Un racconto senza giudizi, l’incontro del pubblico con la disperazione di una vita lontana dall’essere una linea retta. Il dolore fisico che si prova guardando Andrea Riseborough interpretare la protagonista di “To Leslie”. Un film indipendente realizzato in maniera magistrale, il debutto alla regia di Michael Morris, un’opera quasi impossibile da descrivere a parole, e di certo provarci non gli renderebbe giustizia.
Per la sua performance, Andrea ha ricevuto una candidatura agli Independent Spirit Awards. Nella nostra intervista, Andrea ha risposto alle domande in maniera diretta e onesta e, a dire il vero, noi non ci aspettavamo altro se non questo, un punto di partenza da cui tornare a considerare l’industria del cinema come un luogo di libertà creativa piuttosto che un mezzo per concludere affari. In altre parole, Andrea è una donna e un’artista con la testa sulle spalle, che sa cosa vuole, e soprattutto sa riconoscere il modello di industria cinematografica che desidera promuovere e di cui vuole essere parte.
Tutto ciò contribuisce a rendere la sua una voce interessante e fondamentale da stare a sentire, nel presente e nel futuro.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
A parte “Gli orsetti del cuore” (in mia difesa, non è stata una decisione interamente dipendente da me), Marlon Brando che si apposta come una pantera in “Un tram che si chiama Desiderio” di Elia Kazan, e lo fa in maniera così realistica che ti viene quasi da pensare che dovrebbe essere illegale.
Cosa ti ha fatto dire di sì a “To Leslie”? E qual è stata la tua prima reazione dopo aver letto la sceneggiatura?
Era una sceneggiatura bellissima – ed è un evento più unico che raro – e mi fido di Michael [Morris]. Ad una lettura superficiale, può sembrare una semplice osservazione di alcune porzioni della vita di una persona. Non è un racconto moralistico delle conseguenze di certe azioni, è un racconto senza giudizi.
“Non è un racconto moralistico […], è un racconto senza giudizi”.
“To Leslie” è il primo lungometraggio di Michael Morris, un film indipendente di cui tu sei anche produttore esecutivo. Qual è il potere dei film indipendenti secondo te? Con la premessa che questo non è di certo il tuo primo progetto indipendente.
Forse, a volte, la libertà creativa.
Non credo che esista una formula fissa per fare un film. Michael nella sceneggiatura ha descritto abilmente il tipo di osservazione a cui ci siamo saldamente aggrappati, l’intimo punto di vista di Leslie sul mondo, che a sua volta è diventato una vera e propria esperienza per gli spettatori. Tutto ciò è stato possibile perché lui era relativamente libero dal punto di vista creativo, il che giustifica l’impegno che tutti abbiamo voluto mettere in questo progetto come conseguenza del suo potenziale creativo. Io ho vissuto sulla mia pelle quel tipo di libertà sia in grandi produzioni sia in film indipendenti, ma ho anche avuto modo di provare i vincoli derivanti dall’avere troppi e troppo pochi soldi.
La possibile quantità di libertà creativa (in qualsiasi forma di arte, probabilmente) è per lo più dettata da chi è alle redini del film. L’etica, per così dire, mi sembra scivoli via. L’industria cinematografica non è un bellissimo modello di business, né lo è mai stato. Sono perplessa quando sento che la ragione per cui alcuni fanno film è prettamente finanziaria, ma non mi sento offesa.
Il film racconta una storia straziante, riesci a percepire fisicamente il dolore di Leslie, tanto quanto la speranza che lei possa dare una svolta alla propria vita. Come hai costruito Leslie, anche e soprattutto la sua fisicità, che è quasi un personaggio in sé?
Osservando frammenti del modo in cui Leslie interagisce col mondo, fisicamente, ora mi rendo conto di come lei abbia le caratteristiche di un avvoltoio, affamata delle briciole d’amore, di speranza e accettazione della propria comunità, forse alla ricerca di un tipo di appagamento che però non potrà mai essere saziato. Immagino che ciò che il pubblico vede esternamente sia sintomatico di cosa sta succedendo dentro di lei, ovvero ondate di disperazione – una voglia disperata di connessione, un bisogno disperato di essere intera, una sete disperata di rispetto, una confusione disperata sull’ingiustizia dei meccanismi del mondo.
“Affamata delle briciole d’amore“
Che tipo di conversazione avresti con lei, se potessi?
La abbraccerei.
Come descriveresti quel “rossetto rosso” che indossa quasi come fosse un altro personaggio ancora?
