La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è sempre l’occasione perfetta per incontrare persone che ammiriamo e confrontarci con loro. Antonio Campos, giurato della Sezione Orizzonti, è una di queste.
Con quel modo tutto suo di rispondere alle nostre domande, ci ha guidati alla scoperta del suo percorso artistico, di com’è diventato il regista che è oggi: ricordi, immagini che sembrano quasi un sogno, bugie a fin di bene e aneddoti che hanno plasmato il tipo di regista che ci piace, il regista che è anche produttore e sceneggiatore, che ha la piena consapevolezza di quello che succede e di come andrà a finire, un regista coinvolto a 360°.
La sua opinione sull’industria del cinema indipendente, di cui la Sezione Orizzonti è una grande sostenitrice e piattaforma di visibilità, non è per niente edulcorata: ci saranno sempre persone con tanti soldi che faranno film, ma ci saranno anche persone che troveranno il loro modo per fare film, perché non smetteremo mai di voler fare film, e di certo l’era digitale ha aiutato molto i film con budget limitato.
Alla fine, non potevamo che parlare di “The Staircase”, la serie HBO uscita nel 2022, un true crime, frutto di 10 anni di lavoro, un progetto nato da una passione, un mistero nel mistero. Un must-see!
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
I miei genitori mi portavano al cinema a vedere qualsiasi cosa, a prescindere da cosa fosse, ma a volte non sapevano quali avrebbero potuto essere le conseguenze: mi ricordo molto bene di quando, a 10 anni, mia mamma mi portò a vedere “Pulp Fiction” e, alla scena dello storpio, mi coprì gli occhi, e io cercai di spostarle le mani dalla mia faccia ma lei le teneva salde e quindi riuscii solo a sentire la scena. Ripensandoci, è stato un momento interessante, è stata la prima volta che ho riconosciuto il potere del sonoro perché potevo soltanto immaginare cosa stesse accadendo, oppure qualunque cosa stessi immaginando aveva l’aria di essere orribile e partiva tutto dai suoni che sentivo. Quindi, è quello uno dei miei primi ricordi.
Un altro dei miei primi ricordi è un cinema che si trovava sulla strada in cui sono cresciuto, chiamato Cinema Village, che è lì da sempre, ci potevi vedere film a qualsiasi ora perché è uno degli ultimi cinema rimasti con l’insegna old-style. Lì proiettavano i cartoni animati, e io andavo a vederli con la mia babysitter: i Looney Toons, Bugs Bunny, e quel genere di cartoni. E poi, quello è stato il primo cinema in cui, da più grandicello, quando avevo circa 10 o 11 anni, ho iniziato a guardare film che mi hanno formato sotto molti punti di vista. Ospitarono un festival per Rialto Pictures e in quell’occasione proiettarono “8 ½”, “I 400 colpi”, “Sette Samurai”, e io vidi tutti quei film in poche settimane insieme a mio padre.
E cosa ti ha spinto a diventare un regista?
Ho sempre amato i film. I primi che ho visto e adorato sono film d’avventura come “Indiana Jones”, “Ritorno al futuro”, “Ghost Busters”. I miei genitori hanno sempre supportato me e il mio amore per il cinema, e ho capito di voler fare film molto presto, ma comunque dopo aver pensato ad altre professioni a seconda dei film che guardavo. Quindi, all’inizio volevo fare l’archeologo per via di “Indiana Jones”, e poi programmare videogiochi dopo aver visto un film chiamato “I’m Magic”, e poi volevo fare l’acchiappa fantasmi per “Ghost Busters”, fin quando alla fine non ho capito che quello che volevo era semplicemente raccontarle quelle storie.
