La Mater di “Selon Joy”, il nuovo film della regista Camille Lugan, è Asia Argento: un personaggio complesso e tormentato che si muove in un mondo desolato, ai margini della società, dove la fede, la solitudine e la perdizione si intrecciano in un’atmosfera oscura e suggestiva. La storia racconta dell’orfana Joy, una ragazza profondamente devota, e il suo incontro con Andriy, che la trascina in una realtà dura e spietata.
Ho incontrato Asia per parlare del film, ma sono tornata a casa con una lezione di vita e di mestiere. Asia mi ha raccontato il suo rapporto viscerale con la macchina da presa, la sfida di immergersi in un universo così estremo come quello di Joy e le sue riflessioni sul potere salvifico della fede.
In una chiacchierata intima che ci fa scoprire il suo profondo coinvolgimento nei film e l’intensità emotiva che caratterizza la sua presenza nel mondo e il suo lavoro sul set.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
La prima volta che ho visto una macchina da presa. Sai, la prima volta che c’è una macchina da presa non te lo scordi mai, perché è potente. L’ho percepita subito come una presenza amica: ho sentito che quella “cosa”, che non si può guardare, era come un’amica che mi proteggeva. Ancora oggi, se c’è una macchina da presa, per me è come se fosse uno spirito, è sempre lì che tira fuori il meglio di me. È come se fosse un angelo protettore che mi ha sempre salvata.
Quella prima volta ho sentito, in quel momento, che c’era silenzio.
Io, come molti bambini, volevo essere al centro dell’attenzione, ma non riuscivo ad avere questa attenzione a casa, però quella prima volta con la camera davanti ho pensato: “Qui mi ascoltano tutti, tutti mi prestano attenzione, stanno tutti attenti a quello che dico… Devo fare questo da grande”. Ai tempi pensavo di voler fare la scrittrice, quando avevo circa 9 anni, ma in quel momento lì, sul set, o meglio, davanti alla macchina da presa, ho capito che il mio mestiere non poteva che essere quello.
La regista definisce l’atmosfera del film come “un mondo sotterraneo ai margini, caratterizzato da un’atmosfera potente e cupa, abitato da personaggi che lottano per sopravvivere” (Camille Lugan). È stato un processo complicato ambientarsi in questo tipo di circostanza e fare tuo questo mondo?
No, perché quando reciti accetti per buono e come reale tutti i mondi inventati. Studi prima di girare, quindi quel mondo hai il tempo di immaginarlo e sognarlo fino a renderlo tuo.
Per questo personaggio mi sono ispirata a Michael Jackson, perché Mater si è creata una sorta di Wonderland, un mondo perfetto per lei che è rimasta bambina, essendo una tossicodipendente; infatti, tutte le persone che hanno iniziato a drogarsi da ragazzi rimangono un po’ infantili, e quindi lei si trova bene con persone molto più giovani di lei, e i suoi giochi, il suo luna park, sono le droghe, per lei questo è il mondo naturale, il mondo migliore che esista.
Certo, è un mondo crudele, dove queste droghe che vende ammazzano le persone, però è talmente persa che questo non la riguarda, non le interessa. Lei pensa di fare del bene quando prende a lavorare con sé Joy: sicuramente la vuole controllare, perché capisce che potrebbe esserci una tresca con uno dei suoi, però di base vuole farle del bene, non credo che agisca con malizia e infatti la salva anche.
È centrale il tema della grazia, la salvezza, la fede divina, in una delle prime scene c’è il Padre che dice “Only grace can save us”: tu ci credi nel “potere salvifico” che un’entità esterna può avere?
Tutto nasce dalla fede. Se uno ci crede allora un potere salvifico può salvarti; puoi anche far finta di crederci e forse ti può salvare lo stesso, d’altronde si dice “Fake it until you make it”, quindi io credo sicuramente che se uno ha fede, tutto è possibile. Non parlo di religione, parlo di qualcosa di soprannaturale più grande di te, perché sennò finisci per credere che tu sei il potere superiore e il tuo ego diventa sconfinato e diventi una persona povera. Meglio credere che c’è qualcosa più grande di te, per lo meno questo ti insegna un po’ di umiltà nella vita.
Adoro il modo in cui il film è stato girato e tra le mie scene preferite c’è quella della danza orgiastica, quando tutti ballano dimenandosi come posseduti sotto l’effetto delle droghe appena prese. Mi ha incuriosito la dinamica di quella scena ma in generale, quali sono i meccanismi che creano la chimica in un cast corale?
Con i ragazzi del mio gruppo passavamo insieme notti interminabili, perché abbiamo girato sempre di notte, in questo hangar gelato dove c’era una sola stanza con il riscaldamento, e lì ci mettevamo a parlare. Condividevamo cose sul mestiere, la vita, eravamo tutti alla pari, quindi mi sentivo a mio agio con loro, anche se sono molto più giovani di me e hanno un’altra esperienza di vita, ma mi piaceva ascoltarli e assorbire il loro entusiasmo e i loro dubbi. Mi sono identificata molto in loro.
“Meglio credere che c’è qualcosa più grande di te, per lo meno questo ti insegna un po’ di umiltà nella vita”.
Il tuo personaggio, ma come tutti e anche Joy prima di tutti, sono personaggi molto soli. Io penso che a volte la fede possa farti sentire molto solo in alcuni momenti nella vita. Mi chiedevo, qual è il tuo rapporto con la solitudine? È qualcosa che cerchi?
Io adoro la solitudine. Fin da piccola mi sono sempre sentita molto più a mio agio da sola che con gli altri, anzi soffro un po’ di fobia sociale. La solitudine, sì, la ricerco, per esempio viaggio da sola molto spesso, però poi ci sono persone con cui sono a mio agio. Ho la fortuna di avere dei figli con cui condivido molti interessi e ci troviamo bene tra di noi, quindi anche quando saranno grandi e non vivremo più insieme, non mi sentirò sola perché saprò che ci sono loro al mondo.
Mater conduce Joy sulla “strada della perdizione”; Joy è infatti un personaggio molto fragile che si lascia travolgere dalla cattiveria e blasfemia del mondo che la circonda. A te è mai capitato di sentirti persa? Se ti è capitato, in che modo ti sei ritrovata?
Per perdersi bisogna prima aversi.
Forse sono sempre stata persa, perché non sentivo mai di sapere o di avere. Però mi è capitato di ritrovarmi, quello sì.
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Vuol dire dimenticarsi della propria pelle. Quando sono troppo cosciente della mia esteriorità non sono a mio agio, quindi sto bene quando sento il corpo interiore, quando riesco a percepire cosa c’è dentro il mio corpo, sotto la mia pelle. Lì è quando sto bene, quando mi dimentico della mia pelle.
Photos by Luca Ortolani.