La nostra nuova Cover è un’attrice che si è sempre distinta per scegliere dei progetti specifici, bellissimi, che vogliono dire qualcosa di importante e che, in qualche modo, raccontano tante piccole parti di sé.
La nostra Cover di agosto è un’attrice che noi seguiamo da molto tempo e che ora è protagonista di una delle mini serie più belle viste quest’anno: “In nome del cielo” (in Italia su Disney+ dal 31 agosto).
Chloe Pirrie è la nostra cover e con lei abbiamo parlato della difficile preparazione per il suo personaggio Matilda, di come capirla sia stato allo stesso tempo naturale ma di come abbia dovuto equilibrare i suoi mille aspetti.
“In nome del cielo” racconta la storia di una famiglia di mormoni fondamentalisti dello Utah che commette una serie di omicidi. La storia era stata raccontata da Jon Krakauer nell’omonimo libro e per poi essere portata appunto sullo schermo da Dustin Lance Black. Un progetto che vi porterà in un viaggio emotivo forte e che vi farà forse scoprire una realtà che sembra così lontana ma che non lo è poi così tanto.
Con Chloe abbiamo parlato di quanto sia importante far sentire la propria voce, del suo amore per il cinema indipendente, della sua voglia di essere dall’altra parte della camera per raccontare storie e di quanto essere artisti sia un atto di ribellione di per sé.
Ho appena finito di guardare “In nome del cielo”: una serie sensazionale, stupenda. È il mio genere preferito, quindi guardarla tutta d’un fiato, in un giorno, non è stato per niente difficile; eppure, ho pianto, ho provato rabbia e una serie di altre emozioni nel corso della giornata, e anche in quella successiva, perché sono una persona molto emotiva. Com’è stata per te questa esperienza? Hai detto che le riprese sono durate 6 mesi…
Già! È stato un lungo processo, e abbiamo avuto tanto tempo per esplorare una tematica così enorme e una storia molto cupa, tratta da una storia vera, che sappiamo come va, insomma. Ad ogni modo, credo che spesso, quando si gira qualcosa di molto tetro e complicato, finisci per divertirti di contro, non sei costantemente in quell’oscurità. La gioia la puoi trovare, perché sai già in partenza che ci saranno giorni intensi o scene difficili da girare, ma secondo me è importante lasciarsi tutto alle spalle e trovare cose allegre da fare quando non si abita quel mondo. E avendo letto il libro, sapevo bene a cosa andavo incontro.
Effettivamente, il libro non l’ho letto se non prima che venissi a conoscenza del progetto e mi venisse proposto di fare una video-audizione; poi, l’ho divorato, perché volevo iniziare a capire il contesto e il lato fondamentalista della religione mormona, di cui non sapevo nulla.
È allora che ho iniziato a capire cosa Lance [Dustin Lance Black] voleva fare e come voleva farlo, nel senso che lui voleva anche descrivere la religione mormona e sfruttare il background storico della religione, ed era in questa direzione che voleva adattare la storia.
A me la serie ha sconvolto anche perché, da italiana, non avevo idea di quanto la realtà e la cultura mormona fossero presenti nello Utah. Sapevo dei mormoni in linea generale, ma non conoscevo il lato fondamentalista della religione. Qual è stata la tua prima reazione quando hai letto il libro o la sceneggiatura?
Anche io, come te, conoscevo solo la versione convenzionale del mormonismo, e “The Book of Mormon”, e avevo visto alcuni documentari, quindi avevo un’idea generica della religione ma non ne conoscevo il lato fondamentalista. Quando ho letto il libro, ho provato molta rabbia, soprattutto per il modo in cui la poligamia fa parte di quel fondamentalismo e ciò che comporta per le donne, e come la religione, in linea generale, tratta le donne. È una questione molto problematica ed è difficile capire queste ragazze, che erano incredibilmente giovani e non avevano scelta, venivano messe in situazioni in cui potenzialmente avrebbero dovuto sposare membri della propria famiglia. Sono persone che vivono totalmente fuori dal mondo e non hanno mai conosciuto nulla di diverso.
Leggere di queste cose mi ha fatto provare rabbia anche perché, nel libro, Jon Krakauer non nasconde davvero le proprie emozioni sul tema, quindi in un certo senso ti ritrovi ad assorbire anche il suo punto di vista, che riesce comunque a risultare imparziale, ed è un suo talento. Ma il contesto è parecchio tragico, e noi donne del cast sapevamo che sarebbe stata dura principalmente perché, per ritrarre fedelmente la religione, le donne non avrebbero potuto dire o fare molto che non fosse sottoposto al vaglio dei detentori del sacerdozio. Quindi, ci siamo domandate: “Mettere in scena tutto questo sarà deprimente? Sentirò di non avere una voce?”. Quindi, ci siamo impegnate per evitare che il contesto non influenzasse la nostra esperienza sul set e per cercare di dialogare, potevamo comunque divertirci ed essere noi stesse e tenere a mente che non era la vita reale. Anche se oggi si parla di patriarcato tutto il tempo, quindi la storia resta contemporanea sotto molti punti di vista.
