Quando vedi qualcosa di nuovo, non puoi fare a meno di fermarti a guardarlo. E, se sei abbastanza furbo da interessarti, approfondisci ancora di più. E a volte scopri che ciò in cui ti sei scontrato è semplicemente geniale.
A me è successo con Heloola: bookclub, community e portale in cui ritrovare la voglia di leggere o semplicemente per farlo in compagnia di altre persone che condividono le stesse passioni o per aprire dialoghi che fanno bene.
Heloola è stato fondato da Giada e Alice Cancellario che hanno deciso di “mollare tutto” per applicare qui in Italia una formula di bookclub che è più simile all’intrattenimento, un luogo sempre pervaso dalle emozioni. Una “startup che fa in modo che leggere sia qualcosa che ti piaccia”, come si definiscono le stesse founder.
Noi le abbiamo incontrate e insieme abbiamo chiacchierato di prossimi libri da leggere, attese che ci portano al 2024, i libri che fanno bene alla mente, personaggi dalle mille sfaccettature e autrici meravigliose che possono anche diventare amiche.
In un mondo in cui forse quello che facciamo è difficile da far comprendere fino in fondo e con tantissima strada che si ha ancora voglia di fare, Alice e Giada hanno solo un tatuaggio in mente: “It’s for the plot”.
A proposito di inizi: voi in che momento avete capito che Heloola era quello che volevate fare?
A: In realtà non c’è stato un momento specifico, sai uno di quelli in cui hai la strada tracciata e dici, “Okay ho deciso che devo farlo”. È stato super graduale e anche una cosa che mi ha molto sorpresa, ovvero il fatto che in nessun momento io mi sono detta, “Okay oggi è il giorno in cui mi dimetto dal mio lavoro corporate e faccio Heloola”. Per molto più tempo di quanto avrei voluto, anzi, sono stata con un piede in due scarpe, e poi ad un certo punto la decisione di andare all-in su Heloola è subentrata anche per una questione di energia e calendari. All’epoca, io lavoravo in Tik Tok, che era estremamente impegnativo, e Heloola lo era altrettanto, quindi mentre per una fase della mia vita sono riuscita a fare una cosa di giorno e un’altra di sera, a quei tempi dovevo fare di giorno e di sera tutt’e due le cose.
Per me è partito tutto da qui, dall’esigenza di lasciar andare una delle due cose. Sicuramente non me la sentivo di lasciar andare Heloola, perché lo vedevo e lo vedo ancora su una rampa di lancio, nel senso che non credo che siamo ancora arrivati dove saremo, ma sento delle energie positive che mi fanno pensare che la direzione è giusta.
G: Per me è stato un po’ diverso perché facevo un altro tipo di lavoro, e quindi inizialmente Heloola mi è servito come valvola di sfogo, come qualcosa da fare che mi appagasse, che mi piacesse e in cui io credessi, cosa che il mio precedente lavoro non era. Ma non perché io abbia scelto di fare un lavoro in cui non credevo, ma perché ovviamente quando ti imbarchi in qualcosa, non sai come sarà, quindi nella mia testa era molto diverso. Dopo vari tentativi, mi sono detta che dovevo prendere in mano la mia vita. Fondando Heloola, mi sono resa conto che imparavo di più in quel modo che in ufficio, e ho anche notato come il Covid abbia anche avuto un grande impatto, nel mio caso, perché allora ho iniziato a domandarmi: “Che sto facendo?”. Dopo 6 mesi dalle mie dimissioni, abbiamo avviato l’acceleratore, il che ci ha fatto vedere Heloola come non solo un escape dal nostro lavoro e un piano B, ma come una realtà concreta. È stato allora che anche Alice ha detto: “Okay, o lo facciamo o non lo facciamo”.
Alla fine, bisogna darsi, il che non significa però non avere paura.
A: Anzi, hai un sacco di paura, però quello che non ti dicono e che non ti insegnano è che non arriverà il giorno in cui non sarà spaventoso, in cui penserai di poterti permettere di mollare un tuo ipotetico altro lavoro. Se tu credi che ne valga la pena, molli e vivi un periodo in cui sentirai l’ansia ogni giorno e poi pian piano capisci che anche l’ansia può essere rimpiazzata da sensazioni molto belle, da grandi soddisfazioni.
