Un manifesto ha bisogno di portavoce.
Una rivoluzione ha bisogno di volti.
Un cambiamento ha bisogno di partire per merito di qualcuno.
In questi tempi e in questa società, se si parla di prese di posizione, o meglio, di coscienza, non lo si può fare se non in termini ambientali: per sfortuna, c’è ancora molto lavoro da fare. Per fortuna, c’è chi si sta dando da fare, soprattutto tra le nuove generazioni, consapevoli che il tanto (in termini di produzione, nella moda e non solo, di mancanza di rispetto verso i diritti dell’uomo e dell’ambiente) sia ora troppo.
Tra questi portavoce e volti del cambiare in meglio, c’è anche l’attrice Amanda Campana: dopo il successo ottenuto con la serie tv “Summertime” e la consapevolezza acquisita sul percorso da intraprendere come attrice, Amanda, come essere umano, si vuole concentrare sempre di più sul rendere il mondo un posto migliore. Con grande sensibilità, una dieta vegana, le domande (legittime) che l’eco-ansia porta con sé e le domande utili da porsi per uno shopping meditato, Amanda dimostra di avere una grande forza di volontà (più di quella che pensava di avere), desiderio di mettersi in gioco e tanta consapevolezza dell’importanza del lavorare su di sé, per se stessi ovviamente, ma anche per gli altri e per il mondo. Senza mai dimenticarsi che si lavora per vivere, e non viceversa!
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Sicuramente il giorno in cui mi hanno presa per “Summertime”, quindi quando il regista, che ai tempi della prima stagione era Lorenzo Sportiello, mi ha chiamata dopo una serie di provini. Ero andata a Roma, otto volte di fila, perché poi di provino in provino ci mescolavano, per vedere come eravamo l’una con l’altra, e non ci dicevano mai se eravamo state prese o meno, ma ci continuavano a chiamare [ride]. Io ero esaurita, ai tempi studiavo da pochissimo al YD’Actors – Yvonne D’Abbraccio Studio (la mia attuale agenzia) e non mi sentivo pronta da una parte ma dall’altra ormai mi sembrava di esserci così vicina. Non ce la facevo più ad aspettare il verdetto, ma un giorno Lorenzo mi chiama e mi dice, “Guarda, Amanda, è stato difficile, io ho anche provato a parlare con la produzione, però…” e insomma mi fa credere di non essere stata presa, finché poi alla fine dice: “E ti abbiamo presa! Sei nel cast di ‘Summertime’!”.
Quindi quello è stato il giorno in cui sono ufficialmente entrata in questo mondo, e mi fa ridere il ricordo di esserci entrata un po’ così, con uno scherzo un po’ al limite [ride].
In generale, cosa ti fa dire di sì a un progetto?
Forse l’originalità della storia. Ad esempio, quando ero stata presa per “Il mostro della cripta”, quando ho letto la sceneggiatura ho pensato, “Ma questa cosa non l’ha mai fatta nessuno, è troppo carina, la voglio fare assolutamente!”, senza ancora sapere nulla del cast o altro. Poi è andata ancora meglio di quanto mi aspettassi, tutti erano stupendi, però ciò che all’inizio mi ha fatto dire di sì è stato il fatto di aver letto la sceneggiatura e pensato che fosse molto originale.
Invece, chiuso il capitolo “Summertime”, c’è qualcosa di Sofia che ti è rimasto o che come personaggio ti ha lasciato? Qual è l’aspetto originale che ti ha colpito di lei?
Prima di “Summertime”, non avevo mai lavorato in questo ambito, quindi non sapevo cosa aspettarmi. All’inizio, non sapevo nulla del progetto, l’unica cosa che mi avevano detto era che si trattava di una produzione Netflix, è stato il fatto che fosse una serie Netflix a farmi dire assolutamente sì. Ora probabilmente valuterei un po’ meglio la situazione, ma “Summertime” è stato davvero un trampolino di lancio per me, quindi col senno di poi ho preso la decisione giusta, anche perché il mio personaggio mi ha lasciato tantissimo, e non solo come esperienza lavorativa e a livello personale, se penso alle persone che ho conosciuto, ma proprio come personaggio. Per me è stato educativo poter rappresentare un personaggio LGBT, mi ha fatta avvicinare alla comunità con un altro occhio, nel senso che prima riconoscevo un bisogno di inclusività, ma non mi ci battevo in prima persona; dopo “Summertime”, invece, sono diventata molto più consapevole, cerco di metterci del mio, sono molto più attenta: è stato un bel lavoro di empatia.