Ho iniziato a prendere l’abitudine di annotarmi sempre i pensieri che mi sembrava potessero essere materiale per storie buone – quando avevo 8 o 9 anni, se in classe leggevo un libro o qualcosa del genere, pensavo, “Okay, questa potrebbe essere una bella storia per un film”, e scrivevo appunti su quella storia. Ma il momento in cui ho davvero deciso che volevo fare il regista, o in cui ho capito che cosa fosse un regista, è stato quando a 12/13 anni vidi “Trainspotting”. Mi piacque tantissimo, lo trovai un film geniale e mi fece divertire un sacco, nonostante sia molto cupo, mi rapii completamente. In una locandina ricordo che lo definirono “l’Arancia Meccanica della nostra generazione”, ma io non avevo mai sentito parlare di “Arancia Meccanica” prima; quindi, lo cercai e lo trovai da Blockbuster e mi misi subito a guardarlo.
Qualcosa scattò quando finii quel film e vidi i titoli di coda e la parte “scritto, prodotto e diretto da”, pensai: “Oh, l’ha fatto Stanley Kubrick, voglio imparare come si fa, questo è un vero e proprio regista”. Sviluppai un’ossessione per Stanley Kubrick, ma la chiave sta nella pelle d’oca che mi venne alla fine del film, fu un sentimento così forte, anche se non riuscivo a spiegarmi esattamente la fine.
Il legame tra le immagini sullo schermo, le parole in voiceover e la musica e come parte negli ultimi istanti, il modo in cui questi ingredienti si fondono insieme fino a creare quel tipo di emozione, mi fecero pensare: “Questo è fare regia, voglio sapere come si fa”. Poi, un giorno, mentre camminavo in metropolitana con mio fratello, vidi un poster che diceva “Impara a fare film in 6 settimane”. Dissi a mio fratello “Io mi iscrivo” e lui mi rispose “No, non lo farai”, ma poi riuscii a convincere mia madre a portarmi alla scuola e incontrammo il direttore (avevo 13 anni, ma mentii e dissi di averne 14). Lui credeva che io ci tenessi davvero a frequentare la scuola e quindi mi diede la possibilità di farlo, ma mi disse che dovevo dire a tutti di avere 16 anni perché c’era solo un altro studente di quell’età e gli altri erano tutti molto più grandi, non c’erano dei corsi per adolescenti. Quindi, ho realizzato il mio primo film quando avevo 13 anni, dei cortometraggi in 16mm in bianco e nero. È stata un’esperienza strana perché per 6 settimane ho dovuto recitare, fingere di essere un sedicenne.
La scuola era a due isolati da casa mia, e mia madre mi permetteva di rimanere lì fino a tardi anche se ero piccolo, ma una volta è successo che stavo lavorando ad un montaggio e ho perso la cognizione del tempo, avevo le cuffie alle orecchie e ad un certo punto qualcuno mi ha toccato la spalla e detto che erano le 2 o le 3 del mattino e che mia madre era lì; io ho guardato dietro di me e c’era mia madre in vestaglia con due poliziotti e mi dissi “Cazzo!”, perché stavo cercando di far credere a tutti di avere 16 anni e una cosa del genere non sarebbe capitata ad un sedicenne. Quindi, le dissi, “Vattene, dovrei avere 16 anni, mi stai facendo saltare la copertura!” e lei piagnucolò, “Perché non mi hai chiamato?!” e io le dissi, “Mi dispiace, sono qui, tra poco torno a casa” [ride].
Un’altra storia divertente è quella del mio ultimo progetto di scuola, una sceneggiatura che intitolai “Pubertà”, su un ragazzo che attraversa la pubertà; il mio insegnante di regia la lesse e disse, “Parla di un ragazzino, tu hai 16 anni, scrivi di cosa significa avere 16 anni e del college e delle ragazze”, e io risposi, “Okay, certo!” e pensai, “Adesso devo scrivere una sceneggiatura immaginando di avere 16 anni”. Quindi, iniziai a scriverne una nuova e la consegnai, insieme all’altra, alla mia insegnante di scrittura, la nuova si chiamava “Cricket Rumley”, e lei mi disse, “È evidente che tieni di più a quella sulla pubertà, perché non usi quella?” e io le dissi quello che mi aveva detto l’insegnante di regia e lei mi rispose, “Stronzate! Devi fare il film che hai voglia di fare”. Quella fu una gran bella lezione, sul seguire l’istinto e il cuore quando fai le cose.
