Un servizio pubblico, un pezzo inedito di storia italiana, pagine che sui libri di scuola spesso non ci sono: “Il nostro generale” è uno specchio dal passato che riflette il presente e che sul presente fa riflettere.
Antonio Folletto ci ha raccontato di quanti giovani gli scrivano per commentare la serie, e di quanto sorprendente sia che anche chi non ha vissuto quegli anni, proprio quegli anni ce li abbia particolarmente a cuore, per quanto distanti e inimmaginabili certe dinamiche possano essere per i ragazzi di oggi.
Nella serie in onda su Rai 1, Antonio è co-protagonista e voce narrante: al fianco di Sergio Castellitto (il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa), Antonio indossa i panni di Nicola, il primo dei sottufficiali del Nucleo Speciale Antiterrorismo fondato proprio dal Generale. In un resoconto degli anni più bui della storia italiana, quelli delle lotte al terrorismo, del sangue versato, e delle conquiste civili, Antonio ha conosciuto persone ed eventi che mai avrebbe immaginato di poter incontrare da vicino: dai “ragazzi del Nucleo” con i loro aneddoti, fino al Presidente della Repubblica.
Tra i progetti di Antonio in uscita, anche la seconda stagione de “A casa tutti bene” di Gabriele Muccino, sui cui domina il mistero, ma che promette i più inaspettati dei risvolti.
In attesa di raccontare la sua di storia, Antonio “ruba amorevolmente” quel che può dalle maestrie con cui entra in contatto, fermandosi sempre un attimo lungo il tragitto per domandarsi:
perché?
Come sta andando con “Il nostro generale”, che feedback stai ricevendo?
Sono contento, perché vedo che mi scrivono tanti giovani e questo mi fa piacere. Sto ricevendo bei feedback da tante persone in generale. È stato emozionante, abbiamo fatto la presentazione con tutta l’arma dei carabinieri, i Ministri, il Presidente della Repubblica: non mi sarei mai immaginato di poter stringere la mano al Presidente della Repubblica! [ride]
Questa serie tratta un argomento importante, che io non ho vissuto, quindi studiandolo mi sono reso conto di quanto incredibile e indescrivibile sia quello che è successo, anche se non posso sapere fino a che punto la serie sia precisa nella narrazione dei fatti. Tu che sensazione hai avuto?
Una delle prime cose che ho provato guardandola è stato il rimpianto di non aver studiato e che non si studi questo pezzo di storia, motivo per cui forse tanti giovani ti hanno scritto; forse dovremmo aggiornare i nostri programmi scolastici. Io per esempio, non avevo idea che il Generale Dalla Chiesa fosse stato il fautore del Nucleo Anti-terrorismo! Tante cose che oggi diamo per scontate, esistono grazie a lui, e io non ne avevo la più pallida idea. Si parla più spesso della fase finale di questa storia, dei cento giorni a Palermo, di quando è stato assassinato, quindi sono grata a questa serie per aver raccontato cosa è successo prima e tanti altri aspetti inediti per molte persone. Secondo me, quindi, la serie racconta veramente bene tutta la storia.
Infatti, ciò che della serie a me è piaciuto molto è che ci sono tante integrazioni di pezzi di repertorio veri, e quella è storia: sono testimonianze, e anche molto forti. Lucio [Pellegrini] e il direttore della fotografia sono stati bravissimi, hanno girato in 16 mm, hanno fatto il bianco e nero, quindi sono stati bravi anche esteticamente.
Molte persone non hanno idea di cosa fosse quel triangolo Genova-Torino-Milano: la gente che in quell’epoca viveva a Milano si trovava davvero in un ambiente di guerra civile che oggi noi facciamo fatica a immaginare. Secondo me, a mio modesto parere, noi siamo fortunatissimi, perché viviamo in un paese estremamente libero. Ti faccio un esempio: hai presente l’attrice iraniana Taraneh Alidoosti, che è stata rilasciata il 6 gennaio dopo essere stata arrestata per le proteste in Iran? Qualche giorno fa, ho saputo (e ne sono rimasto sconvolto) che a un mio collega attore, per essersi esposto a favore di questa donna, hanno ritirato i documenti, quindi non può più uscire dal paese, non può più tornare dalla sua famiglia. Questo per dire che noi siamo molto fortunati, anche se non ce ne rendiamo conto perché non abbiamo provato certe cose sulla nostra pelle.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
La faccia di Totò: io, seduto in cucina, con mio nonno, che guardiamo su una tv vecchiotta, che non ha niente a che vedere con le tv super piatte e stilose di oggi, un film a mio avviso stupendo che si chiama “Totò truffa”. Questo è il mio primo ricordo.