“Per me è stato educativo poter rappresentare un personaggio LGBT, mi ha fatta avvicinare alla comunità con un altro occhio…”
Che direzione vorresti dare ora al tuo percorso come attrice?
È difficile rispondere a questa domanda, perché io amo tanto il mio lavoro, non vorrei mai cambiarlo, però allo stesso tempo non riesco a fare progetti per il futuro. L’unica cosa che voglio dalla mia vita lavorativamente parlando, che poi è qualcosa che incide anche sulla qualità della vita, è il poter stare serena, poter vivere la mia vita tranquillamente. Quello che mi auguro è di poter lavorare non troppo, ma il giusto, fare cose che mi possano arricchire come persona e che non mi stressino.
Ricordo, a questo proposito, di aver letto una tua dichiarazione in cui dicevi qualcosa del tipo “si lavora per vivere e non si vive per lavorare”.
Esattamente, è la mia filosofia di vita! Ho sempre paura, quando dico questa cosa, di risultare poco ambiziosa, addirittura pigra, però per me la vita va scissa dal lavoro.
Poi, ovviamente, il lavoro può essere una parte della vita che la arricchisce, ma la vita non deve girare attorno al lavoro, perché sennò che si vive a fare?
Infatti, più che una mancanza di ambizione, questa tua affermazione denota una grande consapevolezza, nel senso che sei consapevole dell’importanza del lavoro e per questo gli dai il giusto peso e la giusta importanza, ma allo stesso tempo sei consapevole che ci sono altre cose al di fuori che hanno la stessa o addirittura più importanza del lavoro stesso. A proposito di consapevolezza, parliamo di climate change e approccio sostenibile. Le nuove generazioni si trovano a fare i conti con una problematica che, mai come oggi, è cosi sentita, e parlo di nuove generazioni perché sono le più consapevoli di questo problema, dato che, in primis, coinvolge il loro futuro. Qual è stato per te, il momento in cui hai capito di voler fare qualcosa, di voler fare di più, in questi termini?
Partendo dal presupposto che io sento sempre e comunque di non fare mai abbastanza, vorrei davvero poter fare di più, ma non c’è stato, in realtà, un giorno in cui mi sono svegliata e ho realizzato di voler cambiare le cose, penso sia stato un tipo di sensibilità che ho sempre avuto fin da piccola. Mi ricordo le liti che avevo con mia madre, quando voleva mettermi il giubbotto di montone e io non lo volevo, riconoscendo “no, perché questo è un animale”, nonostante nessuno mi avesse mai spiegato che per fare quel tipo di vestiti gli animali vengono uccisi. Dunque, penso sia più che altro una questione di sensibilità. Ovviamente, l’educazione è importantissima. Io non ne ho avuta, da quel punto di vista, anche perché sono di origine toscana, mia nonna fino all’anno scorso vendeva carne, la mia famiglia è onnivora, ma nonostante tutto ho sempre avuto questo bisogno di non ignorare la questione, che mi ha sempre toccata.
A 16 anni sono diventata vegana.
Adesso, trascorsi 10 anni, sono quasi del tutto vegana, in casa la spesa la faccio vegana, quando esco a cena magari sono un pochino più flessibile, però faccio molta attenzione. Quindi, fondamentalmente, la consapevolezza della questione climatica sotto sotto ce l’ho sempre avuta. Poi, con il tempo, ho cercato informarmi di più, di essere ancora più consapevole, magari di modificare alcuni comportamenti che io davo per scontati e invece, poi, crescendo ho riconosciuto come impattanti; mi riferisco, ad esempio, al comprare vestiti che non mi servivano ma trovavo carini e costavano poco, cosa che, informandomi, ho capito essere impattante, perché il fast-fashion è molto poco sostenibile. Cerco di rinnovarmi spesso e di continuare ad informarmi su questi temi.
“Fondamentalmente, la consapevolezza della questione climatica sotto sotto ce l’ho sempre avuta. Poi, con il tempo, ho cercato informarmi di più, di essere ancora più consapevole…”
Anche perché si tratta di un giro di informazioni che cambia sempre e per fortuna se ne parla costantemente, il che significa che per lo meno l’interesse c’è a far presente la questione. Inoltre, si è creato, complice anche la pandemia, un vero e proprio fenomeno di “eco-ansia” (soprattutto tra i giovani): in che modo la affronti?
