Chantal è creatività pura. Chantal è libertà. Chantal è make-up artist, ma per me è una grande amica, e per noi una collaboratrice generosa ed intelligente. Chantal si evolve sempre e non lo fa con un trend, ma con sé stessa.
Chantal è un’insegnante senza segreti, ha solo consigli da dispensare. Abbiamo conosciuto Chantal con la nostra prima intervista qui su The Italian Rêve e fin da subito una cosa è stata chiara per tutti: non ci saremmo mai più lasciati. Perché, quando si incontra una persona che è pronta a dare tutto, indipendentemente da quello che ha fatto, senza snobismi o cinismo, è davvero un qualcosa di prezioso, sia a livello umano che professionale. E così è cominciato un percorso di conoscenza e condivisione a cui abbiamo voluto dare ora un accento in più: le abbiamo chiesto di essere sé stessa davanti alle nostre lenti, di aprirsi come non aveva mai fatto prima in un’intervista, di parlare di sé stessa, della sua adolescenza, ma anche di perdita, solitudine e fiducia, un qualcosa che, con questa esperienza insieme, ci siamo donati tutti.
Tutti abbiamo imperfezioni, in molti guardiamo all’altro con un occhio di mancanza verso sé e pochi riescono a fare pace con sé stessi, dandoci il rispetto che meritiamo. E Chantal ci parla anche di questo: di quanto sia difficile essere buoni con sé stessi, di quanto la lotta che si compie dentro possa essere dura ma di quanto si può essere forti ed orgogliosi di sé stessi e di come, a volte, l’amore possa essere davvero una cura.
Vi presentiamo quindi la nostra Cover di aprile che, ancora un volta, con le sue parole e il suo “mettersi a nudo” ci ha dato tanto e che sappiamo può essere d’ispirazione a tutti coloro che vogliono intraprendere un percorso difficile e che vogliono aprire una conversazione importante su temi come l’accettazione di sé.
Chantal è così com’è, con me, davanti ad un bicchiere di vino rosso (e forse qualche lacrima).
Se pensi alla tua infanzia e alla tua adolescenza, sono due periodi per te completamente diversi? Pensi alla tua infanzia come ad un momento felice?
Sì, l’infanzia sicuramente come qualcosa di felice, fino alla terza media; il liceo un po’ di meno. Al liceo, è come se all’improvviso avessi preso coscienza che il mondo era diverso da quello che mi immaginavo. La percezione fisica di me stessa ce l’ho avuta veramente tardi rispetto anche ai miei coetanei del tempo e la percezione di me stessa fisicamente, l’ho avuta dagli altri. Io ho scoperto la mia fisicità, il discorso dell’apparenza, di come eravamo esteticamente, attraverso le risposte che ricevevo dal mondo esterno. Per me è stato veramente strano, non piacevole, a dir la verità. E non sembrava, perché ero una ragazzina carina, ma ero super nel mio mondo.
Come ragazza ti sei sentita, in questo periodo, attaccata dalle altre ragazze? Ti sei mai sentita, in qualche modo, bullizzata?
Sì, “avoglia”. Ho avuto un periodo, che è stato proprio quello dei primi anni di liceo – anche se tutto il liceo è stato così per me, molto duro. Mi ricordo di un episodio in cui ero in bagno, il primo anno di liceo, e avevo già cambiato una scuola a metà anno (perché non mi ero trovata bene nell’altra) e in questa nuova scuola, in bagno, sentii una frase di due ragazze della mia classe che parlavano del compleanno di un’altra ragazza, di organizzarle una festa a casa, e dissero: “no, invitiamo tutti tranne Chantal, perché sennò tutti i ragazzi parlano con lei”.
Io a quella cosa ho reagito malissimo, sembrerà assurdo, e non so come sia successo, ma in qualche modo io, per essere accettata, ho iniziato a cambiare molto esteticamente, a nascondermi, a imbruttirmi, a vestirmi malissimo, con vestiti larghissimi, super oversize, e questa cosa mi è rimasta un po’ anche adesso. Se mi metto vestiti aderenti, o qualcosa di sexy, è perché mi sono svegliata particolarmente sicura di me stessa. Anche con i capelli, facevo delle cose incredibili. Considera che tutte le foto di quegli anni le ho eliminate, le ho tagliate e buttate. Mia madre ne conserva ancora qualcuna, ma abbiamo fatto un patto solenne che lei non le avrebbe mai fatte vedere a nessuno.
Ero io ma non ero io, si vedeva proprio che c’era qualcosa che non andava.
“Io ho scoperto la mia fisicità, tutto il discorso dell’apparenza, di come eravamo esteticamente, attraverso le risposte che ricevevo dal mondo esterno”.
In quel momento, hai sentito di aver bisogno di qualcuno, di un aiuto? O hai sentito che ti è mancato qualcosa? Come sei riuscita ad affrontare la situazione… alla fine non hai reagito col fregartene, ma hai reagito col cercare di farti accettare da queste ragazze nascondendo il tuo aspetto… Come sei riuscita a uscirne?
Con l’uscita dal liceo, perché gli anni del liceo sono stati quelli. È un meccanismo che mi è un po’ rimasto, onestamente, nel senso che, soprattutto nell’ambiente in cui lavoro adesso, dove l’apparenza è importante (anche se adesso a 34 anni, non mi interessa più) mi rendo conto che, spesso, c’è un certo stupore da parte di molte persone che mi conoscono: molte all’inizio hanno un certo approccio che poi cambia man mano che mi conoscono. Noto sempre un po’ di diffidenza, come se ci fosse qualcosa di strano sotto, un inghippo particolare della serie, “ah, sei carina, sei una bella ragazza, però sei anche alla mano, sei intelligente, leggi libri, ti interessi di quello che succede nel mondo, hai le tue idee…”, come se qualcosa stridesse in qualche modo, “dove sta l’inghippo? Non è possibile”. Ma questo credo che sia legato al lavoro che faccio adesso. Io non ho mai pensato, nella mia vita, di fare il lavoro che faccio adesso, di tutti i lavori che ho sognato e immaginato di fare, mai ho pensato, neanche una volta, di fare del make-up e del beauty il mio lavoro, mai, e questa cosa è strana.
