La versione di sé che più le piace.
La versione di lei che più ci piace.
La nostra Cover di febbraio sa quel che dice e sa quel che fa.
La nostra Cover di febbraio è Chiara Bordi.
Chiara è una delle protagoniste della nuova fiction “I Fantastici 5”, ora in onda su Canale 5. La serie, incentrata sul mondo dello sport paralimpico e sulle storie di giovani atleti, è un grande passo avanti nella rappresentazione televisiva italiana, sfatando stereotipi e offrendo una prospettiva inedita sulle sfide e le passioni degli atleti con disabilità.
La storia di Chiara, dal canto suo, è toccante e ispiratrice: una storia di determinazione e passione per la vita che trova sempre nuova espressione.
Durante la nostra chiacchierata, Chiara ha condiviso aneddoti e riflessioni sulla sua esperienza sul set e sul significato della serie stessa: un ritratto dello sport paralimpico che si discosta dai cliché pietistici per mostrare personaggi complessi e anticonvenzionali.
Con la sua forza, determinazione e onestà, Chiara si conferma un’artista unica pronta ad affrontare nuove sfide, continuando a ispirare con le sue scelte artistiche. Con progetti come “Prisma” o “I Fantastici 5”, Chiara dimostra che la forza, la passione e il coraggio possono trasformare qualsiasi sfida in opportunità.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Ricordo che da piccola io, mia sorella e i miei genitori avevamo una grande passione per i film di Walt Disney. Mia madre collezionava cassette Walt Disney originali, per cui io e mia sorella passavamo ore e ore a riguardare lo stesso cartone animato… Questo è uno dei primissimi ricordi legati al cinema che ho.
Anche a casa mia succedeva la stessa identica cosa!
Vero? [ride] Penso nelle case di molti, fortunatamente o sfortunatamente, perché poi la maggior parte dei nostri traumi sono legati ai Walt Disney. In particolare, ricordo “Il Re Leone 2”, in cui c’è il personaggio di Chiara e un momento in cui il padre la sgrida e urla fortissimo il suo nome: i miei genitori dicono che io ogni volta mi mettevo a piangere perché ero convinta che ce l’avesse con me [ride].
Parliamo del tuo ultimo progetto, la serie “I Fantastici 5”. Il protagonista è lo sport paralimpico, un argomento poco esplorato in televisione, quantomeno in quella italiana. Qual è stata la tua reazione quando hai letto la sceneggiatura per la prima volta? Cosa ti ha attratta della storia?
Sicuramente, il fatto che questi personaggi siano raccontati in una maniera lontana da un’ottica pietistica, anzi, ci sono diversi personaggi che all’inizio sono molto antipatici; sebbene a me, che faccio parte di questo mondo da un po’ di anni, questo sembri normale, per la società molto spesso si tratta di un connubio che non viene raccontato, proprio perché c’è un abilismo interiorizzato secondo cui è difficile pensare che una persona con disabilità ti possa stare molto antipatica e tu possa pensare, “Che stronzo”. Invece, fatta eccezione per il mio personaggio, i ragazzi de “I Fantastici 5” sono molto antipatici, cosa che secondo me va fuori dagli stereotipi.
Oltre a questo, mi è piaciuta la passione che il mio personaggio ha per lo sport: le problematiche che vengono fuori riguardano tangenzialmente la disabilità dei personaggi, ma in realtà si parla di passione per lo sport.
E in che modo secondo te la serie contribuirà a far comprendere meglio lo sport paralimpico e a sensibilizzare il pubblico su questo tema?
Aiuterà sicuramente anche solo il fatto di raccontarlo, perché per molto tempo lo sport paralimpico è stato considerato “inferiore” rispetto allo sport agonistico per persone senza disabilità. Per farti un esempio, il montepremi che vince una persona che arriva prima alle Olimpiadi è molto più alto rispetto a quello che si vince alle Paralimpiadi; oppure, le Paralimpiadi di Rio del 2016 sono state seguite da pochissime persone, e quindi è un po’ come se sotto sotto ci fosse un’idea che le paralimpiadi non siano all’altezza delle Olimpiadi. Soprattutto, lo sport paralimpico è spesso legato a stereotipi secondo cui le persone che partecipano alle paralimpiadi sono per forza degli eroi, o vengono considerate come “veicoli di insegnamento”. È l’atteggiamento più sbagliato che si possa avere, perché i paralimpici sono degli atleti che hanno deciso di essere lì a fare sport e stanno gareggiando alle Paralimpiadi con lo stesso impegno e passione di chi gareggia alle Olimpiadi.