È difficile affrontarla, perché a volte più ci provi, e leggi cose per informarti, sperando che magari possa essere meglio di quello che pensi, più realizzi che non è così e che siamo sull’orlo di un disastro. Per esempio, quest’estate mi è successa una cosa orribile: ero a Carrara con la mia famiglia e un giorno, poco dopo Ferragosto, è arrivato una specie di uragano che ha raso al suolo tutti gli alberi, e c’è stata anche qualche vittima. È stato abbastanza traumatico e dopo allora, adesso soffro veramente d’ansia perché continuo a pensare che questi fenomeni, che prima magari potevano essere rari, adesso saranno sempre più frequenti e questo mi crea angoscia, tutti i giorni, che a volte non so come affrontare. Magari scaccio il pensiero e cerco di fare il mio, che però essendo solo “il mio” a volte mi fa pensare:
che differenza posso fare io?
Indubbiamente, per contrastare il cambiamento climatico, è necessario l’intervento di grandi forze politiche e sociali, ma è anche vero che ognuno di noi nel nostro piccolo può e deve fare la sua parte affinché questa necessità diventi impellente e comune, per innescare piccole, grandi rivoluzioni personali. Quali sono i piccoli, grandi cambiamenti che hai adottato per avere uno stile di vita più sostenibile?
Nella mia vita di tutti i giorni, in realtà, non ho innescato rivoluzioni, ma ho semplicemente adottato un modo di vivere consapevole. Per me, le piccole, grandi rivoluzioni sono, più che altro, quando riesco ad avvicinare qualcuno al mio modo di vivere, alla mia consapevolezza; per esempio, una delle mie migliori amiche è diventata vegetariana, non so se davvero grazie a me, però penso di aver comunque fatto parte del suo percorso in quel senso; mio fratello, che è sempre stato un grande mangiatore di carne, adesso si è imposto il bonus mensile per mangiarla; il mio ragazzo quando è con me mangia quello che mangio io, quindi vegetariano-vegano. Queste per me sono piccole, grandi rivoluzioni, il riuscire a sensibilizzare gli altri. Per mia esperienza personale, posso dire che il metodo più aggressivo non ha mai giovato alla causa, infatti io sono sempre riuscita a spostare il pensiero delle persone semplicemente spiegando il mio punto di vista.
“Sensibilizzare gli altri”
Collegandomi, invece, a quello che hai detto prima a proposito della moda, sappiamo che quest’ultima è uno dei settori più inquinanti in assoluto e fenomeni come il fast-fashion e il greenwashing sono ormai, purtroppo, all’ordine del giorno; d’altro canto però, si nota sempre più un interesse verso il mondo del reselling, del vintage e del riutilizzo creativo di capi e accessori per creare meno sprechi. Quale consiglio daresti, basato sulla tua esperienza, per avere una visione più consapevole nella vita in generale, ma anche per quanto riguarda l’abbigliamento?
Sicuramente, penso che la prima cosa da fare sia chiedersi: ho davvero bisogno di quello che sto comprando?
Questa è la prima fondamentale domanda da porsi quando si tende a mettere compulsivamente abiti nel carrello. Succede soprattutto online, perché lì non ti rendi conto di quanto selezioni e alla fine compri la qualunque. La seconda domanda potrebbe essere: questa cosa che voglio comprare, la posso trovare usata? Io ad esempio, compro ormai quasi esclusivamente vintage, a parte alcuni pezzi che compro nuove perché magari non riesco a trovarle nella mia taglia. Il vintage di marca a volte ha dei prezzi folli, però i negozi di seconda mano o i mercatini vendono prodotti che costano poco, semplicemente dovremmo un attimo rientrare nell’ottica che se compriamo a poco prezzo probabilmente anche la manodopera è stata pagata poco, così come il materiale, quindi stiamo pagando poco ma a discapito di qualcuno o qualcos’altro; quindi, magari, conviene comprare meno e spendiamo di più, cercando un equilibrio. L’importante è comprare quello di cui effettivamente abbiamo bisogno e, tra l’altro, se così facessimo, forse il fast-fashion nemmeno esisterebbe.
Indubbiamente. A proposito, quali sono i progetti, brand o realtà sostenibili che più hai a cuore?
Come ti dicevo, compro quasi esclusivamente vintage, e oramai, se compro cose non vintage, sono per la pole dance, quindi le prendo da piccole aziende e startup che le fanno su misura, motivo per cui non mi sento nemmeno troppo in colpa a comprarle.
