Cristiana Dell’Anna sogna un mondo senza confini, una narrativa in cui sentirsi rappresentata, una realtà in cui poter essere padrona della penna che ne scrive la trama e una colonna sonora che ne segna i momenti topici.
Sognatrice tanto quanto realista, Cristiana non rinuncia alle avventure quando le si presentano con promesse di crescita e memorie indelebili. In una stimolante chiacchierata, ci ha raccontato le sue ultime avventure: “Mixed by Erry”, il nuovo film di Sydney Sibilla sulla pirateria musicale nella Napoli degli anni ’80, e “Piove” di Paolo Strippoli, una “storia di fantasmi” sui fumi della violenza romana.
Con Cristiana Abbiamo parlato della musica e della sua capacità di “coinvolgere e mettere d’accordo tutti”, ricollegandoci alla sua stessa carriera musicale, che include un singolo inciso (“Carpe D.M.”) e una collaborazione con Ntò (“Pe t’avé”).
Mirando alla terra, sui cui tenere saldi i piedi, ma anche all’orizzonte, da rivoluzionare quando ci si sente in gabbia.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Il primo ricordo forse è legato al 1998, quando è uscito “Titanic”. Non era abitudine della mia famiglia portarci al cinema. Ci saremmo andati in tutto nella vita forse 5 o 6 volte insieme, volendo esagerare. E quella è stata la prima. Quindi sicuramente per me “Titanic” ha avuto l’importanza fondamentale di chiarirmi le idee su quello che volevo essere nella vita, non solo perché mi è capitato in un’età delicata, quando ero solo un’adolescente, ma anche perché era la prima volta che mettevo piede in una sala cinematografica.
Mi ha cambiata per sempre.
Uno dei tuoi ultimi progetti cinematografici è il nuovo film di Sydney Sibilla, “Mixed by Erry”. Una storia ispirata a fatti realmente accaduti, sul preludio della pirateria in Italia, ambientata a Napoli negli anni ’80. Che esperienza hai avuto su questo set? Qual è stata la prima domanda che ti sei posta una volta letta la sceneggiatura?
La prima domanda è stata: sono pronta, quando iniziamo?
Ci sono sceneggiature che vivono già dalle prime pagine, tanto sono scritte con disinvoltura. Ricordo di aver riso tanto, mentre leggevo, un po’ perché essendo una storia con genialità tutta napoletana, ovviamente non posso che trovare una connessione particolare, un po’ perché Sydney ha un senso dell’umorismo spiccatissimo e traspare nella sua scrittura, insieme a quella di Armando Festa, con cui ha firmato la sceneggiatura. Sul set, tante risate e la meravigliosa sensazione di casa, visto che ho rincontrato vecchi colleghi e amici.
Hai svolto ricerche particolari, sull’epoca, l’ambientazione, le tematiche affrontate, per prepararti alle riprese?
I ricordi sono stati la materia principale su cui fondare le ricerche. Sono nata in quegli anni e pur avendo vissuto la scia delle vicende del marchio “Mixed by Erry” non ci è voluto molto a raccogliere qualche informazione, spulciare qualche vecchia foto e via.
Il film racconta l’ascesa dell’impero musicale di Enrico “Erry” Frattasio, un ragazzo che insieme ai suoi fratelli trasforma i suoi mixtape in una vera e propria impresa internazionale e illegale. Qual è il ruolo del tuo personaggio nella storia? Ci racconti qualcosa in più di lei e di come ci hai lavorato su?
Non so quanto posso rivelare, a dir la verità. Posso dire però che un aspetto del mio personaggio era lontano anni luce da me, pur riconoscendolo benissimo: la dedizione verso la casa e i suoi abitanti, tipica delle nostre nonne. Io ne ho avute due estremamente diverse l’una dall’altra, ma entrambe con questo tratto tipico dell’epoca, della donna di casa, che evidentemente nel mio DNA non ha lasciato che una traccia infinitesimale.
Quindi, ritrovarmi sul set a vivere sotto la pelle di una donna la cui vita si limita alle mura familiari, come al solito mi lascia un certo senso di disagio, come se avessi un prurito acuto e costante in un punto della schiena che non riesco a raggiungere. Difficile liberarsene.
“Come se avessi un prurito acuto e costante in un punto della schiena che non riesco a raggiungere”.
La vita dei protagonisti è stata trasformata dalla musica, dal suo potere, dalla sua capacità di coinvolgere e mettere d’accordo tutti. Anche nella tua vita la musica ricopre un ruolo importante, con un singolo inciso (“Carpe D.M.”) e una collaborazione con Ntò (“Pe t’avé”) in curriculum: cosa rappresenta per te il lato musicale della tua carriera e personalità?
La musica è parte integrante della mia quotidianità, come quella di tutti immagino.
Mi piace immaginare a volte di avere una colonna sonora che magicamente parte nei momenti topici della mia vita, non so, tanto il primo bacio con mio marito, quanto se corro come una disperata per non perdere il treno… Sarebbe divertente accorgersi che improvvisamente in dolby surround è partita una musica a completare il racconto. Nella carriera per ora, mi limito a questi due pezzi usciti così per gioco. Un domani, chissà, mai dire mai.