Secondo me, in questa serie si vede molto agonismo, molta competizione, molta passione, e credo che aiuterà le persone a capire che lo sport paralimpico vale tanto quanto quello olimpico.
Il tuo personaggio, Laura, ha un percorso molto significativo nella storia, passando da un incidente che le cambia la vita alla decisione di diventare un’atleta paralimpica. Come hai affrontato la sfida di interpretare una trasformazione così profonda e quale messaggio speri di trasmettere attraverso la storia di Laura?
La storia inizia in un momento in cui tutti i personaggi sono già in una fase di accettazione. Il mio personaggio, quindi, ha metabolizzato tutto quello che le è successo: si racconta com’è avvenuto l’incidente, ma non si svela quello che c’è stato da quel momento fino al tempo presente in cui è diventata un’atleta. Io, ovviamente, sapevo quello che il personaggio aveva passato e ne ho sempre tenuto conto, ma la storia di Laura parla soprattutto di passione. È una persona molto determinata, che si pone l’obiettivo di entrare nella società sportiva più rinomata d’Italia, e ha una grande passione per lo sport, che è ciò che emerge di più.
Ciò che mi auguro arrivi al pubblico, dato che la serie parla di sport e dei sacrifici che la vita da atleta comporta, è soprattutto la difficoltà che si può incontrare in un percorso come quello dell’atletica agonistica. Per quanto riguarda il mio personaggio, spero dimostri quanto sia importante, proprio in luce di queste difficoltà legate alla vita da agonista, avere una squadra, un supporto esterno. La serie è incentrata sul gioco di squadra, alla fine, parla di questi ragazzi che non riescono a far gruppo, perché ognuno è molto individualista; poi, però, viene fuori quanto il supporto degli altri sia essenziale e che non possiamo fare tutto da soli.
“la storia di Laura parla soprattutto di passione”
Hai avuto l’opportunità di interagire con veri atleti paralimpici durante la preparazione e/o le riprese?
Sì, assolutamente. È stata un aspetto molto ricercato da parte di tutti noi, proprio per provare a rappresentare queste storie nella maniera più reale possibile. Ho avuto diverse occasioni per rapportarmi a veri atleti paralimpici, tra cui alcuni raduni della FISPES, il Comitato italiano paralimpico, in cui ho avuto modo di parlare con molte persone. Poi, durante la mia preparazione atletica, spesso cercavo di allenarmi con altre atlete che avevano la mia stessa disabilità, per cercare di raccogliere informazioni o di “rubare” cose con lo sguardo, anche molto pratiche come, banalmente, in quale momento si cambiano la protesi, come funziona il riscaldamento, eccetera. Poi, è stato fondamentale per me anche il rapporto con la mia controfigura, Alessia Donizzetti, che è stata un’atleta paralimpica: sul set è stata un grande supporto, una fonte a cui chiedere cose quando ne avevo bisogno.
Mi sono ispirata anche ad Ambra Sabatini, una campionessa mondiale di atletica paralimpica: lei ha un’amputazione diversa dalla mia e da quella del mio personaggio, però mi è stata molto utile per raccontare la storia di Laura, perché ha delle caratteristiche molto simili a lei, come l’età e la determinazione e passione.
Ci sono stati momenti sul set che hanno contribuito a rinforzare l’unità del gruppo rappresentato nella serie?
Devo dire che l’ho sentita sin da subito una certa coesione tra di noi. Lo stesso giorno di lettura dei copioni, mi ricordo che non conoscevo nessuno a parte Fiorenza D’Antonio, con cui ho partecipato a Miss Italia, però mi sono sentita già parte di qualcosa. Poi sul set è successa la magia: abbiamo creato subito squadra, e sicuramente ha aiutato il fatto che abbiamo fatto molte trasferte, noi ragazzi abbiamo passato settimane in hotel insieme h24. Con Raoul Bova è andata un po’ diversamente, perché da parte nostra c’era un po’ di soggezione e “reverenza” nei suoi confronti. All’inizio è stato complicato, avevo paura di dare troppa confidenza, ma poi abbiamo creato presto un bel rapporto. Una sera, in particolare, lui ci ha invitati a cena a casa sua, e dal giorno dopo si percepiva la nascita un legame fortissimo, una squadra stupenda. Ci siamo sempre supportati molto, e questo ha fatto la differenza: credo si noti abbastanza, soprattutto in un progetto in cui la squadra è protagonista.