Te ne sei innamorata un giorno oppure è stata una cosa abbastanza graduale?
È stata una cosa graduale nel senso che è iniziata per necessità. Studiavo all’università, e per mantenermi gli studi e in generale, ho iniziato a lavorare; invece di fare la cameriera, ho fatto un corso di makeup. Poi ho iniziato a lavorare con sostituzioni, punti vendita, profumerie… e ho scoperto che era una cosa che mi appassionava e mi piaceva. Me ne sono accorta quando ho accettato il primo lavoro dopo essermi laureata. Io facevo un altro lavoro, tra l’altro in un’azienda in cui mi trovavo benissimo, un’azienda a produzione familiare di import-export, ma poi mi sono resa conto che non era il lavoro per me, perché, per citare le parole di mia madre, “mi ero spenta”, andavo al lavoro, tornavo, ma mi “accendevo” solamente quando andavo a lavorare per esempio da MAC. E mi chiedevo: “ma com’è possibile, hai il lavoro per cui hai studiato, e poi vai a fare la commessa e sei felice?”, tutto questo visto anche nell’ottica di mia mamma, che ha fatto dei sacrifici per farmi studiare.
Fortunatamente, ho avuto il supporto della mia famiglia, però fino ad un certo punto, nel senso che il supporto c’è stato, ma non è stato così impattante perché ero già grande, avevo già 23 anni, non ero una ragazzina. Quindi, diciamo che mi sono lavata i panni dentro casa mia, con me stessa [ride], ma è stato bello, ho affinato l’arte dell’introspezione.
Prima hai parlato del nascondere te stessa, del non essere sicuri, invece adesso, per Chantal, cosa vuol dire essere sicuri di sé? Anche se magari è una cosa con cui lotti ancora…
La sicurezza, onestamente, me la dà i risultati. Spesso, i momenti in cui sono giù emotivamente mi capitano perché magari mi impegno in una cosa e non vedo i risultati, e lì mi vengono i dubbi. Io ho sempre ammirato le persone che nonostante tutto vanno avanti, quelle sono le persone che ammiro di più in assoluto nel mondo, le persone che prendono merda tutti i giorni e nonostante tutto continuano per la loro strada, per me sono degli eroi, gente veramente illuminata. Io, invece, quando mi impegno tanto e non ho risultati, mi faccio tanta “mea culpa”, nel senso che mi rendo conto che probabilmente ho sbagliato qualcosa, però ho imparato ad essere un po’ più indulgente con me stessa, a valutare anche dei fattori esterni che non dipendono direttamente da me o sui quali non posso avere controllo. Quindi, se il risultato non arriva, non è perché non mi sono impegnata o non valgo, ma è perché magari in quel momento il mercato chiede qualcos’altro, o perché su Instagram vanno di moda altri profili.
Invece, per quanto riguarda te stessa? Il guardarti allo specchio, sentirti sicura di te, tralasciando il lavoro?
Mi viene da piangere con questa domanda, non so perché, te lo giuro, sarà il vino… [ride] Quando mi guardo allo specchio, a volte non mi riconosco, a volte penso che, se tornassi indietro, farei cose completamente diverse da quelle che ho fatto. Però, ci sono tante persone che mi vogliono bene e, soprattutto, che mi hanno voluto tanto bene nei momenti in cui ne avevo più bisogno, che magari mi hanno detto frasi “stupide”, ma tipo: “guarda dove sei arrivata”. Te lo dico in tutta onestà: so che tante persone che hanno il sogno di fare quello che faccio io, non arrivano, non sono arrivate, non arriveranno mai a fare le esperienze che ho fatto io, e non dico al livello a cui sono io, ci mancherebbe altro, ma questo per me è un dono grandissimo. Me lo sono guadagnato, assolutamente, perché, in tutta onestà, nel mio lavoro non ho mai avuto una raccomandazione, anzi, spesso ho lottato per farmi valere, quindi me lo sono conquistato onestamente, senza sotterfugi, con il mio lavoro e con il mio modo di fare sul lavoro.
Sono cresciuta con l’educazione per cui se prendevo 8 mia mamma mi diceva, “hai fatto il tuo lavoro”, non “brava” e, giustamente, quello che ti viene richiesto è studiare, portare risultati. Quindi, anche solo per quelle persone che si fanno il culo ma non arrivano mai ad avere le possibilità che ho avuto io di fare certe cose, quando mi guardo allo specchio e magari sono un po’ giù, mi dico: “sì, però ricordati che c’è gente che pagherebbe per aver fatto anche solo una delle esperienze che hai fatto tu, quindi non rompere il cazzo Chantal” [ride].
“Quando mi guardo allo specchio, a volte non mi riconosco…”
Quali sono stati i tre “vaffanculo” migliori e più grandi della tua vita, finora?