Qual è stato il tuo primo pensiero dopo aver letto la sceneggiatura de “Il nostro generale”?
Ho pensato che mi apprestavo a fare qualcosa che non avevo mai fatto, per cui avrei avuto bisogno di una grande conoscenza e preparazione perché, non avendo vissuto quegli anni, mi rendevo conto che la materia per me era quasi sconosciuta.
Prima hai detto una cosa verissima: i libri di scuola, almeno i miei, si sono fermati alla seconda guerra mondiale e nessuno ti racconta quello che è accaduto dopo, quindi sapevo che mi stavo approcciando a qualcosa di molto grande, misterioso, controverso, e che sarebbe stato un viaggio molto bello.
“Sapevo che mi stavo approcciando a qualcosa di molto grande, misterioso, controverso”
Mi hai detto che hai avuto l’opportunità di conoscere e confrontarti con coloro che hanno vissuto quegli anni: ti ricordi la prima domanda che hai fatto o cosa “volevi sapere” da loro? Come sono stati questi incontri?
È stato emozionante, abbiamo conosciuto quelli che allora erano ragazzi, ma che oggi sono signori sull’ottantina. Quello che cercavo era semplicemente un contatto umano, passare una giornata e parlare con “quelli veri”, con le persone che hanno vissuto negli anni di piombo.
Abbiamo cercato di entrare nella loro psicologia ed è stato bello perché alla fine ti accorgi che loro, ancora oggi, ti raccontano di quei tempi con un entusiasmo e con una luce negli occhi incredibile. Per esempio, mi ricordo gli occhi di Domenico Di Petrillo, che era uno dei ragazzi del Nucleo, che brillavano quando parlava di Dalla Chiesa, ne parlava quasi come fosse suo padre: la figura di Dalla Chiesa adesso secondo me sarà ancora più rivalutata. Queste persone, in quegli anni, erano dei ragazzi che ad un certo punto si erano ritrovati in un Nucleo speciale che non era mai esistito prima, con dei poteri speciali, e che ad un certo punto hanno dovuto affrontare una guerra civile e prendere delle decisioni, e parliamo di ragazzi di vent’anni. Oggi io faccio molta fatica ad immaginare un ventenne fare cose del genere! [ride]
Questi incontri, quindi, ci hanno aiutato ad entrare nella loro testa e capire che vita facessero e le rinunce che hanno fatto: non avevano una vita, non potevano avere affetti, rapporti, passava tanto tempo senza che nessuno li sentisse o sapesse dove fossero… insomma, non devono aver passato una vita facile.
Un altro aspetto della serie che mi ha colpito, infatti, è proprio quello umano, il racconto delle vite personali, sia del Generale che dei suoi ragazzi e dei suoi figli, che hanno sempre raccontato la sua storia e sono figure note. Questa è un’aggiunta che fa capire ancora meglio cosa sono stati quegli anni, perché si tratta di aspetti che quasi mai vengono sottolineati.
Fondamentalmente si racconta di quello che un padre e una madre fanno davvero, cioè cercare di dare dei valori e dei principi ai propri figli o alle persone a cui vogliono bene; allo stesso tempo, però, arriva un momento in cui devi responsabilizzare le persone e far sì che siano in grado di prendere delle decisioni. Secondo me, saper prendere le decisioni, anche se a volte non sono quelle giuste, è una grande cosa: avere la forza di decidere di affrontare qualcosa o di non affrontarlo.
È questa la cosa che ti ha sorpreso di più della storia?
Sì, una delle cose che più mi ha sorpreso è stato appunto l’incontro con i ragazzi, perché parlare con loro è stato fondamentale. Poi, anche la lettura con i miei colleghi e con i registi, rendermi conto di tutti i morti e i sequestri che ci sono stati, ovvero tantissimi. Mentre facevo questa cosa, ho davvero avuto un attimo di sconvolgimento, e poi quando sono andato a registrare le parti di voce narrante, perché alcuni pezzi li abbiamo integrati dopo, è stato incredibile dire certe cose mentre le immagini scorrevano.
