“Vostro Onore” e “I Sopravvissuti” sono solo i progetti più recenti di Camilla Semino Favro, che dei luoghi sacri del teatro, del cinema e della televisione ha fatto la sua casa. Camilla ci ha raccontato della sua esperienza sul set del remake italiano di “Your Honor” e dell’originale israeliano “Kvodo”, riconoscendo un lato speciale che contraddistingue la storia alla base di ogni versione: l’effetto domino degli avvenimenti che colpiscono i personaggi, in una storia che scava più in profondità di quanto sembri nell’origine degli eventi della storia e della vita. Tra studi e ricerche nel mondo dell’avvocatura e in quello accademico, Camilla ha voluto avvicinarsi il più possibile a Ludovica, il suo personaggio, per assicurarsi di raggiungere un obiettivo primario: restituire una figura realistica e riconoscibile.
In attesa dell’uscita della serie “I Sopravvissuti”, dal 28 marzo in onda su Rai Uno, Camilla ci ha svelato alcuni retroscena, tra cui l’esperienza irripetibile della ricostruzione di naufragi e tempeste, tra onde finte e infinite sequenze di stunt.
Con i suoi modelli e ispirazioni condivisibili e “rischiosi”, Camilla ci ha raccontato la sua paura di sbagliare, e il suo desiderio parallelo di farlo senza remore, per imparare ad apprezzare l’utilità nascosta in ogni errore, sul palcoscenico, sul set, e nella quotidianità.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Il mio primo ricordo legato al cinema risale a quando mio papà, nel ’96 più o meno, mi ha portato a vedere “Jumanji” al cinema. Sicuramente, ero già stata al cinema anche prima di allora, portata da mia mamma, da mio papà, ma anche da nonni, zii, cugini, probabilmente a vedere cartoni Disney, però il ricordo più limpido che ho è di “Jumanji” con mio padre, quando avevo circa 10 anni: mi ricordo che mi piacque tantissimo.
Sei la protagonista femminile di “Vostro onore” di Alessandro Casale, il remake italiano, attualmente in onda su Rai Uno, della serie israeliana “Kvodo”, da cui è tratta anche “Your Honor”, la versione americana con Bryan Cranston. Quale aspetto particolare del progetto ti ha fatto interessare alla serie?
L’aspetto particolare che mi ha colpito della serie, avendo visto sia “Your Honor” che “Kvodo”, è che fosse in entrambi i casi una serie “travestita”: un apparente legal crime che, in realtà, ad osservare bene (ma neanche così approfonditamente), emerge chiaramente come una serie molto più profonda e psicologica, di cui il crime e il legal sono solo la parte superficiale, quasi il pretesto e il tema della storia, che però serve a portare i personaggi verso un approfondimento verticale nel senso vero e proprio del termine, perché è una serie che “casca molto giù”, che scava molto in fondo.
In entrambe le versioni, sia quella con Bryan Cranston sia quella israeliana, l’avvenimento è un pretesto per andare a scavare nel tema delle scelte dei personaggi, sia lavorative ed etico-lavorative, sia scelte morali, profonde e personali; personaggi che, uno per uno, vengono colpiti come un domino da questo evento scatenante iniziale, e questo è stato il punto che mi ha particolarmente colpito sia della serie americana che di quella israeliana e che poi, chiaramente, è stato riportato in quella italiana.
La serie è incentrata sulle conseguenze di un delitto commesso dal figlio di un giudice (interpretato da Stefano Accorsi) e tu interpreti un giovane avvocato che fatica a farsi strada in quel mondo lavorativo difficile per le donne. Quando hai ottenuto la parte e ricevuto le sceneggiature, qual è stato il tuo primo pensiero e la prima domanda che hai rivolto al regista e a te stessa?