G: Poi, se un lavoro ti piace alla fine sei disposto a fare un sacrificio. I sacrifici che stiamo facendo noi nell’ultimo anno io non li farei mai per un’azienda, eppure sono dei gran sacrifici, perché noi non abbiamo una vita [ride], però amiamo quello che facciamo e quindi quello è la nostra vita, per cui andiamo a dormire serene. Invece, quando facevo l’altro lavoro mi rendevo conto che tutto il tempo che stavo passando al lavoro per me non era tempo di vita, quindi quando poi quel tempo diventa tanto, allora inizi a farti certe domande. Questa è una cosa generazionale, tutti noi millennial non siamo stati cresciuti con il mindset di credere “puoi fare quello che ti piace”, anzi, più è noioso quello che fai e più è legittimato come importante.
A: Questa cosa capita anche nel mondo startup. Il fatto di raccontare un progetto come Heloola, che è un progetto che coinvolge anche la sfera emotiva delle persone, per dire che noi scegliamo dei libri con l’obiettivo di fare in modo che le persone se ne innamorino, e sono libri che io amo. Io piango durante le interviste con le autrici, perché io in primis sono coinvolta, ma automaticamente questa cosa non viene considerata un lavoro, perché è divertente, bello, non noioso: c’è questa associazione istantanea tra una cosa terrificante e il tuo lavoro, e invece tutto il resto della vita è ciò che deve essere divertente.
Dal semplice concetto del book club che è una cosa che esiste da sempre, è nato in questi ultimi anni il fenomeno del “BookTok” o del “Bookstagram”. Quant’è stato importante per voi questo cambiamento? L’avete sentito mentre crescevate o è stata una cosa più naturale?
A: Io penso che in Italia noi siamo state un po’ artefici di questo cambiamento, nel senso che noi non abbiamo scoperto l’acqua calda e nemmeno la luna, ma abbiamo preso un modello di comunicazione che apparteneva ad un altro settore dell’intrattenimento, in cui io lavoravo tra l’altro, motivo per cui c’è stata questa connessione, o un modello comunque molto diffuso all’estero, e abbiamo deciso di applicarlo in un settore non industrial che in Italia non funzionava così. Abbiamo iniziato in maniera molto artigianale, ma sempre con un approccio professionale, quando abbiamo aperto le pagine Instagram nel 2019.
Non abbiamo mai avuto l’approccio individuale rispetto ai nostri libri che sono sul nostro comodino. Fin da quando abbiamo aperto Heloola, è sempre stata una pianificazione pensata con le altre persone in mente e non con i miei libri preferiti. Poi, incidentalmente le due cose combaciano, perché spesso, quando un libro piace moltissimo a noi, piace moltissimo anche alle altre persone. Questo perché da subito Heloola l’abbiamo impostato come qualcosa per gli altri più che per noi e piano piano ci siamo rese conto che funzionava. Non siamo state le uniche a renderci conto di questo, ma tutto l’ecosistema ha iniziato a vedere in quello che stiamo facendo noi una novità propagatrice di entusiasmi generali.
G: Abbiamo riconosciuto il nostro impatto nel modo di comunicare, e ce lo dicono soprattutto gli editori. Questi ultimi hanno iniziato a vedere questo modo di comunicare come un qualcosa di più ufficiale/professionale.
Assolutamente. Io, in maniera spontanea, vi ho spesso descritte come “le uniche persone che in Italia sono riuscite a far funzionare questa impresa”.
G: Infatti, quando abbiamo iniziato a collaborare con gli editori, loro erano anche un po’ spaesati, perché noi, venendo entrambe dal corporate, vedevamo questa cosa proprio come un lavoro; io, in particolare, vedevo l’editore come mio cliente, in quei momenti, quindi eravamo molto concrete nel presentare le nostre intenzioni, a livello di obiettivi, a livello di budget, e a loro questo atteggiamento è piaciuto. Era una novità, così come il fatto che noi non ci facciamo mai dire di quale libro parlare. In generale, sui social, è diffuso il tema dell’adv, dei prodotti regalati, di quelli per cui si riceve un compenso, ma se io ho un’etica, davvero mi faccio pagare per qualcosa in cui credo e, soprattutto, per dire “sto leggendo questo libro”? No, lo faccio per creare dei contenuti, uno storytelling, un percorso, e il fatto che io abbia la fortuna di fare qualcosa che amo è un plus.