Sicuramente, Gilberto Calzolari, i cui capi sono quelli che ho indossato per questo shooting, è uno stilista bravissimo che ho conosciuto in occasione della Mostra del Cinema di Venezia: ero alla ricerca dell’outfit perfetto e sono andata da lui in showroom e mi è piaciuto da morire, sia lui come politica e sensibilità che, ovviamente, come stile.
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te?
Di cose su sé stessi in genere se ne scoprono un po’ tutti i giorni. Di cose proprio importanti, ho scoperto di avere più forza di volontà di quanto pensassi, e me ne sono accorta con lo sport che ho iniziato a praticare da circa un anno, la pole dance, che mi ha fatto rendere conto di quanta forza in generale io abbia, sia fisica che mentale, mi sono riscoperta più forte di quanto credessi. È stata una bella scoperta, nel senso che mi ha aiutata tanto, insieme al percorso che sto anche affrontando. Ad ogni modo, la pole dance è stata, se non la terapia principale, un aiuto equivalente alla terapia psicologica.
“Ho scoperto di avere più forza di volontà di quanto pensassi, e me ne sono accorta con lo sport che ho iniziato a praticare da circa un anno, la pole dance…”
Infatti, sulla didascalia di uno dei tuoi post di Instagram hai scritto: “Da quando faccio pole, mi amo di più”: anche considerando questo tuo lato sportivo così forte, che cosa significa, per te, sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
È un concetto difficile, nel senso che non è un sentimento continuativo, è una cosa abbastanza altalenante. Però, ho imparato che sentirmi a mio agio nella mia pelle è fondamentalmente una cosa che va scissa dall’aspetto estetico: non è sentirmi a mio agio con la mia estetica, ma è un sentirmi nel pieno controllo del mio corpo, sentirmi in forze e sana nel mio corpo.
Una consapevolezza forse difficile da raggiungere…
Sì, infatti per questo non è un sentimento continuativo, è proprio una montagna russa, però devo dire che ogni tanto l’oscillazione può essere un po’ meno drastica.
Tu utilizzi anche i social per parlare anche di body neutrality: come ti approcci a questo tema in un mondo, come quello dei social appunto, che tra i concetti di apparire e mostrare, sembra quasi amplificare in qualche modo le paure legate alla consapevolezza di sé?
Devo dire che il mio rapporto coi social è strano, nel senso che da una parte non ho più voglia di usarli proprio per questo motivo, perché c’è tanta volontà di apparire per forza in un determinato modo. A volte sui social si trovano anche messaggi molto sbagliati, che spesso non vengono nemmeno lanciati in modo consapevole, volontario, ma sui social veniamo bombardati da informazioni che a volte, anche se non ce ne rendiamo conto, a livello inconscio ci fanno del male. Per questo motivo, cerco di starci il meno possibile e di seguire quasi solo ed esclusivamente cose che mi alleggeriscono o mi arricchiscono – per esempio, pagine di canini e gattini [ride], o di informazione, pagine scientifiche. Dai social ho imparato tantissimo sulla sostenibilità, seguo tante pole dancer, quindi per me è una continua ispirazione, e secondo me, i social dovrebbero servire a quello.
Sui social quasi mi sento in dovere (ma è anche un piacere per me) di cercare di mandare messaggi positivi. Quando pubblico un video dove faccio pole dance, mi piace far vedere i miei progressi, e non per mostrare quanto sono brava, ma perché spesso e volentieri quando trovo ragazze sui social che fanno qualcosa, e magari l’hanno iniziata da poco, mi stimola pensare che non si nasce tutti bravi e che c’è comunque un percorso dietro, ed è piacevole riconoscerlo anche negli altri. Poi, quando faccio i video io, è uno dei pochi momenti in cui non me ne frega niente se ho la pancia gonfia, la cellulite, o una postura che non mi piace: quando pubblico un video in cui faccio pole dance, mi piace che si veda l’esecuzione, il miglioramento, il progresso, l’impegno, quelle cose non le guardo neanche più perché non mi interessano più.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Non vorrei passasse il messaggio del “ci vuole molto coraggio, è una cosa difficile”, però nel mio caso per me è stata iniziare un percorso con una psicologa. All’inizio, avevo paura di iniziarlo, non perché non credessi nella psicoterapia; infatti, già anni fa avevo fatto un percorso terapeutico, ma semplicemente era un periodo in cui non stavo bene e facevo fatica ad aprirmi, avevo paura che aprendomi si scoperchiasse il vaso di Pandora. Poi, grazie ad una persona che si chiama Martina, la mia prima insegnante di pole dance, ho scoperto di avere il coraggio di prendere in mano la situazione e dire “no, okay, adesso lavoro su me stessa, adesso inizio un percorso e mi faccio del bene”. Quello per me è stato un atto di coraggio.