Un “vaffanculo” è stato ad un’azienda per cui lavoravo, che mi ha dato tanto e a cui io ho dato tantissimo, per delle dinamiche che lì per lì non ho capito, ma adesso comprendo un po’ di più conoscendo il settore, anche se comunque non le condivido. Però capisco che è già un passo avanti, vuol dire che sono cresciuta in questi anni, mi stavano stretti i panni che vestivo, non perché volessi avere un qualche riconoscimento, volevo solamente avere una possibilità, che avrei ricambiato con tutta me stessa. Quando mi sono resa conto che stavo continuando a dare tanta energia ad un’azienda che non era pronta, non poteva, non voleva, e aveva le sue dinamiche interne assolutamente comprensibili – quindi nessuna critica, in realtà, nei confronti dell’azienda – ho detto basta. C’è stato un momento in cui mi sono pentita, magari agli inizi, quando lasci un lavoro sicuro, con uno stipendio fisso ogni mese, che a me serviva, perché non vengo da una situazione in cui mi posso permettere di dire, “no, in questo mese non lavoro”. Però mi ha ripagata, anche nei momenti più difficili, ero felice di quello che facevo, anche quel poco che facevo, lo facevo veramente con tanto cuore, e, soprattutto, tornavo a casa la sera e dicevo: “vabbè, non ho guadagnato, però ho fatto quello che mi piace”; ovviamente, non ho figli da mantenere, quindi me lo potevo permettere.
Il secondo grande “vaffanculo” è stato una relazione super tossica con un ragazzo che mi piaceva proprio tanto, non so neanche perché ma, nel momento stesso in cui ho detto quel “vaffanculo” lì, la mia vita, anche lavorativamente parlando, ha preso una piega completamente diversa. Quello è stato un “vaffanculo” detto con rabbia e con esasperazione.
Il terzo, abbastanza recente, è un “vaffanculo” detto con amore, perché quando l’ho detto c’era ancora tanto amore, ma è stato forse il “vaffanculo” più importante, perché l’ho detto per me stessa, non come “vaffanculo, ti odio, non ti amo più, mi hai fatto del male”, no, era un “vaffanculo, metto avanti me stessa, i miei desideri” e, onestamente, è anche un “vaffanculo” abbastanza recente, detto con tanti pianti e tanta sofferenza, ma da quando l’ho detto, in poco tempo la mia vita ha preso ancora una volta una piega completamente diversa, non solo nel lavoro, ma anche nell’amore.
Ti sei mai sentita sola, o ti senti mai sola? Come hai vissuto e come vivi la solitudine?
Allora, un mio amico, una volta, al liceo, mi disse: “Chantal, la solitudine è il destino di tutti i grandi spiriti”. Questa frase me la ripeto ogni volta che ho un momento di solitudine, come per dire “Chantal, se ti senti sola, è perché il tuo spirito, grande, non può trovare un compagno di viaggio così grande, ma sei sola con te stessa e va bene così, ci vuole, è il tuo spirito che si espande e quindi si sente solo”. La vedo così. Tra l’altro, è per questo che ho il tatuaggio “Never Alone”, in tanti mi chiedono che c’è scritto, perché si leggono solo quattro dita, quindi “neve” e “lone” [ride]. In realtà, è per ricordarmi che anche quando mi sento tanto sola, non lo sono e non lo sarò mai, perché comunque ho vicino tante persone che mi vogliono bene, ho una famiglia incredibile, e anche quelli che non ci sono più mi guardano da su.
“Vaffanculo, metto avanti me stessa, i miei desideri”.
Cosa ti fa sentire al sicuro, invece?
La cena a casa di mamma… Mamma è sicuramente la cosa che mi fa sentire più al sicuro. La mia mamma mi dice sempre, “chi ha mamma non trema”, me lo dice sempre. Poi, mi fa sentire al sicuro papà quando mi chiama “polpettina mia”, ancora adesso, potrei perdere 500 chili, essere secca tirata, o pesarne 200 di chili, avere 70 anni, te lo giuro, papà mi chiamerà sempre “polpettina”, e chiama solo me così.
Poi, adesso, mi fa sentire al sicuro quando sto con il mio compagno, e per me è stranissimo, perché non mi sono mai affidata a un uomo che non fosse un membro della mia famiglia. Nella mia famiglia, diciamo queste frasi incredibili, pesanti, tipo questa, riferita ai partner: “sono sangue appiccicato”; è una frase forte, bella in realtà, perché dà valore al sangue di appartenenza, e allo stesso tempo ti fa capire che non è che una persona che ti ama non è sangue, ma è “sangue appiccicato”, cioè della serie finché lo tieni è tuo, sennò tu vai avanti lo stesso.
Per me è veramente strano pensare che io possa sentirmi al sicuro con una persona, non tra le braccia, ma con una persona che prima non sapeva della mia esistenza e io non sapevo della sua. Non mi è mai successo nella vita, ma quando ero ragazzina, una volta, in un bar, c’era una signora, una cartomante; lei si avvicinò al bancone, e guardandomi, dal nulla, mi disse: “tu troverai l’amore da grande”. Tu sai quanto io ho aspettato questo “grande”? A 20 anni ero grande, a 27 ero grande, a 30 ero grande… e mi dicevo: “cazzo, a 31 sarò grande?” No! Ora ne ho 34, e mi dico: “forse adesso sono grande abbastanza!”
Come hai vissuto, nella tua vita, la violenza? Non necessariamente intesa come violenza fisica, ma anche come qualcosa di più mentale, quindi che sia stato uno schiaffo, o anche semplicemente le pressioni della società in cui siamo nati… Penso spesso a quanto dev’essere difficile, oggi, essere ragazze, per esempio.