“Mettere in scena tutto questo sarà deprimente? Sentirò di non avere una voce?”
Il tuo personaggio, all’inizio, sembra molto fragile e ansioso, ma, allo stesso tempo, si dimostra forte in molte cose che fa, è coraggiosa. Com’è stato per te indossare questi panni e interpretare questa dualità?
Dal libro e dalla sceneggiatura, mi era chiaro che si trattasse di un personaggio con dubbi sulla propria identità.
In un certo senso, lei è in grado di comprendere sé stessa solo attraverso gli altri. È una cercatrice, ha lasciato la Scozia, con un’educazione profondamente cattolica alle spalle, ha due figlie nate da un precedente matrimonio di cui non sappiamo molto. Quindi così ti fai già un’idea di qualcuno che probabilmente è stato estromesso dalla propria comunità, o con un passato pieno di vergogna, sicuramente è qualcuno con problemi alle spalle. Si è convertita dal cattolicesimo alla religione mormona, quindi si tratta di una situazione che richiama pensieri del tipo: “Okay, ricominci da zero, non devi pentirti per i tuoi peccati”. E la religione stessa ti dice: va bene così, sei pulito, non importa cosa ti è successo prima, certo, hai fatto cose terribili, ma non te ne preoccupare! [ride] Quindi, in pratica, è saltata dalla padella alla brace, ma è ancora confusa, ed è stato un gran bel cambiamento.
Ne ho discusso con uno specialista, una donna mormona che ci ha aiutato con il dialetto durante le riprese, e lei ha detto che trasferirsi in un altro Paese di tua spontanea volontà – come nel caso di Matilda, che si è infatuata di Dan e l’ha seguito – è una cosa molto estrema. Ma Matilda non sa cosa sta succedendo, lui gironzola nel suo villaggio e lei alla fine decide di andare con lui. Io mi sono chiesta: “Cos’ha in testa, com’è successo?”. Allora non era come adesso, non è semplicemente andata su internet e ha preso un biglietto aereo. Quindi, c’è qualche forza dentro di lei alla ricerca disperata di qualcosa.
All’inizio, cerca di integrarsi in questa nuova struttura familiare, vuole solo accontentare il marito e cercare di capire i meccanismi, e secondo me quella stessa fragilità emerge quando perde il controllo e capisce che lui vuole allontanare le sue figlie da lei. È da quella fragilità che deriva la sua forza, in qualche modo, perché lei è un personaggio molto viscerale, molto emotivo, e non lo nasconde. Nel momento in cui lui reclama il possesso delle figlie di lei, viene fuori la sua forza, ma comunque in quella situazione non ha alcun potere, tutto ciò che può fare è farle evadere di nascosto; ma, in quell’istante preciso, ha perso la guerra, è completamente paralizzata, suo marito le fa molta paura.
Quando tocca al tuo personaggio, è impossibile prevedere cosa farà.
Matilda è praticamente devota alle proprie figlie, e ha deciso che resterà lì dov’è, a tutti i costi. Quindi, quando Diana la trova, lei diventa una belva, è selvaggia, e terrorizzata – ne ha passate tante e non sta bene. Non so come sia andata a finire, non so dove sia ora; ovviamente, la nostra è una versione romanzata degli eventi.
Com’è stato trasportare la relazione tra Matilda e Dan sullo schermo?
È stata una bellissima esperienza. Wyatt [Russell] e io abbiamo proprio osservato che non erano previste molte scene che mostrassero i nostri personaggi nel contesto della loro vita coniugale: vediamo solo quello che presentano al mondo, e poi vediamo l’ossessione e la mania del controllo di lui e come si sviluppano e colpiscono lei e il controllo che lui esercita su di lei. Succedono un sacco di cose sullo schermo, ad ogni modo, e il bello secondo me è che all’inizio mostriamo questo grande nucleo familiare e a me in quella fase veniva detto: “Qui è quando sono tutti felici insieme”; io però ribattevo: “NON sono felici insieme! Lei è una persona ferita, di cui qualcuno si è approfittato, e lui è molto molto inquietante”.
Ma loro mi hanno detto: “Sì, ma ancora non deve venir fuori”.
È proprio attraverso il tuo personaggio che ci accorgiamo, anche dalle prime scene in cui i personaggi sono tutti insieme, che c’è qualcosa che non va.