“Adesso lavoro su me stessa”
Di cosa hai paura invece?
Di tantissime cose! [ride] Ogni giorno riesco a sviluppare nuove fobie. Specialmente in questo clima di elezioni fresche, l’ansia è alle stelle, perché penso che torneremo nel Medioevo, ci verrà negato il diritto all’aborto, ecc.
Una delle mie paure più ricorrenti è che un giorno io desideri avere un figlio, ma la paura di metterlo al mondo in questo mondo me lo impedisca, perché tutti se ne fregano della crisi climatica, sembra che la politica continui a fregarsene delle nuove generazioni, e perché magari il mio paese non mi consentirà mai di avere un reddito abbastanza alto da potermi permettere un figlio in serenità.
Qual è stato, invece, tuo più grande atto di ribellione?
Mi sono sbattezzata!
Mi sono sbattezzata perché sono atea e sono contro la Chiesa e tutto ciò che la Chiesa fa. Mi ha sempre fatto arrabbiare il fatto che la Chiesa abbia sempre fatto un conteggio sbagliato dei suoi fedeli: io, per esempio, conosco poche persone veramente credenti, cattoliche, che fanno parte di quel conteggio; magari è la mia bolla sociale, magari è una caratteristica della mia generazione, ma il fatto è che continuiamo ad essere battezzati e quindi inclusi in questo conteggio per una questione di tradizione, di cultura, per non far arrabbiare i nonni ma contro la nostra volontà, perché io la mia volontà posso conoscerla solo quando sono senziente, non quando sono neonata.
Quindi mai niente cambia, e la Chiesa continua a sentirsi legittimata a mettere il becco negli affari dello Stato, come l’aborto e il matrimonio egualitario.
Anche su questo dovrebbe esserci una consapevolezza a 360°, nel senso che non dovremmo essere sempre solo noi giovani a parlare di cambiamento climatico, religione, diritti sociali, oppure, se è giusto che dobbiamo parlarne per far sentire la nostra voce, che qualcuno almeno effettivamente ci ascolti!
A me infatti a volte sembra di perdere le speranze, ma continuo a parlarne, perché anche se magari non arriverà a chi ha effettivamente il potere, potrebbe arrivare ad un ragazzo o una ragazza della mia età e fargli pensare “queste motivazioni possono essere interessanti, posso provare ad informarmi di più”, e quindi potrei far aprire gli occhi a qualcuno in più. Più siamo a portare avanti la stessa idea, più diventa facile cambiare le cose o farsi ascoltare da qualcuno.
“Più siamo a portare avanti la stessa idea, più diventa facile cambiare le cose…”
Quali storie sogni di raccontare?
Attorialmente parlando, quelle storie che ti fanno continuare a sperare.
Un po’ di tempo fa, ho visto il film “Beautiful Boy”, con Timothée Chalamet e Steve Carrel: l’ho amato dal primo all’ultimo minuto; quella è una di quelle storie che secondo me è stato giusto raccontare, e che mi ha fatto rendere conto di quanto il cinema sia importante per la società, di quanto sia importante mostrare le cose da tanti punti di vista. Una persona che vede un tossicodipendente che continua a cadere e ricadere nella dipendenza, ha il giudizio pronto in bocca; poi, vedi storie come quella, raccontate con tanta sensibilità, in un modo così dolce e anche così crudo, e ti dici che il giudizio forse a volte lo dovremmo mettere da parte. Quel film mi ha fatto empatizzare tantissimo con il personaggio, ed è questo che mi auguro di poter fare anche io nel mio lavoro, cambiare il punto di vista delle persone, o anche semplicemente mostrargliene altri.
La tua isola felice?
La mia palestra di pole dance a Nova Milanese, si chiama Armony Dance, ed è il mio posto sicuro nel mondo.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Hair and Makeup by Vanessa Vastola.
Thanks to Andreas Mercante & Edoardo Andrini.
Thanks to YD’Actors – Yvonne D’Abbraccio.
LOOK 1
Total Look: Gilberto Calzolari
Shoes: Kallistè
LOOK 2
Total Look: Gilberto Calzolari
Shoes: Dr. Martens