Io ho rispetto totale dei ragazzi di oggi. Spesso, si sentono frasi da boomer sul fatto che la gioventù di oggi sia allo sbando… In famiglia, discutiamo spesso di questi argomenti, cioè la generazione dei nostri genitori – quindi persone nate tra il ’50 e il ’60 – è gente che ha avuto tutto, che ha avuto la possibilità di trovare un lavoro, di fare il lavoro che sognava, gente che ha trovato un lavoro sicuro, che ha messo i soldi da parte, che ha comprato casa; poi, c’è la nostra generazione, i nati negli gli anni ’80, quelli che, secondo me, sono stati i più penalizzati in assoluto, perché chi è nato dagli anni ’90 in poi ha l’upgrade della tecnologia, cosa che noi degli anni ’80 non avevamo; noi l’abbiamo imparata, voi ci siete nati e cresciuti dentro. Io vedo la differenza tra me e mio fratello, che è del ’94, lui sta una spanna sopra, nel senso che ha avuto la possibilità di fare più cose, infatti è giovanissimo e ha fatto tante più cose.
Però io, in quanto membro della mia generazione, mi definisco “guerriera”, che poi è il soprannome che mi dà mamma; oggi devi essere un “ninja” [ride], non basta essere un guerriero. Ripensando alla me ragazzina, non so se sopravvivrei alla società di oggi con la sensibilità che avevo quando ero piccola. Come fai, oggi, a guardarti allo specchio e accettarti? Ci sono dei canoni… Quando io andavo alle medie, non c’erano canoni, c’era quella che aveva le tette, e tutti la invidiavamo perché aveva le tette.
I miei canoni erano le veline di “Striscia la notizia”, e anche lì c’è qualcosa di malato…
La mia era ancora l’epoca delle Barbie, che forse sono peggio delle veline, almeno la velina è reale, si muove, il balletto lo sa fare… La Barbie che fa? Niente. Oggi, ancora peggio, forse è una versione terribile della Barbie, una cosa che tu non conosci, non vedi, ma può raccontarti come vive e quello che fa attraverso i social, e tu idealizzi non solo l’aspetto fisico, ma proprio lo stile di vita, e tu aspiri a quello stile di vita. La differenza più grande che noto è questa: io, quando ho accettato i primi lavori, non ho mai chiesto lo stipendio, mai, ho firmato contratti senza mai chiedere lo stipendio, perché per me l’importante era lavorare e fare esperienza; oggi, non c’è neanche più il discorso del leggere il contratto, ma conta solo “quanti soldi posso fare con questo impegno giornaliero, se ne vale la pena è bene, sennò meglio niente”.
Spesso è così, perché c’è un po’ questa chimera dei soldi facili che effettivamente si possono fare. Non a caso, è da poco uscito il film con Giulia De Lellis che, per carità, ha creato un impero, però rientra nel discorso degli influencer, motivo per cui io non mi definirò mai un’influencer anche perché, probabilmente, non farò mai i soldi che fa un influencer [ride], solo per quello, non perché li disprezzerei.
“Oggi devi essere un ninja, non basta essere un guerriero”.
Ma anche perché tu sei una professionista, sei una Pro makeup artist, c’è una differenza. Se tu influenzi le persone, le influenzi con la tua tecnica, con i tuoi messaggi positivi, con il fatto che ti prendi cura della tua pelle in un certo modo, non è un’influenza determinata da uno stile di vita basato sul “niente”; la tua è un’influenza di aspirazione, che è quello che fai anche con i tuoi corsi, tu insegni, tu fai qualcosa di educativo, di importante e che può aiutare.
Mi piacerebbe fare molto di più. Ci sono delle volte in cui vorrei aprire Instagram, fare delle stories per dire qualcosa, ma poi mi dico, “no, vabbè, penseranno che sono pazza”. Mi ferma il pensiero che magari non sia in target con il mio profilo, perché magari è un argomento diverso dal make-up, dal beauty, e quindi penso che magari la gente possa dire “ma di che cavolo parla Chantal? Di situazioni nel mondo, o di aspetti sociali?” Non lo so…
È giusto farsi delle remore perché tu, ovviamente, hai un profilo specifico, e tutti conoscono la tua intelligenza, la tua generosità, perché ce n’è tanta in quello che fai, nei corsi e in quello che dici, come il corso che abbiamo fatto insieme poco tempo fa, in cui tu hai detto: “non esistono segreti del mestiere, sono cose che si condividono, nessuno farà quella cosa lì come la faccio io, nessuno la farà come la farai tu”. Quella è una cosa importantissima. Io sono cresciuta con l’idea – non perché me l’abbiano detto i miei genitori, che sono sempre stati il mio più grande supporto – che io lì non ci potrei mai arrivare, perché ci è arrivata un’altra persona; invece, tu stai dicendo “io sono arrivata qui, questi sono i miei ‘segreti’, e li condivido con voi perché siamo tutti diversi, perché ognuno di voi prende quello che può da me, siamo tutti unici”. Questa cosa che dici è generosissima, forse non te ne rendi conto…
Lo spero [ride]. Comunque, ricollegandomi al discorso della violenza, sì, la società di oggi è violenta, ed è incredibile come, se penso ad Instagram, tutti i filtri che ci sono su Instagram siano inversamente proporzionali ai filtri che la gente usa nel comunicare tra di loro. C’è una cattiveria incredibile, una violenza incredibile.
Tu hai mai subito bullismo, violenza sui social?
Onestamente, a parte commenti sull’aspetto fisico, no, ma quelli che ho ricevuto sull’aspetto estetico mi hanno fatto sorridere, perché io so quanto ho combattuto contro l’aspetto estetico per l’accettazione di me stessa, quindi chiunque si scagli contro di me trova un muro di pietra, già indurito da tutte le volte in cui io stessa mi sono scagliata contro me stessa. Dunque, in realtà, quel tipo di violenza non mi tocca. Io ho una community che credo sia abbastanza fedele, una community di qualità, credo di avere follower di qualità, intellettualmente parlando, gente che stimo perché, in qualche modo, ha una sensibilità. Se segui me, che non rispecchio quello che è di moda sui social oggi, e neanche ieri, e neanche l’anno scorso, è perché vai oltre e, magari, vedi qualcosa di diverso; non dico che quello che faccio io è diverso, è unico, è sicuramente diverso da un trend. Io le cose in trend non le faccio, perché non riesco a farle, non ce la faccio, le faccio fare da chi è più bravo, e sicuramente c’è qualcuno che è più bravo di me. Tipo i trucchi, quelli esagerati che poi mi vergogno a uscirci, non me li faccio, io voglio truccarmi, farmi un video, e dire “ammazza, quanto so’ figa, ci uscirei”.