Annoti ancora le idee che ti vengono in mente?
Sì. Un tempo, avevo sempre con me un taccuino e ci scrivevo sopra di tutto, ma da quando ho l’iPhone che mi porto dappertutto, ho solo tante lunghissime note, anche se ora, dato che sto lavorando a più di un progetto in contemporanea, sto cercando di organizzarle per titoli. La prima cosa che faccio è scrivere parecchie note, di cui alcune sono idee, altre sono cose a caso, altre ancora sono solo appunti di riferimento, e quando non ho più niente da scrivere, inizio a mettere ordine e creare categorie, come argomenti, idee di personaggi, idee di dialoghi, e poi, man mano che metto ordine, rileggo e riscrivo tutto. Fare così ha funzionato per me. Secondo me, ognuno ha il proprio metodo, e non è mai qualcosa che qualcun altro ti ha insegnato, è una qualche versione ti ciò che ti hanno insegnato e che tu hai sviluppato trasformandolo in qualcosa che ha senso per te.
“Stronzate! Devi fare il film che hai voglia di fare.“
Di solito, cosa ti spinge a raccontare una storia in particolare?
È una sensazione, della serie “a questa ci tengo”, oppure a volte stai semplicemente cercando una tematica ben precisa. Per esempio, con “The Staircase – Una morte sospetta”, è partito tutto dalla mia passione per il true crime, quindi in quel caso ho pensato, “Oh, questa è la storia true crime che stavo cercando”. Invece, “Christine” è nata in un momento in cui stavo cercando un personaggio femminile complesso da esplorare; quindi è quello, ciò che attira il mio interesse in un certo momento, ciò che mi colpisce.
Hai menzionato Stanley Kubrick e il fatto che fosse un produttore, regista e sceneggiatore, come te e, guardando i tuoi lavori, la sensazione è che per te, essere un regista significhi ricoprire un po’ tutti i ruoli, è così?
Io non sono mai stato un tecnico, invece Kubrick credo fosse anche un tecnico, era un macchinista, conosceva i meccanismi interni delle telecamere, mentre io non ho quel tipo di formazione. Ho un fortissimo senso della composizione nell’immagine e una grande padronanza delle ottiche, perché so cosa un certo tipo di ottica è in grado di fare, e della musica e del sonoro. Quindi, ho le idee chiare su che effetto voglio ottenere da questi elementi.
Per quanto riguarda il lato della produzione – perché sono stato producer per altre persone – quando avevo la mia agenzia, eravamo in tre e ci facevamo da producer a vicenda, identificando i punti di forza di ognuno in quel campo. Io non ero mai quello che ci sapeva fare con i numeri, che si segnava i conti. Non sono bravo in matematica. Quello era Sean Durkin, era lui che si occupava dei soldi. Josh Mond era quello che faceva procedere il progetto, Sean e io ci occupavamo di far sì che si realizzasse, ma era Josh quello che accendeva il fuoco. In veste di produttore, il mio punto di forza era il lato creativo, leggere, commentare, rielaborare e analizzare tutte le bozze; lavorare al casting e poi aiutare a mettere in piedi la troupe, riconoscere il contributo che ognuno avrebbe potuto dare al progetto. E infine, essere molto presente sia durante e che nel post-produzione.