Una delle cose che più mi ha colpito è stato quanto faticoso ma anche bello sia stato attraversare nove anni di storia. Ho avuto l’opportunità di lavorare con dei maestri del cinema: la truccatrice col suo reparto, la parrucchiera col suo reparto, hanno tutti fatto un grandissimo lavoro, considerando che avevamo tutti tre look diversi per ciascuno, e anche nella stessa giornata.
È stato molto intenso, ma bello.
“Attraversare nove anni di storia”
Quanto c’è di Antonio in Nicola e cosa ha lasciato Nicola in Antonio?
Sicuramente io ci ho messo del mio, è inevitabile quando devi metterti al servizio della storia, credo; sei un filtro, quindi, per fortuna mi viene da dire, qualcosa di te passa sempre. Quello in cui mi sono rispecchiato di più, da subito, mentre leggevamo le sceneggiature, è il fatto che Nicola abbia un rapporto di confronto e conflittuale con il Generale; lui si chiede e ha il coraggio di dire come la pensa e di porre delle domande: è veramente giusto quello che stiamo facendo e come lo stiamo facendo? Io credo che chiedersi il perché delle cose sia fondamentale, perché accadano e perché sia giusto agire in una maniera piuttosto che in un’altra. Questa cosa per me è stata molto importante. È stata anche una bella esperienza recitare con i miei colleghi, e col grandissimo Sergio Castellitto.
A volte, sei su un binario, a volte la vita va talmente veloce che tu nemmeno te ne accorgi, e tu prosegui su quel binario e cerchi di dare il 100% in quello che devi fare, ma è giusto, se c’è qualcosa che non ti torna dentro di te, fermarsi un attimo e chiedersi il perché.
Hai avuto un approccio più emotivo o razionale nel costruire Nicola?
Sicuramente, entrambi.
La parte razionale viene dettata dal fatto che c’è una sceneggiatura che ha dei limiti entro i quali dobbiamo stare, quindi alcune cose vanno fatte e vanno dette perché è giusto così. Però sicuramente c’è stato un grande approccio emotivo; mi viene in mente la scena in cui muore il maresciallo Felice Maritano: è stata una scena molto intensa, ci siamo emozionati molto, io, l’attore che interpretava Maritano, il regista e tutti quanti. Per fortuna, questo mestiere secondo me non si può fare senza emotività, bisogna averla, penso che il fine principale sia sempre quello di comunicare qualcosa. Questa serie in particolare ha un importante sfondo sociale d’insegnamento, è un grandissimo servizio pubblico che la Rai offre, e il bello è che le persone che la guardano e poi si affezionano alle vicende personali dei ragazzi e del generale. Quindi l’approccio è stato sia razionale, di studio, sia con una grandissima componente emotiva.
Come hai già anticipato tu, quelli tra Nicola e il Generale sono forse i momenti più intensi e più dolci della serie: Nicola non ha paura di dire il suo pensiero, il Generale lo ascolta a volte anche in maniera paterna. Che tipo di confronto hai avuto con Sergio Castellitto per costruire le vostre dinamiche sullo schermo?
Partiamo dal presupposto che è stata una grandissima opportunità per “rubare” da un grande. Quando lavori con i grandi attori, è facile, ma non è sempre solo facile. Da una parte è facile perché sai che è come un passarsi la palla – nei laboratori teatrali, ad esempio, spesso si fa questo gioco, ci si passa letteralmente la palla come fosse un dialogo, un confronto – che ti arriva in una determinata maniera, solitamente perfetta, se ti deve arrivare forte, arriva forte, se ti deve arrivare piano, ti arriva piano, se ti deve arrivare allo stomaco, ti arriva allo stomaco; da questo punto di vista, mi sento di dire che è facile lavorare con i grandi, ma richiede anche una grandissima concentrazione, e di stare dentro a quello che si fa al 100%.
Sergio è stato molto generoso, perché si è lasciato “derubare” con amore [ride]. Ho lavorato con un attore, regista, autore che ha tante “ore di volo” rispetto a questo lavoro, quindi è stato bello, una grandissima esperienza.