Comunque, a parte questo, io mi sono ritrovata a fianco persone, a livello relazionale, che hanno avuto degli atteggiamenti violenti nei miei confronti: non li voglio giustificare, però spezzo una lancia in loro favore, nel senso che tutti noi abbiamo dei momenti bui. Io stessa sono stata violenta in alcune discussioni che ho avuto con alcune persone con cui stavo insieme, non con persone a caso, ma mi sono vergognata tremendamente di quelle cose, ancora oggi me ne vergogno. Ho chiesto scusa, e chiedo scusa, magari erano anche piccoli gesti, però sprezzanti, che hanno ferito la persona che avevo di fronte, semplicemente perché avevo le mie ragioni, però magari avrei potuto palesarle in maniera diversa.
Questo nuovo format, queste tipologie di interviste che abbiamo creato, hanno lo scopo di parlare di salute mentale, e tutto ciò di cui abbiamo parlato ora ne fa parte. Però, per me, e l’ho detto più di una volta, il make-up e la skincare, ma soprattutto il make-up, sono una vera e propria terapia, perché attraverso il make-up riesco a scoprire di più del mio viso, riesco a guardarmi di più, imparo a guardarmi, riesco a capire che, magari, quelli che pensavo fossero dei difetti possono diventare qualcosa da apprezzare. È per questo che magari non mi trucco sempre, ma quando lo faccio, per me è un momento magico. Tu, il make-up come lo vivi? Ovviamente, per te è lavoro, quindi deve avere un feeling diverso, ma ci sono dei momenti in cui, per te, il make-up è scoperta di te stessa, un momento per te?
Sì. In quarantena, per esempio, proprio all’inizio di tutto questo caos, mi truccavo ad orari improponibili, facevo cose che poi magari non ho mai fotografato, però facevo esperimenti, mi truccavo e mi struccavo, e il tempo sembrava super dilatato, sempre lo stesso, quindi il make-up ha un po’ scandito le giornate, mi ha aiutato tanto in quel momento. Credimi, c’erano delle volte in cui mi finivo una bottiglia di vino da sola, parlavo da sola, ballavo da sola, come una pazza isterica, ma questo l’abbiamo fatto tutti, e chi dice di no mente, o magari ha avuto la fortuna di fare la quarantena in compagnia, io, invece, sono stata molto da sola, ma è servito.
Però, in generale, io dico sempre che il mio viso mi annoia, perché lo trucco da sempre. La cosa che più mi aiuta, mi sciocca e mi fa sorridere e ridere anche di me, è notare, anno dopo anno, che le tecniche di make-up che applicavo tre anni fa non vanno più bene per la Chantal di adesso, della serie: “ma quella palpebra quando ha iniziato a cadere? Ma cos’è questa ruga?”, oppure “ma Chantal, quand’è che è nata l’esigenza di usare un correttore arancio per le occhiaie? Tu queste occhiaie non ce le hai mai avute”, oppure “da quand’è che questo fondotinta super coprente ti fa sembrare dieci anni più vecchia? E questi ombretti super perlati perché non ti stanno più bene?” [ride]. Oppure, mi domando: “perché non ti vedi più bene con il rossetto?” Questa è stata una cosa scioccante, per me, io ora apprezzo di più le mie labbra senza niente, magari solo con un gloss trasparente, e non è solo un discorso di trend, è che mi sembra troppo sul mio viso adesso.
È una fase strana, perché se dovessi vedermi come invecchiata, ti direi che un tocco di rossetto ti dà luce, e tecnicamente è vero, ma poi, truccandoti, scoprendo il tuo viso, ti rendi conto che la regoletta, scritta e giustissima, non funziona. È quello che dico anche quando insegno auto-trucco, perché insegnare ad una persona che aspira a diventare make-up artist è un discorso, ma insegnare a una donna, con le sue insicurezze, a truccarsi, è tutta un’altra storia, ci devi fare i conti con queste cose.
Quindi, per me, il make-up è un modo per rilassarmi. In tanti mi chiedono come giro i tutorial… La verità la dico a te: mi bevo un bicchiere di vino, metto la mia musica preferita, sistemo i trucchi e inizio a truccarmi, senza guardare l’orologio. A volte mi rendo conto che ho passato tre ore così, e facendo cosa? Niente, perché magari mi soffermo sul dettaglio, provo un prodotto e poi lo tolgo, o mi distraggo e magari mi chiama mia sorella mentre lo faccio. Chiamare mia sorella, che vive fuori, quindi non la vedo spesso, e parlare con lei in vivavoce mentre mi sto truccando, per me è una specie di terapia, perché è come se ce l’avessi lì, a condividere un momento tra donne.
“…mi bevo un bicchiere di vino, metto la mia musica preferita, sistemo i trucchi e inizio a truccarmi”.
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stessa?
Che posso fidarmi.