Una volta letta la sceneggiatura, i primi pensieri e le prime domande sono stati legati principalmente alla costruzione del personaggio e, soprattutto, alla restituzione di un personaggio realistico. Al di là del fatto che la struttura della storia era perfetta e anche l’arco narrativo era già perfetto nel format iniziale e poi riadattato da Donatella Diamanti per l’Italia, i miei dubbi sul personaggio riguardavano il modo in cui io, che sono molto diversa dalle due attrici che hanno interpretato il mio ruolo nella serie israeliana e in quella americana, sia a livello di carattere che fisicamente, potessi restituire una giovane avvocata che fosse realistica; volevo cercare il più possibile di staccarmi dallo stereotipo dell’avvocato, quello dell’immaginario comune nato da molte serie e film, l’avvocato in giacca e cravatta o l’avvocata in tailleur e tacchetto. Nel mio immaginario, quell’ideale fa così tanto anni ‘80/’90, quindi la domanda principale che mi è venuta in mente è stata: visto che io non conosco il mondo dell’avvocatura, né tanto meno quello universitario degli studenti di legge, come sono queste persone? Volevo capirlo anche, banalmente, attraverso un lavoro di studio e ricerca negli atenei e nei tribunali o studi legali, per farmi un’idea e rendere umano il mio personaggio, per le persone che guardano la serie e che magari possono rivedere in lei la propria figlia, compagna o sé stessa e riconoscere: “Effettivamente io quando lavoro sono così”. Quindi, volevo cercare il più possibile di umanizzare e radicare un personaggio che a volte è un po’ troppo stereotipato.
Un secondo obiettivo che mi sono posta è stato quello di cercare un arco narrativo di rapporto con Vittorio Pagani che fosse il più organico possibile, perché all’interno del delirio degli avvenimenti c’è anche questa linea importante, delicata e fragile della relazione tra Ludovica e Vittorio, un rapporto che va dal lavoro all’amore e al desiderio, e quindi doveva essere pensato e costruito in modo credibile.
Qual è stato il tuo approccio al personaggio e al genere thriller/giudiziario? Quanto e cosa c’è di te nella tua interpretazione?
Non mi sono esattamente approcciata al genere thriller/giudiziario: lo riconosco, è una linea presente, ma per approcciarmi al mio personaggio ho dovuto fare un lavoro legato ai rapporti e alle relazioni con gli altri personaggi della serie, quindi, come dicevo, con Vittorio Pagani, Nino Grava e Sara Vichi.
Quindi, il thriller e il giudiziario arrivano di conseguenza, partendo dai rapporti e dalle relazioni.
Nell’interpretazione, di mio ci sono cose che avvengono quasi inconsapevolmente, che fioriscono mentre stai girando, non te ne accorgi e poi vedi la serie e dici: “Ah, ma questo tratto qua è un po’ mio!”. Di mio, forse, c’è proprio il fatto che Ludovica, quando lavora, essendo meno esperta, giovane, nella fase iniziale del suo percorso lavorativo, tende a fare la grossa, a darsi un tono, soprattutto quando lavora con Nino Grava, il suo assistito che ha un atteggiamento piuttosto sbruffone e, di conseguenza, anche lei inizia a reagire come lui, comportandosi da sbruffona; poi, però, c’è il contraltare, ovvero, nel momento in cui gira l’angolo, si infragilisce immediatamente e affiora un’enorme insicurezza, quasi al limite della goffaggine, con tutte le sue borse, per esempio. Questi sono i tratti del personaggio che un pochino riconosco come miei.
Quanto ti ha aiutato/influenzato vedere la serie americana e l’originale israeliana prima di iniziare le riprese?
Ogni tanto, riguardavo dei pezzetti delle serie americana e israeliana anche mentre stavo girando, un po’ per capire cosa rubare dai due personaggi, cosa allontanare e da cosa staccarmi completamente. Quindi, guardare le serie prima è stato utile anche per leggere le differenze tra le varie versioni, per imparare a prendere le distanze e trasformare il personaggio, farlo diventare mio senza andare ad emulare qualcosa che non ti appartiene; è servito per capire cosa non faceva parte della Ludovica di “Vostro Onore”, quindi per cercare di avvicinare il personaggio a me.
“Imparare a prendere le distanze e trasformare il personaggio”
Fai parte del cast della serie “I Sopravvissuti”, di Carmine Elia, una produzione internazionale di RAI Fiction, France Télévisions e ZDF, in onda su Rai Uno dal 28 marzo. La storia è quella dell’Arianna, una barca a vela che parte per una traversata oceanica, subisce un naufragio e scompare dalla vista dei radar, per farsi ritrovare a distanza di un anno con sette sopravvissuti (su 12 passeggeri) a bordo. Cosa dobbiamo aspettarci da questa fiction?