Il problema è che spesso si tende a credere che “ci facciamo pagare per leggere un libro che ci piace”: ma non si tratta di lettura, è tutto quello che viene dopo!
“Fin da quando abbiamo aperto Heloola, è sempre stata una pianificazione pensata con le altre persone in mente”
È tutto il lavoro che fate anche a livello di interviste, è un’experience.
A: Ecco, un altro modo in cui ci piace descrivere Heloola è: la startup che fa in modo che leggere sia qualcosa che ti piaccia.
C’è un grande stigma intorno ai libri, ci sono due grandi gironi che secondo me sono entrambi gironi dell’inferno: uno per cui leggere ti identifica come persona intellettuale, quindi sei un grande perché leggi, qualunque cosa tu stia leggendo, e soprattutto se leggi un certo tipo di classici della letteratura, e qui rientra anche il modo un cui ne parli, perché in questi casi fai una sorta di gatekeeping, non sei contento di condividere questa cosa perché non pensi sia per tutti, è tua e tu sei su un piedistallo che gli altri non possono raggiungere. Poi, c’è l’altra fascia che è quella che include la letteratura bassa, è lì vige questo conflitto tra cose di serie A e cose di serie B, che molti dicono non possano essere etichettate in questo modo. Invece si che si può fare, soprattutto nella letteratura, dove è abbastanza evidente quando sei di alto livello e quando non lo sei. Per noi è anche molto difficile trovarci nel mezzo, perché noi facciamo qualcosa che è figo, e i libri che scegliamo sono fighi: non ti annoiano, non devi avere una laurea in lettere per capirli, non ti serve un’esperienza pregressa di letteratura, ma allo stesso tempo non sono libri di basso livello. Spesso, quando raccontiamo che proponiamo letteratura in maniera pop, e qualcuno vuole proporci dei libri, nessuno nomina Sally Rooney, cosa che andrebbe fatta, ma nominano altre cose, che non sono letteratura pop, ma sono semplicemente libri brutti.
G: Questo secondo me perché è molto difficile, motivo per cui è nato Heloola, trovare l’entusiasmo. Le conversazioni che abbiamo avuto con te oggi sui libri che abbiamo letto non erano dovute al fatto di voler ostentare di aver letto una cosa piuttosto che un’altra, ma sono state conversazioni naturali e belle e appaganti, e se ci pensi fino a qualche anno fa non era così. Io racconto sempre questa storia di Formentera, in cui eravamo in spiaggia a leggere dei libri “da spiaggia” – io stavo leggendo “Big Little Lies” e Alice “Il buoio oltre la siepe” (non molto da spiaggia questo) – e si avvicina un ragazzo, il classico PR della discoteca che voleva invitarci ad una serata, e ci fa: “Ragazze, qui non si legge, siamo Formentera!”. Questo ti fa capire che leggere non è visto come un’attività di intrattenimento in vacanza, ma sempre come qualcosa di imposto, che quindi “non fai a Formentera, in spiaggia”. La nostra idea è proprio far arrivare il giorno in cui arrivi a Formentera in spiaggia, portarti dietro una valigia di libri e goderteli.
C’è stato un momento, magari anche con le autrici che intervistate, particolarmente gratificante, in cui vi siete emozionate?
G: Uno di questi momenti è stato ieri sera, ma anche con Emma Straub. Io l’ho amata tantissimo, e ho amato il suo libro, “Domani a quest’ora”, perché mi ha resa un po’ diversa, soprattutto nei confronti di mio padre, mi ha fatto capire l’importanza di godersi tutti i momenti della vita. Tra l’altro, lei, quando l’abbiamo intervistata aveva da poco perso il padre; quindi, noi eravamo impaurite e non sapevamo se affrontare l’argomento o meno, perché il romanzo è anche un po’ autobiografico, ma lei è stata super aperta con noi, le abbiamo fatto anche più domande di quelle che avevamo previsto. Poi, addirittura, lei ha scritto un articolo su di noi pubblicandolo sulla sua newsletter e blog, e ieri mi ha anche fatto gli auguri del compleanno! Davvero una bellissima esperienza.