La fiducia per me non esiste. La fiducia esiste quando la dai, non c’è una fiducia a priori, è una scelta, tu decidi di dare fiducia a qualcosa o a qualcuno, ma è una cosa che parte da te. Quando si dice “lui/lei ha perso la mia fiducia”, non è che lui o lei l’ha persa, sei tu che gliel’hai tolta, e questa è una cosa importante, secondo me. La fiducia puoi darla anche ad una persona che non se la merita, però è una tua scelta. Io mi sono resa conto che mi posso fidare delle persone con cui lavoro, banalmente anche di te, ma banalmente un cazzo, il solo fatto che io ti confidi delle cose e non ti chieda niente… Tu certe cose me le dici perché sei super professionale, super aperta e super comunicativa, ma se tu non me le dicessi, io non te le chiederei neanche, non mi interessano. Io sono così, e per questo ho imparato, perché tante volte l’ho presa in quel posto, sono stata profondamente delusa da questa cosa.
Ho capito anche che sarò un’eterna bambina, per tantissime cose, banalmente anche il fatto di stupirmi, ancora oggi, degli schiaffi in faccia che prendi dalle persone senza motivo, io mi stupisco ancora, o meglio, ci rimango male. Vuol dire che il callo ancora non si è formato, e meglio così, io non lo voglio, il callo io non me lo voglio fare. Voglio stupirmi ancora del fatto di fidarmi di una persona, di essere innamorata di una persona, di essere innamorata del mio lavoro, stupirmi ancora della resa del fondotinta, voglio essere così per tutta la vita, ed è per quello che mi piace quando mi dicono: “si vede la passione”. La passione c’è, ma più che passione, è lo stupore, io mi stupisco tanto, e se dovessi esprimere un desiderio, tra i tanti, direi: “vorrei continuare a stupirmi tanto”.
Il “sì, vabbè, ma…” oppure il “tanto lo sapevo” mi infastidiscono, e nella mia vita, le persone che ho vicino (pochissime), di cui sono veramente amica, sono persone che come me ancora si stupiscono delle cose, che come me ancora hanno un sacco di insicurezze inutili (tipo te), ma le sento, sono reali. Poi, io per certe cose sono cinica, ma lo sono molto con me stessa, non nei confronti del mondo, il cinismo nel mondo non mi piace, è la fine, è una chiusura.
“La passione c’è, ma più che passione, è lo stupore, io mi stupisco tanto, e se dovessi esprimere un desiderio, tra i tanti, direi: vorrei continuare a stupirmi tanto”.
Prima hai parlato del lockdown, di tutti questi mesi di quarantena: c’è qualcosa che psicologicamente ti ha salvata? Magari una routine…
Io avevo ancora un cane con me, e quel cane – che ho avuto per pochi anni, perché era già vecchio quando l’ho preso dal canile – ha scandito la mia vita nei momenti più brutti. Mi ricordo di un periodo in cui ero a Venezia per lavoro, un po’ di anni fa, un periodo bruttissimo, ero in una condizione tale che non riuscivo a mettere piede fuori di casa; rientrata dal lavoro, toglievo la maschera ed ero io, e quel cane, che doveva essere portato fuori per fare le sue cose e aspettava me, non è che faceva la pipì per terra, mi aspettava, mi ha fatta sentire utile. Anche in quarantena, al di là di tutte le battute che sono state fatte del tipo “ti presto il cane per andare a fare una passeggiata”, avere qualcosa di cui prendersi cura, che dipende esclusivamente da te, come un figlio, ha scandito tanto le mie giornate. Questo anche per dire che, quando qualcosa se ne va nella tua vita, una persona o un cane, come nel mio caso, in qualche modo lo fa in un momento che non è mai giusto e sarà per sempre sbagliato, però, incredibilmente, non si sa come, se ne va in un momento in cui tu, poi, sei costretto in qualche modo a guardare qualcos’altro, a prenderti cura di qualcos’altro e a farcela comunque. Nel mio caso ancora di più, Milo se n’è andato quando nella mia vita è entrata una persona che per la prima volta nella mia vita mi ha fatto veramente compagnia. Non so, forse è una motivazione che troviamo noi, ma potrebbe anche essere che significhi che la vita va avanti comunque.
Serve a capire che anche le cose più brutte, che ti fanno sentire più sola al mondo, accadono per insegnarti a guardare “il positivo”.
Perché la cosa incredibile è che la gente muore, i cani muoiono, tutto finisce, ma c’è una cosa sola che non finisce: il mondo. Questo mondo andrà avanti comunque, con o senza gli esseri umani. Sento dire che dobbiamo salvaguardare l’ambiente, ma non è che dobbiamo farlo per l’ambiente, non è un amore X verso gli alberi, la natura, gli animali; noi dobbiamo salvaguardare l’ambiente e fare delle scelte consapevoli, anche cambiando stile di vita non per il mondo, perché ‘sti cazzi, il mondo va avanti, ma per le persone che dopo di noi non avranno la possibilità di vivere perché noi abbiamo deciso che ci piace fare le cose in un determinato modo, e questo è egoismo.
Qual è la cosa che ti dicono più spesso e che ti sei stancata di sentirti dire?
Non c’è, onestamente, non c’è una cosa che mi abbia stancata, un po’ perché ho vicino persone meravigliose, non ripetitive, me le scelgo bene, e un po’ perché io cambio sempre, quindi magari per un mese mi dici una cosa, ma io il mese dopo sono un’altra persona. C’è un’evoluzione, sia nelle persone che ho vicino, sia in quello che sono io.
L’evoluzione personale penso sia necessaria. Se penso anche solo a delle persone che possono sentirsi arrivate e si sono fermate lì, per me non è una cosa inconcepibile…
Solo Dio si ferma. Chi sei, sei Dio? No [ride].