Man mano che ho acquisito fiducia in me stesso in quanto regista, la cosa più importante che ho imparato è stata riconoscere quando dire “non lo so” e non provare disagio all’idea di non sapere qualcosa, di non avere una risposta. Prima, invece, ero convinto che se io non sapevo una cosa, nessuno dovesse scoprirlo, perché altrimenti qualcun altro avrebbe preso il mio posto, ma poi ho capito che è così bello quando riesci a dire “non lo so” e lo dici con sicurezza, senza entrare nel panico, significa che sei aperto ad altre idee su cui lavorare, ed anche questo è fare produzione.
Quando sei sceneggiatore, produttore e regista, sono tutti ingredienti della stessa ricetta.
“Man mano che ho acquisito fiducia in me stesso in quanto regista, la cosa più importante che ho imparato è stata riconoscere quando dire “non lo so” e non provare disagio all’idea di non sapere qualcosa, di non avere una risposta.”
Da giurato della sezione Orizzonti, un bellissimo spazio tutto per il cinema indie, quale consiglio daresti ai filmmaker indipendenti? Il cinema indipendente si può ancora fare, se pensiamo al fatto che anche i film costati milioni vengono ormai etichettati come “indipendenti”?
Sì.
Il modo in cui facevamo cinema 15 anni fa, che non è tanto tempo fa, è molto diverso da come lo facciamo oggi. Ciò che eravamo in grado di ottenere con la quantità di denaro che avevamo – “Afterschool” è costato 250mila dollari, “La fuga di Marta” 625mila – è sorprendente, con budget così ridotti per girare su pellicola, dovevamo supplicare per avere un sacco di favori, la gente era generosa al punto da darci le pellicole, farci sconti, era una bella fatica. Credo che sia ancora possibile adesso, vista la qualità del cinema in digitale, si può girare un film anche con pochissima luce, con troupe ridotte, tutto è possibile. Per quanto riguarda lo stato del cinema indipendente, secondo me non sparirà, secondo me le persone avranno per sempre voglia di fare film, e ci saranno alcuni che li faranno con un sacco di soldi e altri che li faranno senza averne molti. Sta a noi decidere come vogliamo fare un film. È l’aspetto interessante di Orizzonti è che questa sezione comprende proprio questo genere di film: mi stupisce sempre quanto siano fatti bene. Prima, quando vedevo un film indipendente avevo sempre la sensazione che non fossero ben illuminati, che l’esposizione non fosse sufficiente e cose del genere. Ora, il livello di maestria è altissimo. Penso che, con l’avvento del digitale, capisci subito l’aspetto che avrà una certa immagine, non c’è molto da tirare a indovinare, e poi si può rifinire tutto in DI. Quindi, basta molto poco per rendere tutto bello.
“adesso […] si può girare un film anche con pochissima luce, con troupe ridotte, tutto è possibile. .”
Parlando del tuo ultimo progetto, “The Staircase”, qual è stata la fonte, il dettaglio, la curiosità che ti ha spinto a dargli vita?
Ho visto per la prima volta il documentario nel 2008, mi era stato mandato perché mi avevano proposto di adattarlo in un film. Ero ossessionato dal true crime, quindi per me quella era l’esperienza true crime per eccellenza: era un documentario avvincente, esplorava ogni aspetto dell’indagine e poi del processo. Il documentario è uscito nel 2005 e io l’ho visto nel 2008, e a quei tempi era unico nel suo genere, non ce n’erano altri sviluppati come serie in più parti su un crimine o un’indagine, e quindi tutti i dettagli, tutto ciò che avrebbe potuto raccontare una storia in grado di dimostrare la realtà delle cose, ha immediatamente stimolato il mio interesse. Poi, Michael Peterson è stata la mia chiave, perché, anche dopo aver visto 8 ore di documentario in cui ogni aspetto della sua vita era stato svelato, io lo consideravo ancora un mistero, e trovavo interessante la possibilità di avere un personaggio impossibile al centro di un mistero impossibile: un mistero nel mistero, un labirinto nel labirinto. Ho pensato subito che fosse un tipo interessante e il bello di “The Staircase” è il fatto che non saprai mai come sono andate le cose, e non solo non avrai mai una risposta alle domande su cosa è successo quella notte, ma non conoscerai mai Michael Peterson, forse nemmeno Michael Peterson sa chi sia Michael Peterson. C’è qualcosa di shakespeariano in questa tragedia, qualcosa di molto complesso. È questo che mi ha colpito. Io adoro gli interrogativi, e Michael Peterson era un grande punto interrogativo che io ogni volta cercavo di risolvere.