Quale sarebbe stato il nome in codice di Nicola, secondo te, se alla fine ne avesse scelto uno?
Ci ho pensato, sai, e non so perché ma mi è sempre venuto da dire “baffo”, mi piace come suona, perché è corto e simpatico [ride].
C’è un’altra storia vera che ti piacerebbe portare sullo schermo, anche alla luce dell’importanza sociale de “Il nostro generale”?
Mi piacerebbe, un domani, avere l’opportunità di affrontare un progetto in cui si parla di comunicazione e fake news, in particolare della capacità di entrare nella testa delle persone. Questa cosa prima si faceva praticamente solo con la stampa e con la televisione, invece oggi le informazioni sono miliardi e miliardi di più e arrivano ad una velocità incredibile, e ti arrivano ovunque, sul telefonino, via email, sui social, e anche se non hai nessuno di questi strumenti, in qualche maniera ti arrivano lo stesso.
“È facile lavorare con i grandi, ma richiede anche una grandissima concentrazione”
Se ci fosse stato allora lo stesso livello di informazione che c’è adesso, secondo te quegli anni lì come sarebbero stati affrontati dal pubblico?
Sicuramente avremmo avuto molta più materia da affrontare, ma alla fine si tratta di due epoche totalmente diverse, e faccio fatica ad immaginare un confronto tra i mezzi di comunicazione che abbiamo oggi con quelli che avevano allora, in quel periodo storico, politico, sociale. Sicuramente per certi versi le cose avrebbero potuto essere più facili, e per altri versi invece ancora più incasinate.
Un aspetto della serie che mi è piaciuto molto, ma mi ha lasciata con una domanda senza risposta, è quanto sia o non sia cambiata la politica italiana ad alti livelli di potere. Allora, il grosso del lavoro fu fatto dal Generale e dai suoi ragazzi, ma se pensiamo a tutto quello che succede ancora oggi, viene da chiedersi quanto gli alti livelli abbiano effettivamente imparato dalla nostra storia.
Sono d’accordo. Io credo fermamente che ci sia una parte sana in politica che faccia il proprio mestiere seguendo dei valori e dei principi, perché sennò non sarebbero esistite figure come Carlo Alberto Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino. È che spesso le cose sono molto più complicate di quello che sembrano, e a volte uno si trova a lottare con dei propri “compagni di squadra” per far sì che le cose vengano fatte bene. Alla fine, però, io sono sempre fiducioso che le cose belle arrivino, a volte meno lentamente, altre invece con anni di sangue, misteri, di piombo.
“Alla fine, però, io sono sempre fiducioso che le cose belle arrivino…”
Tra poco esce la seconda stagione di “A casa tutti bene”: come cambia Diego nella seconda stagione?
Non posso svelare molto, ma ti dico che sicuramente a casa tutti bene [ride], ma niente è come sembra. Ci saranno grandi colpi di scena per tutti i personaggi.
Ci sono dinamiche tra personaggi per te particolarmente interessanti o che eri curioso di conoscere di questa seconda stagione?
Quando è finita la prima stagione, non sapevamo se avremmo fatto una seconda o no; poi, quando abbiamo saputo che si sarebbe fatta, Gabriele ci ha chiamati uno ad uno per raccontarci quale sarebbe stata la vita dei personaggi nella seconda stagione… Io ti posso dire che non mi aspettavo assolutamente che sarebbe successo quello che succede! [ride]
Le sorprese che coglieranno il pubblico guardando la seconda stagione sono le stesse che hanno colto noi nel leggere la sceneggiatura delle puntate.
Hai mai pensato di scrivere o dirigere tu stesso?
Faccio fatica ad immaginarmi regista, perché credo sia un lavoro di troppe responsabilità rispetto all’attore. Secondo me il regista ha a che fare con troppe cose, deve “comandare” tanto, è quello che devono saper fare i grandi registi, mentre a me piace “essere comandato”, a me piace fare l’attore, mi piace troppo questo mestiere.
Sicuramente, c’è una storia in particolare che mi piacerebbe raccontare, ma non posso dirti cos’è perché sennò poi il sogno non si avvera; però penso che un giorno le darò vita, ma non so se da regista. C’è una parte di me che pensa che le cose a cui tieni davvero tanto andrebbero raccontate da te; nel mio caso, magari, la racconterà e dirigerà un’altra persona, però sicuramente io scrivo delle cose che tengo per me e forse, un domani, quando avrò il coraggio, le condividerò, quando mi sentirò pronto.