Ogni volta che qualcuno mi dice qualcosa, io ci rifletto, è uno spunto di riflessione per me, difficilmente lo prendo come una critica. So’ romana, quindi non mi offendo, non sono permalosa, anche se mi colpisci nel vivo, lì per lì ci rimango male, ma poi vado a casa, mi metto a letto e mi dico: “eh, però se ti ha detto ‘sta cosa, Chantal, vuol dire che ancora ci devi lavorare sopra… O magari si sbaglia!” [ride].
Hai accennato il discorso della perdita, che può riguardare un lavoro, una persona, un animale. Come hai affrontato la perdita, nella tua vita, e quanto, veramente, ti ha dato e ti ha tolto?
La perdita è una magia, se ci pensi: una persona c’è, e poi non c’è più. È una magia di merda, una magia brutta. Io, per esempio, ho perso una nonna, all’improvviso, dal nulla; a parte lo shock iniziale, il fatto che tu fisicamente non possa più vedere questa persona, per me è come se non fosse una perdita, io parlo ancora al presente di mia nonna. Lei per me è stata una mamma, un’amica, e non riesco ancora a guardare i video di mia nonna, ce li ho nel telefono, ma non riesco a guardarli, perché mi sembrerebbe come guardare un video di un’amica che io posso rivedere in qualsiasi momento, come se non posso vederla perché sono lontana, e non posso andarla a trovare, ma la sento presente.
Io penso che la perdita sia qualcosa con cui dobbiamo far pace, la perdita non va affrontata. Secondo me, noi viviamo in un mondo in cui si dice che “dobbiamo affrontare la perdita, metabolizzarla”, e sono frasi che senti e dici, ed è okay, ma in realtà è come una carezza sulla testa, non c’è nessuna perdita da affrontare, nel senso che la perdita è reale, ma se quella persona è ancora nella tua testa, allora non se ne va solo perché fisicamente non c’è più.
Io a volte chiudo gli occhi, li strizzo forte, stringo le mani e mi sembra di toccarla, la immagino, la tengo stretta, non voglio lasciarla andare. Poi, invece, ci sono perdite che fisicamente esistono, persone che pensavi avresti avuto per sempre nella tua vita e poi non ce le hai più, ma più che perdite, quelle sono scelte. Quindi, quando le scelte sono così reciproche, non possono far male, come non può far male per sempre il fatto che una persona non ci sia più. Non fa male per sempre, ti manca per sempre, ma ti può mancare per sempre anche il viaggio che hai fatto al liceo con le tue amiche, quel momento ti mancherà per sempre perché è importante.
Tu affronti, anche con il tuo lavoro, tante situazioni importanti come hai fatto a Sanremo, con i Måneskin, ma anche prima, con Levante, situazioni che creano ansia. Io, per esempio, sono una persona che ha sofferto di attacchi di panico, quando ce li hai pensi di morire, è l’unica cosa a cui pensi. Tu hai mai sofferto di attacchi di ansia, o di ansia in generale?
Il mio primo forte attacco di ansia l’ho avuto quando ero più piccola, una volta in cui ero in Cina e mi ero convinta di aver sbagliato il biglietto aereo, e di essere ancora in un posto mentre l’aereo era già partito, tant’è che un mio sogno ricorrente è di perdere l’aereo da quella volta lì. Poi, un attacco di ansia grande ce l’ho avuto prima di partire per il Coachella. Dopo i controlli in aeroporto, sono svenuta: mi hanno fatta riuscire, portata in infermeria, e lì, per fortuna, avevo delle gocce calmanti che mi aveva dato mia mamma, perché, stando alla sua dottoressa, “nessuna donna può girare senza Tranquirit”, del tipo “rossetto di Yves Saint Laurent e Tranquirit”, che fa molto Marilyn Monroe [ride]. Quelle, fortunatamente, mi hanno aiutata molto, altrimenti non sarei partita e probabilmente avrei perso una bellissima esperienza.
Un attacco di panico vero ce l’ho avuto abbastanza di recente, e alla persona che era con me ho detto solo “chiama mia mamma”, e subito dopo “no, non chiamarla”. Lì ho iniziato a capire che dovevo calmarmi, in qualche modo, quindi ammetto di avere un grande controllo mentale su me stessa, sono molto più consapevole adesso. Però era il primo così forte, ed è durato tanto, stavo “morendo”, ne ero convinta, ma mi ricordo quali sono stati i miei pensieri prima di “morire”. L’attacco di panico è una cosa molto comune oggi, perché siamo sollecitati, spinti a dare sempre il meglio, e non ascoltiamo noi stessi.
“L’attacco di panico è una cosa molto comune oggi, perché spinti a dare sempre il meglio, e non ascoltiamo noi stessi”.
Secondo me, bisognerebbe anche normalizzarlo, nel senso di parlarne e dire “se ce l’hai, non c’è niente di male nel prendere dieci goccette di quello, o di parlarne a qualcuno”…
Ecco, io quella volta sono corsa a casa e sono risuscita a salire le scale solamente perché sapevo che a casa avevo le gocce. La cosa che mi tranquillizzava era che sapevo che prendendo quelle gocce sarei stata bene. Certe cose bisogna affrontarle in maniera chimica, non è possibile affrontarle in nessun altro modo. Dopo quell’episodio, per due mesi non sono uscita di casa senza le gocce in borsa, e solo l’idea di non averle mi causava ansia, mentre il fatto di averle mi tranquillizzava. Poi, dopo un po’ che ti capitano attacchi di panico, riesci a gestirli, perché li riconosci, riconosci le avvisaglie, gli allarmi, il formicolio alle mani, il respiro corto, sono cose che ti fanno capire di star avendo un attacco di panico, e dire “okay, mi faccio una passeggiata”.
Cambiando totalmente argomento: che cos’è la sensualità per te?