L’altro incontro indimenticabile è avvenuto ieri sera, ma te lo racconta Alice, perché è stato un momento fortemente voluto da lei.
A: Allora, il libro di questo mese si chiama “Segnali di fuoco”, di un’autrice che si chiama Dani Shapiro e che è una persona fantastica. Noi, come sempre, ci abbiamo fatto una chiacchierata per il libro che pubblicheremo su Heloola, e come ultima domanda, che facciamo sempre agli autori ogni volta che li intervistiamo, le chiediamo di consigliare dei libri che siano un po’ in vibe con quello che hanno scritto loro, ma che gli siano anche particolarmente piaciuti, tra gli ultimi che hanno letto. Lei ci ha consigliato un libro che si chiama “Fellowship Point” di Alice Elliott Dark, che era stato il nostro libro di dicembre. A quel punto io sono impazzita e le ho detto che aveva esattamente indovinato il gusto, e anche io tra l’altro ci avevo visto cose in comune tra quel libro e quello di Dani, nonostante non parlino assolutamente della stessa cosa, ma qualcosa c’è. A quel punto Dani ci ha spiegato quando avesse amato quel libro e io le ho detto:
“Ma perché non facciamo una chiacchiera con l’autrice di questo libro?”.
Ci ha raccontato di essersi scambiata con Alice Elliott Dark delle “lettere d’amore” ma di non averla mai incontrata di persona. Allora, una volta tornata a casa, ho scritto un’email a Alice e una a Dani ed è finita che ieri sera abbiamo fatto più di un’ora di conversazione con loro due che parlavano tra loro dei rispettivi libri (entrambi stati nostri book del mese).
G: Devo confessare che io, quando abbiamo intervistato Alice Elliott Dark, non sono riuscita a farle alcune domande perché piangevo troppo.
A: Questa cosa di scoppiare a piangere sta andando fuori controllo [ride].
Vi capisco, perché spesso durante le interviste emergono alcune tue cose personali che si allineano con quello che l’interlocutore ti dice, e lì è facile crollare. Però è bello quando c’è una connessione, quando l’altro ti capisce.
G: Ecco, con Alice Elliott Dark è stato così, io in particolare mi sono troppo identificata in uno dei personaggi del suo libro, che tra l’altro ha 80 anni e l’autrice sostiene essere ispirato a Gesù [ride]. Ad ogni modo, con lei ero emozionata, perché immaginavo che lei fosse questo personaggio di cui parlo, che nel libro fa la scrittrice ed è una persona che all’apparenza sembra un po’ ruvida, ma invece è una tenerina. Invece, con Dani Shapiro ero iper preparata, mi sono detta che non avrei pianto, ma il fatto è che a farti piangere spesso sono le cose che gli autori ti dicono e per quello non ti puoi preparare.
A: Questa conversazione che abbiamo fatto ieri per me è stata proprio un momento magico, arrivato anche in una fase un po’ complicata, di difficoltà e di stanchezza, di Heloola, perché abbiamo veramente messo sul tavolo tantissime cose ma siamo un team molto piccolo, quindi spesso ci sono giornate in cui i libri sono l’ultima cosa a cui pensiamo. Quindi, quando poi ti ritrovi alle 9 di sera con due autrici americane molto famose che si conoscono per la prima volta grazie a te e dialogano tra loro e si emozionano, è una soddisfazione che va oltre qualsiasi altra cosa.
“Il fatto è che a farti piangere spesso sono le cose che gli autori ti dicono e per quello non ti puoi preparare”.
Siete donne, imprenditrici, parlate spesso di donne, sia come protagoniste di libri sia come autrici. Quali sono le storie di donne delle quali vi piacerebbe sempre di più parlare e come vi piacerebbe che fosse raccontata la vostra storia?
A: Noi diciamo sempre che dobbiamo scrivere un memoir! [ride]
Abbiamo un mantra, con cui in teoria vorremmo farci un tatuaggio un giorno: “For the plot”. Per chiarezza, dobbiamo ammettere che l’abbiamo visto a caso su Tik Tok pochi giorni prima del lancio del sito: in questo video, una ragazza diceva “se le cose vanno bene, perfetto, se vanno male, it’s for the plot”. Aggiungi dettagli alla storia della tua vita, perché se pensi anche ai film, non n’è uno in cui va tutto bene, la trama è sempre intricata ed emozionante! A noi piace essere d’ispirazione, perché noi stesse non sempre abbiamo avuto delle ispirazioni giuste così reali, le nostre ispirazioni sono sempre state molto lontane da noi o molto alte o molto fictional.