“A me piace ‘essere comandato’, a me piace fare l’attore, mi piace troppo questo mestiere”.
Invece, un epic fail sul set?
Durante uno dei conflitti a fuoco, mi ricordo che eravamo tutti gasati, appiccicati, con le vene che ci scoppiavano per le dinamiche della scena, e ad un certo punto io faccio il mio ingresso e, nel mezzo della scena, mi cade il caricatore della pistola, ed era un piano sequenza! In casi come quello, ti viene da imprecare contro ogni mobile della casa [ride].
Oppure, mi ricordo che in un’altra scena mi sono toccato la barba e i baffi in un modo in cui non avrei dovuto toccarli, e così mi si stava per staccare un pezzo di baffo: infatti, sento gridare “stop”, perché io non me n’ero accorto, ma mi stava proprio partendo un baffo!
Il tuo must-have sul set?
Sicuramente, devo sempre avere sul set l’acqua. Io bevo tanto, ho veramente bisogno di bere spesso. A volte, magari per l’emozione o se hai due pagine di dialogo da recitare, ne hai bisogno ancora di più, e io a volte ho anche tre bottiglie d’acqua sparse per la stanza in cui mi trovo, mi circondo di acqua! Ovvio che sul set hai bisogno del supporto di tutti e di te stesso, ma l’acqua è quell’elemento esterno di cui non posso fare a meno, se non ce l’ho vado in crisi.
Il tuo più grande atto di ribellione?
Provare sempre a schierarmi dalla parte che credo sia giusta.
Quando credo che non sia giusto fare una cosa in una determinata maniera, cerco sempre di motivarlo, di dirlo, che sia una semplice dinamica, una battuta, un abbraccio. Questo mestiere è fatto di un collettivo: c’è un regista che vede, ci sono altri oltre te che vedono, quindi a volte è difficile, è un lavoro in cui devi credere profondamente in quello che fai e devi rispettarlo tantissimo, perché se lo rispetti hai una buona probabilità che lo rispettino anche gli altri. C’è anche una parte in cui bisogna anche affidarsi agli altri, quindi è molto importante scegliere bene il viaggio che si fa, perché di quelle persone devi imparare a fidarti: se tu magari non ti senti una cosa e l’altro te la motiva e te la motiva bene, allora ti devi fidare, secondo me. È un lavoro che si fa insieme, fermo restando che credo sia sempre giusto che autore e regista abbiano l’ultima parola.
Invece, di cosa hai paura?
Ce ne sono tante di paure che ho… In realtà, non mi viene da pensare a qualcosa che riguarda il mio lavoro, ma ad un qualcosa di globale, quindi ti dico che ho paura che continuino ad esserci tanti altri anni in cui l’inverno non esiste. Noi abbiamo praticamente passato un anno senza neve: oggi io sono a Napoli, siamo in pieno inverno, e io ho addosso solo una magliettina a maniche lunghe. Ecco, ho paura di questo, che si continui ad andare in una certa direzione, pur sapendo che le cose non stanno andando bene. Quindi, mi chiedo quand’è che faremo qualcosa? È una cosa spaventosa per noi trentenni, e figuriamoci per i figli di mio figlio. Questa situazione è in mano a tutti noi, non al singolo, e anche per questo mi spaventa molto.
Qual è tua isola felice?
La mia isola felice è in vari posti. Nel presente, di sicuro, nelle persone che amo e che mi amano e mi vogliono bene. A volte, però, un’isola felice è anche alcuni momenti del passato; penso che tutti abbiano dentro di sé una bella dose di malinconia, e che ci siano dei momenti belli che ognuno ha dentro di sé, e che anche quelli possano essere isole felici.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Grooming by Adelaide Fiani.
Styling by Sara Castelli Gattinara.
Assistant stylist: Bianca Giampieri.
Location: Bowling Roma TIAM
Thanks to Other srl.
LOOK 1
Shirt & Trousers: Fendi
Shoes: Dior
LOOK 2
Total look: Dior
LOOK 3
Shirt, Sweater, Jacket & Trousers: TOD’S