C’è qualcosa di strano anche nel modo in cui lei parla della relazione col marito.
Soprattutto nella scena con Brenda, in cui Matilda parla del sesso che fa con Dan. Matilda, invece, è già al colmo, è come un bicchiere d’acqua che sta per traboccare, quindi, per me, era fondamentale che questa cosa emergesse chiaramente. Nella vita vera, quando le persone sono tese ma dall’esterno sembrano allegre e felici, è perché stanno cercando di gestire mille cose contemporaneamente. Questo è un tratto che ho trovato molto interessante da esplorare, e mi ha reso anche abbastanza libera sul set a livello interpretativo, perché Matilda cerca sempre di mettere tutto sotto al tappeto, e ha anche sempre paura che lui la lascerà, sin dall’inizio, ma la verità è che lui non l’ha mai voluta. Quindi, per lei va di male in peggio.
“Matilda, invece, è già al colmo, è come un bicchiere d’acqua che sta per traboccare“.
Cosa ti fa dire di sì ad un progetto, in generale?
Credo sia sempre la sceneggiatura e l’intenzione che c’è dietro il progetto: cosa hanno intenzione di fare?
In questo caso, penso sia stata la sensazione che ho avuto che si trattasse di un progetto interessante perché sapevo che era nell’aria da molto tempo, e quando qualcosa è nell’aria da molto tempo e poi si decide di realizzarla è perché c’è qualcuno dietro che ci tiene davvero, che lotta perché il proprio progetto diventi concreto in una qualsiasi forma. Poi, sapevo che Lance proviene da una famiglia mormona, quindi conosce a fondo la religione, e ho pensato che fosse molto interessante da esplorare.
All’inizio, quando ho fatto l’audizione, non avevo idea di chi fosse Matilda, le sue scene erano molto strane e bizzarre. La registrazione del provino ho dovuto farla di primo mattino con un mio amico che stava girando una sua cosa in Grecia, quindi abbiamo dovuto fare tutto via video e registrarlo così, dato che eravamo in piena pandemia. Un giorno, mi sono svegliata alle 4 del mattino e ho realizzato: “La capisco, so di cosa si tratta”. All’improvviso avevo capito cosa la spingesse ad agire. Di lì in poi mi è sembrato tutto molto semplice e, spesso, è in casi come questo che so che è il progetto adatto per me, quando sento che è tutto semplice.
So anche che ti piacerebbe passare dietro la macchina da presa…
Oh sì, penso lo farò prima o poi, ora mi sento abbastanza sicura di me per provare l’esperienza della regia. Non ho mai desiderato fare altro se non l’attrice, in passato, ma ora, non so perché, ma all’improvviso ho maturato un interesse nel raccontare le storie io stessa e ho iniziato a guardare il mondo in maniera leggermente diversa.
Ci sono storie in particolare che ti piacerebbe dirigere?
Mi sento attratta da temi come quello della famiglia disfunzionale. Amo i film indipendenti, amo il cinema e sono affascinata da progetti a “piccola scala”, e mi piace lavorare con i direttori della fotografia e trovare un linguaggio comune ed essere creativi insieme. Si tratta di qualcosa che adesso mi sento in grado di fare o gestire, mentre prima non ci avevo mai pensato, o semplicemente non credevo ne sarei stata in grado.
Ma in qualche modo ora qualcosa è cambiato.
“Mi piace lavorare con i direttori della fotografia e trovare un linguaggio comune ed essere creativi insieme”.
Io sono dell’idea che con il vostro lavoro, con ogni ruolo che interpretate e ogni sceneggiatura che leggete, ci sia la possibilità che scopriate qualcosa di nuovo di voi stessi. Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stessa?
Con Matilda, ho scoperto che il senso dell’umorismo, stranamente, è importante. In un certo senso lo sapevo già, ma Matilda, come personaggio, è abbastanza divertente e io non volevo renderla troppo comica, ma volevo che apparisse strana, e l’ho fatto dandole un tocco di imprevedibilità. Dunque, ho capito che puoi anche esasperare quell’aspetto e, finché racconti la verità, va bene, ho sfruttato questa dinamica. Non voglio dire che ho scoperto di essere divertente [ride], ma ho capito che le scelte che fai, quando le persone ti ascoltano e le recepiscono nella maniera giusta, possono essere importanti e di lì ho acquisito un sacco di autostima, ho scoperto che posso fidarmi del mio istinto.