Tramite i libri, voi parlate anche di salute mentale, che per me e per noi è una cosa importantissima; infatti un paio di anni fa, con le prime interviste a Carlotta Vagnoli e Daniela Collu abbiamo lanciato un format di salute mentale su The Italian Rêve, perché era un argomento che finivo sempre per affrontare con tutti, soprattutto con le persone con cui si creava una connessione. Però, ho sentito anche il bisogno – il che è una cosa triste, da un certo punto di vista – di creare un “format” per far sì che di questo tema si parli sempre di più, per evidenziarlo un po’ di più. È stato bellissimo, perché ci sono state persone che sono venute a dirci delle cose veramente belle, magari che si sono sentite aiutate dalle nostre chiacchierate. Però è un po’ triste che ancora oggi ci sia il bisogno di etichettare qualcosa per farla emergere. Per voi, è importante parlare sempre di più di salute mentale? Ci sono dei libri che parlano benissimo di questo argomento, secondo voi?
G: Secondo me, assolutamente sì. Ne parlavamo giusto ieri con Alice Elliot Dark e Dani Shapiro. Io, che sono in terapia da ormai due anni e mezzo, credo che leggere e parlare dei libri sia l’esperienza più vicina alla terapia che esista. Non è ovviamente la stessa cosa, ma se non puoi permetterti la psicoterapia oppure anche se vai già in terapia, in realtà, la lettura può essere un valido aiuto, perché nei libri ritrovo molto di quello che vivo in terapia.
A: Per me, è anche e soprattutto una quesitone di punti di vista. Secondo me, l’elemento chiave del nostro book club è nella scelta dei libri e del modo in cui ne parliamo. A noi piace l’idea che la stessa storia, da più angolazioni, assuma delle forme diverse e questa cosa ci succede ogni mese al book club. Noi arriviamo che abbiamo già parlato del libro con l’autore o l’editore, che ne abbiamo parlato tra di noi e sviscerato la storia in precedenza, e lì scopriamo cose che non avevamo colto, perché ognuno analizza le storie attraverso la propria, e con i filtri della propria esperienza e del proprio vissuto personale.
G: Secondo me molti dei nostri libri sono character-driven, magari non hanno chissà che trama ma hanno dei personaggi fortissimi, e quando sono scritti bene, ti fanno davvero riflettere. Spesso questi libri sono scritti sulla base di esperienze dirette degli autori e autrici, che si mettono molto in gioco. Per esempio adesso Alice sta leggendo “Friendaholic” di Elizabeth Day.
A: Sì, è un libro bellissimo, un’autobiografia che racconta la storia delle amicizie dell’autrice, sia perché lei ritiene che non si dia abbastanza spazio all’amicizia e fin troppo all’amore, quando in realtà sono entrambi due aspetti molto complessi della nostra vita. Quindi, vale la pena approfondire le dinamiche anche delle relazioni di amicizia, e non solo di quelle amorose. In ciascun capitolo, lei racconta la storia di una sua amicizia, analizzando anche in che fase della vita è successa e come mai ha reagito in un certo modo, e sono sicura che questo libro sia frutto di anni di terapia.
G: Poi secondo me sono molto più terapeutici i libri scritti con quell’obiettivo, che i libri-manuali, gli “how-to”.
Mi viene in mente un’intervista che ho fatto recentemente, e questa persona mi parlava di “Una vita come tante”, dicendomi che grazie a quel libro aveva ricominciato ad andare in terapia. Un esempio di come il potere dei libri sia incredibile.