So che hai detto che dobbiamo semplicemente accettare il fatto che non sapremo mai cos’è successo veramente. C’era anche solo una piccola parte di te che sperava che, raccontando questa storia, avresti “scoperto” qualcosa di nuovo?
Effettivamente, all’inizio della pre-produzione, c’è stato un momento in cui ho pensato che, se ci avessi lavorato su per abbastanza tempo, probabilmente avrei ricavato delle risposte. Poi, dopo circa 5 anni, ho capito che non c’è nulla di male nel non sapere. E non c’è niente di male nel vivere senza sapere.
Scommetto e so che ti hanno fatto un sacco di domande sull’ultima scena della serie, ma posso chiederti com’è nata? Sapevi che il finale sarebbe stato quello sin dall’inizio?
Sì. Sapevo che sarebbe iniziata e finita in quella camera da letto. Sapevo che sarebbe finita con lui che guarda dritto in camera.
È straordinario come, nella serie, tu sia riuscito a creare un equilibrio tra i momenti in cui viene da pensare che lui sia innocente e quelli in cui ci si convince che sia il colpevole. È stato complicato creare quest’equilibrio?
No, affatto, è stato parte del processo di costruzione perché, nella fase creativa di scrittura, io non ho mai detto quello che pensavo, parlavamo spesso delle idee che tutti ci eravamo fatti, ma io non ho mai detto a nessuno di scrivere in un modo o in un altro. Quindi gli scrittori erano liberi di scrivere con un sottotesto nella loro testa che lo riconosceva come colpevole oppure innocente, e andava bene così. Anche a Colin [Firth] avevo raccomandato la stessa cosa, gli avevo detto: “Io non ti dirò se secondo me l’ha fatto o non l’ha fatto o se interpretarlo come se fosse colpevole o innocente, hai la libertà di farti un’idea tua e impostare l’interpretazione come preferisci”. Quindi, con Colin recitando nel modo in cui credeva e gli sceneggiatori scrivendo seguendo le loro teorie, era un po’ come se tutti stessero lavorando con l’ignoto. In montaggio sono sicuramente state sistemate alcune cose, del tipo tagliare un certo stacco sui suoi occhi che avrebbe potuto far intendere che fosse colpevole quando noi non volevamo suggerire niente del genere. Ovviamente abbiamo preso alcuni provvedimenti in modo da mantenere quell’equilibrio, perché in alcuni momenti della storia è importante che lo spettatore prenda le sue parti, non vuoi che si formi alcuna opinione. Si tratta per lo più di piccole modifiche qua e là, perché Colin a volte recitava in maniera leggermente parziale, ma io stesso non sapevo mai lui dove volesse arrivare con quello che faceva. Grazie al montaggio abbiamo potuto sistemare immediatamente quello che serviva.
“Sapevo che sarebbe iniziata e finita in quella camera da letto.”
Tre film che tutti dovrebbero vedere.
Ti dirò tre film che secondo me molti non conoscono e dovrebbero conoscere: “Storie” di Michael Haneke, “Il rito” di Ingmar Bergman, “Le lacrime amare di Petra von Kant” di Rainer Werner Fassbinder.
Qual è la tua più grande paura?
Prima, ciò che mi spaventava di più aveva a che fare con la mia carriera, ma ora, da padre, la mia più grande paura è che possa succedere qualcosa di brutto ai miei figli.
La cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Forse, non l’ho ancora fatta.
Photos by Johnny Carrano