Qual è il tuo pensiero sul ruolo della televisione nel promuovere la consapevolezza e la diversità attraverso storie come quella de “I Fantastici 5”?
Secondo me la televisione e i media, in generale, hanno una grandissima responsabilità, perché creano degli stereotipi, delle idee, dei pensieri, e il fatto di rappresentarli porta anche a direzionare l’opinione del pubblico da una parte o da un’altra. Io, infatti, sono molto contenta che questo progetto esista, proprio perché secondo me porterà a cambiare qualcosa. Anche solo il fatto che sia stato scelto di raccontare il mondo paralimpico è molto importante, così come è importante che sia rappresentata la disabilità, fino ad oggi così poco rappresentata, il che ha delle conseguenze, poi, all’interno della società. Anche il solo fatto di far interpretare personaggi con disabilità ad attori o attrici che hanno veramente una disabilità magari può portare le persone con disabilità che guardano la serie a pensare che anche loro, se vogliono fare gli attori, possono diventarlo. Mi auguro che questa serie apra le porte a chiunque voglia fare questo lavoro e crei un bacino molto più grande di attori e attrici con disabilità.
“…è importante che sia rappresentata la disabilità, fino ad oggi così poco rappresentata, il che ha delle conseguenze, poi, all’interno della società”.
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto su te stessa attraverso il tuo lavoro? Dopo questa esperienza, per esempio, hai acquisito nuove consapevolezze o compreso qualcosa di nuovo su di te?
A livello professionale, questa serie mi ha dato la possibilità di sperimentare tante cose nuove, di fare pratica: ho imparato a cercare e trovare delle emozioni specifiche dentro me stessa, per scene un po’ più toste da girare a livello emotivo, di cui avevo in parte paura. Mi viene in mente la scena dell’incidente, che era qualcosa che un po’ mi angosciava, perché è un’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle e che sicuramente tocca un tasto leggermente dolente. Sono passati dieci anni, è una cosa che ho metabolizzato e non mi fa più male, però riportarlo alla memoria in quel modo è stato difficile.
La cosa che ho imparato, e che mi porto dietro, è a riportare a galla le emozioni senza dare la possibilità a quelle di distruggerti, sapendole gestire; una capacità stupenda da acquisire anche per la vita quotidiana, perché spesso veniamo travolti dalle emozioni negative, che ci annullano, ed essere in grado di limitarle è un bellissimo esercizio di empatia, secondo me.
Hai in mente nuovi progetti o generi che vorresti esplorare nel futuro della tua carriera?
Sì, ho molte idee, il che un po’ si scontra con la realtà dei fatti, ovvero i pochi ruoli a disposizione avendo una disabilità. Però ciò che penso e spero di riuscire a fare un giorno è interpretare un personaggio che da script non abbia una disabilità. Se accadesse, avremmo fatto un grandissimo passo avanti.
Mi piacerebbe tantissimo girare un film in costume, perché sono molto appassionata di storia, mi piace rivivere cose antiche e quale miglior modo se non interpretandole circondata da una scenografia realistica? Allo stesso tempo, mi piace tanto il fantasy… Quindi, chissà!
“UN GRANDISSIMO PASSO AVANTI”
Un epic fail sul set?
Riguarda “I Fantastici 5”. La prima settimana di set, dovevo girare una scena con Raoul, in cui guidavo la macchina. All’”azione”, dovevo andare avanti con la macchina come se fossi già in movimento, e poi aprire lo sportello e scendere insieme a Raoul. All’”azione”, però, non riuscivo a mettere la marcia e dopo un sacco di tempo, quando sono riuscita a metterla e partire, avevo il freno a mano inserito… [ride]. Insomma, alla fine sono riuscita a muovere questa macchina, macchina nuovissima per inciso, e poi ho aperto lo sportello come da copione e preso in pieno un muretto. In tre minuti è successo di tutto, panico diffuso! Ricordo che Raoul mi diceva, “Chiara, devi mettere la prima, e poi vai avanti…”, ma io non ci riuscivo, ormai ero entrata in palla. E poi ci mancava anche lo sportello contro il muretto… [ride]. Di male in peggio!