G: A proposito di “Una vita come tante”, in quel libro viene descritto in maniera perfetta lo stato di una persona traumatizzata. Così come Eleanor Oliphant di “Eleanor Oliphant sta benissimo”: per me, lei e Jude hanno un sacco di cose in comune. Certo, non hanno vissuto lo stesso tipo di trauma, ma il fatto di avere una vita diversa da quella che hanno gli altri li accomuna di sicuro, con la differenza che Jude in età adulta ha la fortuna di essere sempre circondato da amore, mentre Eleanor no. Quando Eleanor scopre che cos’è la normalità, prova quasi un discomfort, perché non è abituata, che forse è un po’ la stessa cosa che accade a Jude quando va all’università e scopre cosa significa avere degli amici e stare intorno a delle persone in modo normale. Sempre su questo tema, anche “L’opposto di me stessa” è molto bello, di Meg Mason, che è stata anche ospite di una puntata del podcast “How to Fail” di Elizabeth Day.
A: Uno dei libri che affronta il tema della depressione, di cui ho sentito parlare meglio, è “La vita invisibile di Addie LaRue” di Victoria Schwab, in cui uno dei personaggi protagonisti ha un rapporto molto faticoso con sé stesso. Ci sono una trentina di pagine di monologo interiore di questo personaggio, in uno dei momenti più bassi della sua vita, che secondo me descrive alla perfezione come si sente una persona che ha degli scompensi emotivi importanti.
Il libro sul vostro comodino in questo momento?
G: Io sto leggendo “Romantic Comedy” di Curtis Sittenfeld. L’ho comprato a Londra, non so se mai uscirà in Italia.
A: Io sto leggendo quattro libri [ride]. Di questi quattro posso svelarne solo uno, che è “Friendaholic” di Elizabeth Day.
C’è un libro che vi ripromettete sempre di leggere ma non iniziate mai?
G: Per me fino a poco tempo fa era proprio “Una vita come tante”, ma ce ne sono tantissimi. Poi, ho sul comodino da tantissimi mesi “I nostri cuori perduti” di Celeste Ng, ma poi si sono incastrate una serie di letture di “libri del mese” e quindi è rimasto lì chiuso.
A: Per me è “Hell Bent”, il seguito de “La Nona Casa” di Leigh Bardugo. L’ho comprato il giorno che è uscito, ero gasatissima, ho fatto la fila in libreria, lo aspettavo da tre anni… Però, è ancora lì, non l’ho ancora letto.
Invece, il prossimo libro che vorreste vedere adattato in film o serie tv?
A: “Cleopatra and Frankenstein”, di cui so che hanno comprato i diritti, lo sta adattando Universal, credo come serie tv. Secondo me si presta tantissimo, perché è proprio un romanzo corale, in cui ogni capitolo è dedicato ad un personaggio diverso, e tutti sono personaggi che gravitano intorno ad una coppia in cui lei ha 24 anni ed è britannica e lui ne ha 42 e fa l’executive nell’advertising a New York e si sposano dopo essersi conosciuti una settimana prima, e da qui ovviamente scaturiscono una serie di riflessioni sulla vita, su di loro, su che cosa vogliono fare, sul loro futuro e sui loro amici.
G: Anche di “Eleanor Oliphant sta benissimo” sono anni che hanno comprato i diritti e mi pare abbiano anche trovato il regista, che dovrebbe lo stesso di “Fleabag”. Poi anche “Domani a quest’ora” di Emma Straub sarà adattato in una serie, e proprio durante la nostra intervista Dani Shapiro ci ha detto che sta lavorando al pilot della serie tv.
A: Tra poco esce il film tratto dal romanzo “Eileen” di Ottessa Moshfegh con Anne Hathaway e che hanno presentato al Sundance. Poi, da poco ho iniziato a guardare la serie “Le piccole cose della vita” tratto dal libro omonimo di Cheryl Strayed e l’ho trovato bellissimo.
Tramite i libri voi parlate anche di cosa possa voler dire stare bene con sé stessi. Per voi cosa significa sentirsi a proprio agio nella vostra pelle?
G: Io sto facendo un grande lavoro di accettazione di me, che è ancora in corso. Secondo me, significa non volere troppo. È qualcosa che sto interiorizzando negli ultimi tempi. A volte siamo bombardati su ogni fronte da persone che nel proprio sono il top, quella che legge sempre, quella che si allena sempre, la business woman… Noi, però, oggettivamente, non possiamo fare tutto, cosa che io vivo con un grande senso di colpa, molto spesso, perché in questo periodo sto mettendo da parte tante cose per il lavoro. Poi, però, quando penso al motivo per cui sto mettendo da parte tante cose, che magari a volte mi farebbero sentire bene se le facessi, come allenarmi, mi rendo conto che mi sento un unicum, ho senso nel complesso. Se riusciamo ad uscire da noi e a guardarci dall’esterno, ha senso, ma il problema è che quando siamo troppo in noi entriamo in crisi di identità, ci spezzettiamo e pensiamo a tutte le cose che non vanno e che non funzionano, e mai al complessivo e a tutte le cose fighe che facciamo.