“I Sopravvissuti” è una grande sfida, da tutti i punti di vista, sia della storia che della produzione. Ci si aspetta qualcosa di nuovo, rischioso, e a livello di plot ci si aspetta un intreccio fitto e profondo tra dei personaggi che nell’arco della storia si andranno a rompere e sgretolare sempre di più.
Ci puoi raccontare qualche dettaglio/curiosità sul tuo personaggio e sulla tua esperienza sul set?
Sul mio personaggio non vorrei spoilerarvi troppo… Ma posso dirvi che quello delle riprese è stato un bellissimo periodo, soprattutto quando abbiamo girato la parte del naufragio, per un mese e mezzo negli studios di Tiburtina, con una gigantesca barca a vela ricostruita, che si inclinava, si muoveva, con tanto di pioggia, onde, tutte le attrezzature per simulare una tempesta e replicare il movimento vero e proprio della barca a vela.
Chiaramente, quando abbiamo girato la scena della tempesta è successo un po’ di tutto, si aprivano cassetti, volavano posate. È stato tecnicamente complesso e c’è voluto molto lavoro tra attori, operatori e stunt tra vetri che esplodevano e litri d’acqua sul ponte e nelle cabine.
Come descriveresti “I Sopravvissuti” in una sola parola? E una per “Vostro onore”?
La parola per “I Sopravvissuti” è “branco”, inteso proprio come gruppo di animali più o meno della stessa specie. Invece, per “Vostro onore” la parola è “scelte”.
Sei in tournée con lo spettacolo “When the rain stops falling”. Cinema, televisione e teatro: quale di questi mondi senti più tuo e in quale ti senti più a tuo agio?
Sicuramente, mi sento più a mio agio nel mondo del teatro, perché sono più abituata al palcoscenico; ho iniziato a fare teatro quando ero ragazzina, amatorialmente, poi ho frequentato la scuola di teatro al Piccolo di Milano. Ho iniziato a lavorare nel 2008 principalmente in teatro e sono cresciuta in quell’ambiente. Poi, ho iniziato pian piano ad inserire nel percorso il lavoro cinematografico e televisivo che, in questi ultimi anni, è aumentato. Sono solo più abituata al luogo del teatro e quindi mi sento più a casa lì.
Come vivi le differenze tra un set e palcoscenico, quelle visibili a tutti, come la “libertà” di sbagliare e dimenticare le battute che in teatro non hai, e quelle che magari chi è fuori da quel mondo non conosce?
In realtà, io la vivo in modo un po’ contrario, nel senso che nel teatro, proprio perché ci sono più abituata, nonostante la maggior parte delle volte lì sia tutto già strutturato nel periodo delle prove e molto fisso, come il testo e i movimenti, mi sento più libera di giocare, di rischiare, di fare piccoli-medi cambiamenti, di giocare con i colleghi, e di mettermi un pochino più in pericolo.
Al cinema invece, forse anche perché sono un pochino meno abituata al set, mi sento sempre un po’ rincorsa dal fantasma della mancanza di tempo, e quindi, avendo pochi take, entro subito in una modalità più organizzata e “performativa”, mi sento meno libera di poter sbagliare; in quel contesto, ho la tendenza a strutturarmi tutto un po’ prima, in modo che così so che durante quei due, tre, quattro take la scena la faccio in un certo modo. Ovviamente, questo un pochino mi lega, diciamo che dovrei imparare a superare questo limite e sentirmi molto più elastica, nonostante ci sia meno tempo e non sia previsto il periodo di prove, dovrei trovare il modo di sentirmi più libera di sbagliare, di cambiare nel momento in cui sto girando con un collega, magari. Sicuramente, sul set ho più libertà di modificare la sceneggiatura sul momento, parlando con gli autori o con il regista, però quando giro, paradossalmente, sono molto più rigorosa sul set che a teatro in replica.
“Mi sento sempre un po’ rincorsa dal fantasma della mancanza di tempo…”
Qual è stato l’incontro cinematografico più significativo della tua carriera, finora?
Al momento, il più significativo per me è stato Daniele Vicari, quando ho girato il mio primo film con lui, “Diaz – Don’t Clean Up This Blood”, sia a livello di esperienza sul set, sia a livello di tematica affrontata. Sono genovese e anche se ero piccola, ho visto la tragedia nella mia città. Lo studio e l’approfondimento fatto con Daniele in preparazione e sul set mi ha colpita e profondamente segnata.