Il tuo must-have sul set?
Ho sempre con me la sceneggiatura in cui quasi sempre scrivo appunti su quello che anticipa ogni scena, perché ovviamente non girando in senso cronologico, è importante avere sempre presente quello che succede prima di ogni scena, a livello di eventi ma anche di emozioni che riguardano il personaggio.
Un’altra cosa che faccio sempre è riprendermi col telefono quando provo una scena, in modo tale, poi, da riguardarmi.
Hai una tua routine o un’attività in particolare che svolgi quando hai bisogno di “ricentrarti”, di ritrovare te stessa?
Sì, faccio skate e faccio surf.
In particolare, quando ci sono le onde, il fatto di entrare in acqua e riconnettermi con la natura, mettendomi alla prova, mi rimette al mondo. Ovviamente, in Italia non capita spesso di avere le onde, quindi non è un’attività che fa parte della mia routine, e infatti per questo vado anche in skate, che mi libera la testa molto spesso.
Cosa ti fa sentire più al sicuro?
In questo momento mi trovo a Tarquinia, che è il mio paese natale, dove ho la mia famiglia: una cosa che mi fa sentire al sicuro è sapere che ho i miei affetti vicino, che sia la mia famiglia, o il mio fidanzato, o i miei amici. Sapere di essere in un posto in cui sono circondata da affetto e da amore è una cosa che mi fa sentire molto al sicuro.
Allo stesso tempo, cerco input anche dall’esterno: mi piace fare cose lontane dalla mia zona di comfort, perché sono quelle che ti fanno crescere mettendoti alla prova. Poi, però, sapere che tornerai in un posto in cui ti sentirai al sicuro e a casa vale molto, senza accomodarcisi mai, comunque.
“Sapere di essere in un posto in cui sono circondata da affetto e da amore è una cosa che mi fa sentire molto al sicuro”.
Qual è stato il tuo più grande atto di coraggio?
Quando ho girato “Prisma”, che è stata la mia primissima esperienza di recitazione, a parte qualche anno di teatro che avevo fatto precedentemente. Mi piaceva tantissimo il progetto, era qualcosa che avevo sempre sognato di fare, quindi non vedevo l’ora di iniziare ed effettivamente mi ha dato tantissime soddisfazioni. Così è iniziato il mio percorso in questo mondo.
L’aver fatto una cosa che non avevo mai fatto prima, trovarmi in un mondo in cui non ero mai stata, mi ha fatto sentire “non all’altezza”, una sensazione da un lato bella, dall’altro molto brutta, perché poi ti porta ad essere insicuro, ad aver paura di sbagliare. Il fatto di essermi buttata in una cosa che mi spaventava, però, riconosco sia stato un mio grande atto di coraggio, e proprio il non sentirmi all’altezza mi ha portato ad impegnarmi tantissimo, a prepararmi il doppio.
Di cosa hai paura?
La risposta potrebbe essere un po’ triste, perché la mia più grande paura è la morte. Non esattamente la mia morte, ma proprio il concetto di morte, la consapevolezza che c’è una fine.
Io, poi, non sono credente, anzi, sono scettica in tutto quello che riguarda il post-morte: secondo la mia visione personale, quando muori finisce tutto. L’idea che tutto questo un giorno poi possa finire è qualcosa che mi spaventa tantissimo.
In più, credo che la morte sia un concetto da normalizzare, perché non c’è vita senza morte, fa parte della vita ed è un qualcosa a cui nessuno di noi può fuggire, tutti la sperimentiamo e la sperimenteremo. Però, nonostante questa consapevolezza, nessuno di noi riesce a normalizzare la morte al 100%.
Cosa ti dà speranza, invece?
La vita.