Ho anche scoperto che a volte è meglio non parlarne così tanto mentre stai lavorando; ad alcuni piace parlare del lavoro, di come hanno intenzione di recitare la scena e cose così, mentre a volte io preferisco mostrarlo direttamente, perché è solo uno spreco di energie spiegare le tue scelte – puoi discuterne, ma il potere di fidarti semplicemente delle tue conoscenze e del fatto che puoi parlare della performance ma non devi necessariamente offrire tutto quello che hai in una volta, è il modo in cui mi piace lavorare. Da entrambi i lati della camera, mi piace lavorare in questa maniera.
Qual è stato il migliore atto di ribellione della tua vita?
Ho comprato un cane durante il lockdown… Non suona come un atto di ribellione, ma in un certo senso lo è, perché mi ha fatto pensare: “Come faccio ad occuparmene se vengo ingaggiata per un lavoro?”. Ma sentivo di doverlo fare, quindi è stato un piccolo atto di ribellione perché ho aperto un nuovo capitolo della mia vita.
Anche decidere di fare l’attrice è stato un atto di coraggio. Tutti mi dicevano sempre, “È un mondo difficile, ne sei sicura? Perché non fai questo invece?”. Nonostante le porte chiuse che ho trovato per un lavoro o per l’altro, ho sempre continuato a pensare: “Voglio ancora provarci”. Quindi, credo che, sotto certi aspetti, diventare un’attrice è stato un atto di ribellione.
“…decidere di fare l’attrice è stato un atto di coraggio”.
È facile riconoscere te, chi sei veramente, nel tuo percorso e nelle tue scelte lavorative…
E secondo me sta tutto anche nello scegliere a cosa vuoi lavorare, ma penso di star facendo progressi perché ora capisco che nel tuo lavoro non devi solo riempire il tempo, ma devi anche lasciar spazio al silenzio e alla calma, e dire di no e aspettare, e anche non dire di no quando promette tutto bene e puoi fidarti delle persone e del progetto perché quando arriva quello giusto, lo sai, e allo stesso tempo devi vivere la tua vita con quell’incertezza. Così, a volte, ho la sensazione che anche solo vivere liberamente sia un atto di ribellione, quando la tua vita contempla l’incertezza.
Secondo me, anche solo essere una persona creativa è un atto di ribellione.
Qual è la tua isola felice?
Amo Londra, e portare a spasso il mio cane ad Alexandra Palace – quello è la sua isola felice [ride] – e adoro stare in mia cucina, cucinare, amo cucinare e amo il cibo.
Da bambina, ho passato del tempo in Italia, e c’è stato un periodo, tra i 2 e i 6 anni, in cui non mangiavo niente che non fosse pasta [ride]. E poi, mia madre era una cuoca eccellente, così ho capito che cucinare mi aiutava a capire me stessa, è qualcosa che faccio per sentirmi a casa. Quando cucino, mi sento con i piedi per terra, e se non posso farlo per un qualsiasi motivo, non mi piace, quindi sono costantemente alla ricerca di un modo per connettermi con quella parte di me stessa ovunque mi trovi, perché è molto importante per me. È quella la mia isola felice, credo.
Cosa significa, per te, sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Credo significhi semplicemente accettare il fatto che il tipo di lavoro che vuoi fare consista nel concentrarsi sulla vita della persona, a prescindere da quello che fa. Voglio non provare alcun tipo di vanità, non preoccuparmi di quello che potrebbe sembrare, quindi riuscire a fare i conti con la possibilità che altre persone la vedano diversamente. Quindi, sentirmi libera di dire la verità – è allora che mi sento a mio agio con me stessa, e gli ambienti che promuovono questo tipo di dinamica mi fanno sentire a mio agio. Probabilmente, eviterei un qualsiasi ambiente in cui non sentissi di avere quella libertà, a meno che non sia un aspetto proprio del personaggio; ma, ripeto, puoi esplorare un personaggio che sembra superficiale e incredibile e tutti quanti pensano che sia davvero così, ma in realtà raccontare una storia completamente diversa.
Dunque, è il contrario di sentirsi fisicamente a disagio e avere l’impressione che la propria opinione non venga presa in considerazione e che tu non possa dire di no: significa essere autentici con le persone e non cambiare troppo sé stessi per adeguarsi all’immagine che le altre persone si aspettano che tu abbia.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup by Buster Knight.
Hair by Davide Barbieri at Caren using Balmain Hair.
Styling by Freya Monro Morrison.
Location Westland London.
Thanks to Prosper PR.
LOOK 1
Dress by Szabo Sihag
Shoes by Rene Caovilla
Earrings & Ring by Loveness Lee
Bangle by Alighieri
LOOK 2
Dress by Azzi & Osta
Shoes by Jimmy Choo
Earrings by Alighieri
Rings by Lark & Berry
LOOK 3
Dress by Elliatt
Shoes by Di Monno
Necklace by By Alona
Earrings by Pilgrim