottotitolati e lui li guardava con lei. Penso che derivi da qui la sua passione per i film d’arte europei.
Brady è un maestro di film profondi e onnicomprensivi, quindi guardarlo parlare del lato tecnico della realizzazione cinematografica e poi eseguirlo è stata una lezione incredibile per me. È stato anche molto formativo osservare la sua “frugalità” nel risolvere i problemi, considerando le limitazioni di budget che aveva, perché questo film è stato realizzato con pochi soldi, incredibile se pensiamo a che film ambizioso e grande ne sia risultato alla fine. Assistere alle decisioni che ha preso per far sì che le risorse che aveva si estendessero il più possibile è stata un’altra lezione magistrale su come si realizza un film con un piccolo budget.
Tutti sappiamo che nei grandi film di Hollywood si fanno mille ciak per ogni scena, un milione di setup di cui la maggior parte poi finisce nel cestino, oppure al contrario ne si usano troppi, ci sono troppe riprese in una sola scena, troppe inquadrature. I film come “The Brutalist” sono molto più selettivi per quanto riguarda le riprese – penso che Brady avesse già in mente come tagliare la maggior parte delle scene e come montarle prima ancora che le girassimo, quindi avevamo pochissimi setup e inquadrature, scelti con molta cura, per mettere in scena la storia che voleva raccontare.
Tutti i grandi filmmaker lavorano così, con una selezione di riprese molto specifica in mente che hanno elaborato prima di cominciare le riprese, e permettono agli attori di essere vivi sul set e di adattare le proprie idee su come vogliono girare la scena in base a ciò che deve organicamente accadere dal punto di vista delle performance.
Brady, più di chiunque altro con cui ho lavorato, è stato in grado di fare di più con meno risorse.
Comunque, congratulazioni anche per “The Room Next Door”! Com’è stata la preparazione del personaggio in questo delicato dramma? E qual è stata la tua esperienza sul set con Almodóvar al suo primo film in lingua inglese?
È stato davvero interessante! Il mio è un ruolo piccolo ma molto importante e arriva proprio alla fine del film – la scena è tra me e Julienne Moore, ed è un lungo interrogatorio, pieno di tensione.
Era solo un piccolo cameo, ma avrei fatto qualsiasi cosa per lavorare con Almodóvar, perché è una leggenda. Anche se si trattava di una sola scena, lui l’ha presa molto seriamente. Interpreto un poliziotto di New York, anche se abbiamo girato a Madrid, e lui mi ha fatto andare lì in Spagna un mese prima di girare, per un’intera settimana. Abbiamo dedicato diversi giorni alle prove costume e a conversazioni dettagliate su ogni battuta, e Julienne ed io abbiamo provato la scena per un paio di giorni. L’estrema attenzione di Pedro ai dettagli e all’intenzione di ogni singola parola in ogni momento all’interno della scena mi hanno colpito: lui lavora con una tale minuzia.
Temevo che l’esperienza sul set sarebbe stata frustrante, perché ero convinto che sarei stato fermato in continuazione e che lui avrebbe voluto correggere la mia inflessione o la mia gestualità. Invece, dopo tutta quella preparazione, quando abbiamo girato, ha fatto un unico ciak! Non mi era mai successo in vita mia. E non ha detto nulla se non: “Sì, molto bene!” [ride].
È stato sorprendente che l’attenzione minuziosa alle fasi di preparazione servisse affinché la scena si svolgesse senza che lui dovesse controllarla più di tanto. È stato un processo molto speciale.
Per quanto riguarda la mia performance e preparazione personale, la sfida era che i mondi che Pedro crea sono molto stilizzati ed esistono al di fuori delle dimensioni di un tempo e di un luogo specifici. Naturalmente, questo film è ambientato a New York e ci sono inquadrature che lo stabiliscono chiaramente, ma è un mondo che è davvero una fantasia, che va oltre le specifiche di quel tempo e di quel luogo. Quindi, la sfida nel creare il personaggio è stata, da un lato, trasmettere chiaramente chi è, da dove viene e qual è il suo passato.
“L’estrema attenzione di Pedro ai dettagli e all’intenzione di ogni singola parola in ogni momento all’interno della scena mi hanno colpito”
Interpretando personaggi diversi di volta in volta, finisci per passare molto tempo con te stesso, esplorandoti, testandoti e conoscendoti sempre di più. Qual è l’ultima cosa che hai imparato su te stesso attraverso il tuo lavoro?
Che domanda difficile! Suppongo che gli attori debbano costantemente cercare di capire qual è la differenza tra come ti senti quando ti stai esibendo e ciò che viene trasmesso sullo schermo, che spesso sono due cose molto diverse tra loro.
Io comunque odio guardarmi nei film, ci sono film che ho fatto ma che non ho mai visto, però è proprio quando capisci cosa stai trasmettendo con la tua recitazione, qual è la tua energia, o come il pubblico si relaziona a te, sei improvvisamente un anno più grande, e sei qualcuno di completamente diverso, e ciò che viene trasmesso sullo schermo è ancora una volta qualcosa di completamente diverso da ciò che capisci di te stesso. Quindi, è come se il tuo crescere sia sempre un passo avanti rispetto alla tua percezione di te stesso. Suppongo che sarà così per il resto della mia vita!
Photos by Johnny Carrano.
Location: JW Marriott Venice Resort & Spa.