Il pensiero che la vita vada avanti nonostante le difficoltà, nonostante gli ostacoli che ci sembrano insormontabili. L’istinto di attaccamento alla vita, intrinseco nella natura umana, e soprattutto della natura animale, è un qualcosa che mi dà speranza, perché penso che in qualsiasi momento, anche il più brutto, ricerchiamo tutti la vita. Ci penso spesso quando sono in macchina: “E se adesso qualcuno mi venisse addosso volontariamente?”. In strada, siamo tutti lì attenti a leggere i segnali e a guidare con prudenza fondamentalmente perché vogliamo tutti restare in vita e tenerci stretta la nostra vita. Mi dà speranza pensare che in qualsiasi momento, in qualsiasi situazione, la vita è sempre più forte della difficoltà. Forse io l’ho realizzato soprattutto dopo l’incidente, in cui effettivamente ero a un passo dalla morte: ricordo in che modo viscerale mi sono attaccata alla vita. Tutte le difficoltà che ho vissuto dopo mi hanno dato modo di prendere consapevolezza della forza della vita, a tutti gli effetti.
“Mi dà speranza pensare che in qualsiasi momento, in qualsiasi situazione, la vita è sempre più forte della difficoltà”.
Cosa significa per te essere a proprio agio nella propria pelle?
Secondo me è un processo, a volte infinito. Non è detto che quando arrivi a sentirti a tuo agio nella tua pelle poi riesci a rimanere in quello stato: spesso noi regrediamo e progrediamo ciclicamente. Comunque, è una cosa che io ricerco tantissimo e che mi sono sudata, il fatto di guardarmi allo specchio e dire che mi piace quello che vedo, non solo esteticamente, ma anche interiormente. A volte ci sono, ma altre volte ci sono meno, perché è una questione di sentirsi a proprio agio non solo nel proprio corpo – è molto importante sentirsi orgogliosi di ciò che si ha di diverso, che esce dai canoni che definiscono ciò che si considera bello e accettabili – ma si tratta anche di sentirsi a proprio agio rispetto a chi sei.
Per esempio, in questo esatto momento io non mi sento al 100% a mio agio rispetto a quella che sono in quanto persona; però, so che dipende molto anche dal contesto in cui ti trovi. A volte pretendiamo troppo anche da noi stessi, ma è bello pensare che sia un processo, qualcosa che va migliorato costantemente. Nella vita, mi pongo come obiettivo quello di diventare la versione di me stessa che più piace a me, che può non piacere ad altre persone ma io voglio imparare a dire, “Sono questa. Magari agli altri non piaccio, ma a me stessa piaccio tantissimo”, stimandomi come persona.
Spero un giorno di arrivare a sentirmi fiera di me stessa come persona, di piacermi, di volermi come amica, di stimarmi, e credo che questo sia un traguardo che raggiungerò.
Ogni tanto però quel traguardo riesci effettivamente a raggiungerlo…
Sì. È complicato, certo, anche perché siamo molto autocritici nei confronti di noi stessi, ricerchiamo la perfezione, che secondo me, però, non fa parte della nostra natura. Spesso tendiamo a parlarci come dei nemici: mi è capitato di leggere che il modo in cui ci diciamo le cose spesso non corrisponde al modo in cui diremmo la stessa cosa a un nostro amico. A volte ci penso, e quando sono troppo dura con me stessa mi dico: “Se non ti tratti come tratteresti un tuo amico, allora stai sbagliando qualcosa”. Un altro obiettivo che mi porrei sarebbe quello di parlarmi con un po’ più di amore e non criticarmi troppo, anche quando magari sbaglio. Ci sono tanti errori che facciamo per cui ci diamo fin troppo la colpa, a volte in maniera non costruttiva…
Qual è la tua isola felice?
Qualsiasi posto che sia sul mare.
In particolare, un posto in cui sono rinata e ho scoperto molte cose è Fuerteventura. Lì ho trovato l’amore, tantissime persone stupende, tante passioni. Ci torno molto spesso, e quando ci torno mi sento a casa: lì ho modo di vivere la parte più autentica e naturale di me, un posto in cui posso andare in giro a piedi scalzi, surfare, sentirmi selvaggia ma in modo giusto. La natura ti dà la possibilità di essere chi vuoi.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup and hair by Sofia Caspani.
Styling by Stefania Sciortino.
Thanks to Lorella Di Carlo.