Chi o cosa ti ispira sul lavoro, ma anche nella vita di tutti i giorni?
Mi ispirano le persone che collaborano. Nella vita e nel lavoro.
Mi ispirano le persone che sanno vedere i propri errori e accettarli, le persone che sanno mettersi in dubbio senza troppi problemi. Mi ispira il luogo del teatro, sia strutturalmente che concettualmente, il luogo sacro del teatro. Poi, mi ha sempre ispirato Mariangela Melato, anche se ora tendo meno a pensare ad una persona specifica ma più a dei concetti e dei luoghi, ma l’ho sempre trovata una donna straordinaria e un’attrice che ha avuto il coraggio di fare delle scelte lavorative e di vita piuttosto rischiose e non convenzionali.
Un personaggio di un film o serie TV che ti piacerebbe avere come amico?
Ho sempre desiderato essere amica di Alf, l’alieno che viene dallo spazio della serie tv omonima degli anni ’80.
Un personaggio realmente esistito che ti piacerebbe interpretare?
Moana Pozzi?.. Anche se l’hanno già fatto, e poi non c’azzecco un cazzo! [ride] È però stato un pensiero che mi ha attraversato la testa quando ho visto la miniserie fatta sulla sua vita. È stata una figura misteriosa, delicata e contestata del panorama italiano. Mi piacerebbe interpretare un personaggio lontano dall’immagine che gli altri hanno di me e da quello che mi viene di solito richiesto di interpretare.
La collaborazione dei tuoi sogni?
Ettore Scola e Lina Wertmüller in un’altra epoca; attualmente, Paul Thomas Anderson… così, per volare altissimo.
Un epic fail sul set?
Alcuni pessimi commenti su una sceneggiatura e una scena durante le riprese, col microfono accesso, con lo sceneggiatore presente, seduto con le cuffie. Grande classico! [ride]
Il tuo must have sul set?
Burro di cacao e sigarette.
Cosa significa per te “sentirsi a proprio agio nella propria pelle”?
Significa sperimentare, sbagliare, fare cose banali e superficiali senza sentirmi giudicata, fregandomene e, anzi, trovando anche qualcosa di assolutamente utile, interessante e inaspettato nella semplicità e nella banalità dell’errore.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Scegliere di fare questo lavoro in un’età in cui sei completamente inconsapevole di quello che stai facendo. Quindi, a 16/17 anni ho operato una scelta assolutamente rischiosa e coraggiosissima, perché non sapevo di cosa stavo parlando, non avevo la minima idea di che cosa sarebbe stato questo lavoro, mi sono semplicemente detta: “Ma sì, facciamo questo lavoro che mi piace tanto!”.
Di cosa hai paura?
Ho paura dell’autostrada, di guidare in autostrada, di alcuni tipi di insetti, tipo le scolopendre e gli scorpioni, di It, il pagliaccio (sì, ho ancora paura di lui, dopo esserne rimasta traumatizzata a 6 anni), di cadere, di non riuscire a prendermi la responsabilità delle cose, e di perdere la fiducia in me stessa nel tempo.
Qual è l’ultima cosa/persona che ti ha fatto sorridere, oggi?
L’ultima persona che mi ha fatto sorridere è stata una mia collega dello spettacolo che sto facendo.
“Ho paura […] di cadere”
La tua isola felice?
La mia isola felice sono io, tra un bel po’ di anni, su una spiaggia di sassi della Liguria, su un lettino, a giugno, che non fa ancora troppo caldo, con un ghiacciolo. Questa è la situazione che mi calma, che mi ricorda i miei nonni, la mia infanzia, il mio passato, e ci sto proprio bene.
Photos by Johnny Carrano.
Makeup and Hair by Claudia Raia.
Styling by Sara Castelli Gattinara.
Thanks to Others srl.
LOOK 1
Total look: Missoni
Earrings: Voodoo Jewels
LOOK 2
Total look: Dixie
Rings: Voodoo Jewels, Nali
Boots: Sandro Paris
LOOK 3
Total look: Woolrich
Earrings: Voodoo Jewels
Rings: Nali
Boots: Jimmy Choo