Lo descriverei come il suo grido di battaglia. Un biglietto da visita, magari senza sottotesto! L’ancora che la lega alla sua vivacità? Una maschera, ovviamente.
“Il suo grido di battaglia”
C’è sempre tempo per la redenzione?
Secondo me no. Forse dovremmo chiedere a Giuda, o a Jeeves?
Leslie si sente sicuramente sopraffatta dalla propria vita e finisce con il compiere errori all’interno di una società che sembra essere apatica e totalmente priva di empatia. A te capita mai di sentirti sopraffatta? E come gestisci il sentimento?
Non ho mai conosciuto nessuno a cui non capiti di affrontare periodi di sopraffazione.
Essere in contatto con le fortune della vita suona come un antidoto? Sembra che tutti quanti noi annaspiamo nel tentativo di capire come si vive la vita. Joan Didion dice – mi pare nel suo “Blue Nights”, ma è molto probabile che mi sbagli – che lei ha sempre eseguito con diligenza tutte quelle piccole attività fondamentali della vita che tutti dobbiamo svolgere o affrontare, eppure sentiva comunque sempre il bisogno di istruzioni su “come vivere”, che, ovviamente, non ha mai trovato.
Una delle cose che ho adorato del film è che non indora la pillola quando descrive il processo di guarigione come qualcosa che ha un inizio e una fine; per esempio, c’è la scena del diner in cui è racchiusa la lotta continua che lei affronta. Qual è per te, personalmente, il significato/il sentimento di “To Leslie”?
Il significato forse è l’onestà, un senso di pace al pensiero delle lotte che l’umanità affronta con complicità suo malgrado, con tutte le risate, l’isteria, la tristezza, la noia, la perdita e l’atroce imbarazzo che comporta.
Il sentimento potrebbe essere quello di quando si fissa una ferita aperta e si riesce ad assorbire la sua ironia bizzarra e familiare. Io ho avuto la fortuna di ascoltare molte storie personali che alcuni spettatori hanno avuto voglia di condividere dopo aver visto il film, e sembra che siamo un po’ tutti quanti uniti dall’esperienza di una qualche forma di dipendenza, che ha tirato fuori i nostri demoni e ci ha messi in ginocchio.
“…quando si fissa una ferita aperta e si riesce ad assorbire la sua ironia bizzarra e familiare”.
Passiamo ad un altro tuo progetto uscito quest’anno, “Amsterdam”: il giallo/commedia in costume di David O. Russell ha per protagonisti tre sospetti omicidi – un dottore, un’infermiera e un avvocato – ed è ambientato negli anni ’30. Che ruolo ha il tuo personaggio in questo quadretto che “trabocca” di personaggi?
Io interpreto Beatrice, la devota ma riluttante e insoddisfatta moglie di Bert, il personaggio di Christian Bale. Beatrice è attaccata a Bert in modo irreparabile, sin dai tempi del college in cui erano follemente innamorati. Dopo la Prima Guerra Mondiale, lei diventa ossessionata dalla deformità di lui, causata dalla guerra. E in tutto ciò, lo incoraggia ad arrampicarsi sulla scivolosa scala sociale newyorkese, con scarsi risultati.
Il film è, appunto, ambientato negli anni ’30: che tipo di ricerche o preparazione hai dovuto fare per immergerti nel mood e nell’atmosfera di quegli anni?
La preparazione, stranamente, è un processo molto personale per me ma ti dico che spesso mi lascio molto guidare dalla letteratura.
Qual è il libro sul tuo comodino?
“Il primo secolo dopo Beatrice” di Amin Maalouf.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione?
Lavorare in un’industria in cui indossare scarpe senza tacco è un atto di ribellione; direi che tutte le altre mini ribellioni che ho collezionato impallidirebbero in confronto a quelle di altri.
“Il primo secolo dopo Beatrice”
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Svegliarsi ogni giorno, direi. A volte, ho la sensazione che ciò che ho dentro sia fuori e ciò che ho fuori sia dentro.
Qual è la tua isola felice?
Dovunque si trovino Karim Saleh, mia sorella Laura, mia madre e mio padre, la mia migliore amica Cyan, tutti i miei amici e la mia famiglia. E poi, il mondo di Walt Disney! Su, ora denunciatemi, adoro sia Bukowski sia Topolino.
Sono figlia degli anni ’80, non ho alcun senso.
Photos by Johnny Carrano.
Styling by Luci Ellis.
Makeup by by Sara Hill.
Hair by Davide Barbieri at Caren using Leonor Greyl.