A: Io faccio molta fatica a sentirmi a mio agio nella mia pelle, però il fatto di dover essere immagine di qualcosa in cui credo mi stimola a cercare di essere la migliore versione possibile di me. Io sono anche la faccia di Heloola e ho un’idea di Heloola che passa attraverso me, per cui provo ad allinearmi a quello che penso possa essere di ispirazione per chi ci segue e soprattutto di rappresentare al meglio quello che c’è dietro e farlo attraverso di me. Dico questo perché io faccio anche Tik Tok, nonostante io non sia una persona che naturalmente si sente serena a stare davanti ad una telecamera, non mi piace e non mi sento a mio agio, ma devo farlo perché fa parte del gioco e perché è un modo di comunicare, però per me è difficile, perché io mi faccio i video, me li monto, me li guardo, mi analizzo tutto il tempo e quindi sono costantemente bombardata dalla mia faccia. Spesso abbiamo fatto delle sponsorizzazioni su Instagram di video miei, con milioni di views su un video di 15 secondi in cui io dico qualcosa con la mia faccia ripresa a casa mia, e questo è complicato per una persona che non ha un rapporto completamente pacifico con sé stessa. Però, mi metto in gioco, nonostante tutto, quindi non è un limite, ma su questo sono abbastanza self-conscious.
G: Oltre al tema estetico, c’è anche quello più generale di come viviamo la nostra vita: oggi siamo in difficoltà perché viviamo nell’era dell’onestà, in cui tutti raccontano del momento in cui qualcosa non è andato bene ma nessuno lo racconta nel momento in cui non va bene, e c’è sempre un lieto fine. Quindi, il momento del discomfort è sempre ancora stigmatizzato, e siamo in un continuo pingpong tra “siamo positivi e diamo messaggi di ottimismo” e “non diffondiamo bad vibes”, il che è molto complicato, soprattutto quando fai qualcosa di pubblico rivolgendoti agli altri, quando sei in un contesto in cui condividi le tue giornate con tante persone e hai dei momenti no, ti chiedi se è giusto condividere il momento no; ma sicuramente, raccontando il momento no, si scopre che tante persone hanno vissuto o stanno vivendo qualcosa di simile, e confrontandoci, stiamo meglio, facciamo un passo avanti. Però, viene anche il dubbio di poter essere quella che “ha rotto il vibe”. Le nostre giornate sono scandite da questo pingpong.
“Il problema è che quando siamo troppo in noi entriamo in crisi di identità, ci spezzettiamo e pensiamo a tutte le cose che non vanno e che non funzionano, e mai al complessivo e a tutte le cose fighe che facciamo”.
Qual è la vostra isola felice?
A: Il pub [ride]. Il mio fidanzato ama molto i pub e questo è anche stata la nostra prima conversazione, la prima cosa di cui abbiamo parlato sono stati i pub, condividendo un entusiasmo verso l’Inghilterra. Quindi, io adesso associo i pub a dei momenti felici, perché un pub non è il bar, che ti dà quel senso di esclusività, di dress code e drink, il pub accoglie tutti ed è più pomeridiano, ci vai anche a mangiare e a qualsiasi ora.
G: Per me, la mia isola felice è casa mia. Io non ho chissà che casa meravigliosa, ma da quando sono andata a vivere da sola, l’ho “ricreata” in modo che mi rispecchiasse il più possibile. Mi piace l’idea di entrare in casa e sentirmi bene, perché per un po’ di tempo non è stato così, nelle mie case precedenti c’era sempre qualcosa che non mi piaceva. Quando la casa è pulita e le candele sono accese, io lì sono in pace.
Photos by Johnny Carrano.
Makeup & Hair Alice by Claudia Raia.
Makeup & Hair Giada by Sara Vircillo.
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