La sensualità per me è tante cose. Quello che per me è sensuale, è sempre imperfetto, io non trovo sensualità nella perfezione, non c’è niente di sensuale in qualcosa di perfetto. Io trovo sensuale una donna imperfetta che si mostra con disinvoltura, che sorride, che si piace, quello per me è sensuale. Per esempio, se hai il braccio cicciotto, e ti metti la canottiera, e alzi le braccia senza problemi, e ti piaci, per me non c’è niente di più sensuale di quello. Posso dirti cosa mi aiuta a sentirmi sensuale: sicuramente essere amata. Non c’è niente da fare, l’amore è una fottutissima cura, e se pensi a quanto non costi niente, ma quanto è difficile averlo, è incredibile.
Hai paura del fallimento?
Sì. Però ti posso dire che la mia idea di successo è cambiata. Adesso è contemplato anche un successo nella vita privata, più che nel lavoro. Questo è il mio obiettivo, da qui all’infinito: concentrarmi sulla mia vita personale, sugli affetti, sull’amore, sulla relazione. È un tipo di investimento che non avevo mai fatto, perché non ero pronta. Ora, invece, penso di sentirmi pronta, credo che un grandissimo successo sia essere felici soprattutto nella propria vita, quando si spengono i riflettori, chiudi il telefono, lo lanci, e poi devi dire: “non so dov’è il telefono, chiamami perché non lo trovo” è un gran successo, perché vuol dire che non c’hai pensato, che hai fatto tante cose belle senza quella cosa lì, sei stata te stessa, in un contesto bello.
Quello per me è il successo.
Quanto è importante, per te, essere coerente con te stessa o, al contrario, a volte non esserlo per niente?
Non lo sono per niente quando parlo di makeup, perché nel mio lavoro, la prima cosa che insegno quando faccio i corsi, è: non fidatevi mai di chi vi dice “mai” e “sempre”, sono due bugie, non esistono e sono deleteri, filosoficamente sbagliati.
Io, quando parlo di coerenza, parlo di fedeltà, non credo che sia necessario essere coerenti, perché oggi posso dire una cosa e tra un anno – o il giorno dopo, se come me soffri un po’ di bipolarismo [ride] – posso dire il contrario. È importante restare fedeli a sé stessi, anche se questo può voler dire cambiare opinione. Ti faccio un esempio: fai finta che noi due siamo due alberi vicini: io non ti giudico dal colore dei fiori, o da che forma hanno, ma ti giudico dalla forma del tronco. Cioè, di base sono quella, i miei principi basilari quelli sono, poi, che una primavera mi vesto di blu, e un’estate mi vesto di rosa, non cambia, io sono quella, però ho il diritto di evolvermi e cambiare forma, ma l’essenza resta quella lì. Quindi per me è importante essere fedele a quell’essenza.
Cosa vuol dire, per te, avere rispetto di te stessa?
Il rispetto di me stessa, per me, è il non accontentarmi.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione?
Da ragazzina, mi ero innamorata di una ragazzina, una mia amica, e l’ho detto a mia mamma urlandoglielo in faccia, come una pazza [ride]. Quello è stato il mio grande atto di ribellione, essere me stessa nel momento in cui voglio esserlo, e non è un discorso che c’entra con la sessualità, ma c’entra con la formazione di sé stessi. Soprattutto nella fase adolescenziale, noi attraversiamo dei momenti che io non chiamo “di confusione”, sai quando si dice, “no, lei è un po’ confusa”… Io non sono confusa, io sono come sono. In quel momento, avevo 15 anni, provavo dei sentimenti nei confronti di una ragazza, una persona del mio stesso sesso, e l’ho urlato a mia mamma, e quello per me è stato uno dei momenti di autoaffermazione più forti che abbia mai avuto, un grande momento di ribellione, perché era qualcosa che mi apparteneva, una cosa veramente forte, in qualche modo, in quel momento lì. Questo è stato il mio primo grande atto di ribellione.
Che cos’è, per te, l’“essenziale”?
L’“essenziale” è essere liberi, e la libertà è la salute, che è un insegnamento grande che ho avuto, e ce lo scordiamo, ma anche la libertà di essere e la libertà di fare, e di fare di sé stessi quello che si vuole, soprattutto in un mondo come questo. Voglio cambiare? Voglio modificare qualcosa di me stessa? Posso farlo. Lo faccio in maniera permanente, definitiva, o lo faccio in maniera temporanea: un giorno mi vesto da uomo, un giorno mi vesto da donna, un giorno dormo fino a mezzogiorno, il giorno dopo mi vesto alle 6 e cammino 10 km a piedi. La libertà di essere quello che veramente vuoi è importante, però, e questa cosa la sottolineo, spesso la libertà, oggi, si trasforma in egoismo. Siamo nel momento del “vivi tutto adesso”; in parte è giusto, ma non è giusto come viene tradotto: per me non è il “tutto e adesso”, ma è il “goditi e apprezza e vivi a fondo il tutto e l’oggi, l’ora e il qui, vivi nel presente con un occhio al futuro e col ricordo del passato, ricordati da dove vieni e immagina che quello che lasci sarà per qualcun altro dopo di te, perché non ci sei solo tu”. È importante, anche a livello psicologico, vivere nel qui e nell’ora, lo devi valorizzare e viverlo a fondo ma ti devi ricordare da dove vieni e devi anche rispettare il fatto che quello che lasci lo troverà qualcun altro dopo di te, è un po’ come andare al bagno e dire, “lascialo pulito per chi viene dopo di te”, i cartelli al bagno sono stile di vita, io li amo, li fotografo spesso [ride].
“Io non sono confusa, io sono come sono”.
Photos and Video by Johnny Carrano.
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Makeup, Hair and Styling by Chantal Ciaffardini.