Sydney Sibilla ha definito questo film una storia “che mi ha sempre fatto pensare a come talento e passione non abbiano nazionalità e superino ogni confine”; tra produzioni internazionali e locali, i tuoi talenti e le tue passioni hanno effettivamente superato i confini delle nazioni nel corso degli anni: c’è ancora un confine che non hai superato e ti piacerebbe oltrepassare?
Com’è brutta la parola “confine”, in un mondo che continua a difenderli con nazionalismi inutili, ad alzare muri e iniziare guerre per ridefinirli e rivendicare terra. Vorrei non esistessero.
Non ho mai pensato la mia esistenza in termini di confini, ma solo di scoperta continua. Come la scrittura, che per me è nuova terra all’orizzonte. Ho attraversato un tempo in cui – e lo sono ancora – ero assetata di storie scritte da qualcun altro, trovando che esserne parte fosse la mia realizzazione più alta. Oggi, sento di essere padrona della penna e di poter essere autrice di storie da raccontare, di poterle plasmare a mio piacimento, in modo da sentirmi totalmente rappresentata. Narrativamente intendo.
Ecco, questo forse è il limite che intendo superare, a breve.
“Com’è brutta la parola ‘confine’ […]. Vorrei non esistessero”.
Uno dei tuoi ultimi progetti è “Piove”, di Paolo Strippoli, in uscita questo novembre. Il film racconta una Roma alimentata dalla rabbia, sentimento comune a tutti i suoi abitanti: è la rappresentazione di una situazione al collasso, di uno stato dell’animo e dell’ambiente che non è troppo distante dalla realtà. Quale responsabilità hai sentito e senti sulle spalle raccontando una storia portatrice di significati e moniti come si preannuncia essere questa qui? E quale “messaggio tra le righe” speri riesca a raggiungere il maggior numero di spettatori possibile?
Sicuramente, l’horror è un genere che, attraverso l’esasperazione del male, ma anche attraverso lo splatter, la violenza strutturata nel genere, vuole affrontare sempre temi che abbiano un certo peso sociale. In particolare, secondo me, “Piove” lo fa perché si apre con immagini che fanno capire che i sentimenti di rabbia che si sono perpetrati nel tempo, nella storia, nei secoli, impregnano il suolo sul quale si vive, e in quella stessa terra ritornano; il concetto è quello dell’evaporazione di questi fumi dai tombini che nella storia hanno raccolto la violenza umana e continuano a raccoglierla e in qualche modo la restituiscono alle persone che abitano la stessa terra.
Quindi, il messaggio “fra le righe”, per così dire, è proprio questo: tante volte si fa riferimento nel film al sentirsi costretti a vivere insieme in una società, ma in realtà la società serve proprio a limitare quella violenza, a organizzare quella violenza, che potrebbe essere insita nell’essere umano, che quindi cerca di organizzarla. Il film vuole fare proprio questo, caricare lo spettatore di responsabilità e non tanto me; la mia responsabilità, piuttosto, coincide con la speranza che la storia arrivi a quanti più spettatori possibile, ma questa è una cosa che non dipende solo da te. Quindi, la responsabilità è più sullo spettatore, appunto, che deve cogliere questo messaggio, realizzare questo aspetto di sé stesso e della società in cui vive e modificarla.
Nel film tu interpreti Cristina, una madre amorevole che si tramuta in fantasma della discordia, combattuta dall’antidoto della famiglia e dell’“unione che fa la forza” contro il male e la rabbia. Quale aspetto ti ha colpita di più del tuo personaggio e cosa hai imparato da lei, interpretandola?
Io amo le storie di fantasmi, di personaggi che tormentano persone del presente. Il fantasma è qualcosa del passato che ritorna sempre, che incombe sulle nostre vite e le condiziona tantissimo. Cristina non è tanto il fantasma della discordia, quanto il fantasma del senso di colpa, secondo me, che da sé stessi si vuole scaricare all’altro. Questo dramma familiare straordinario è sullo sfondo del genere horror, motivo per cui ho scelto di fare questo film: l’idea di una famiglia distrutta che non riesce a superare un evento terribile è l’aspetto che più mi ha colpito della sceneggiatura.
Per quanto riguarda Cristina, secondo me non sempre si deve imparare qualcosa dai personaggi: il mio questa volta è stato bello da interpretare e, in realtà, più che il personaggio in sé, è stato il suo essere fantasma che mi ha intrigato tanto, questa sua presenza oltre la sua vita, che si avverte anche se il personaggio non appare molto dentro il film, l’avverti già dall’inizio ed è straordinario.
È un personaggio che c’è già quando non c’è.
Nel lavoro e nella vita, ti reputi più istintiva o razionale?
Non lo so. Davvero. A volte sono un giocatore di scacchi, altre un animale in gabbia che non aspetta altro che uscire. Davvero non saprei dire quale dei due vince sull’altro. Convivono, coesistono e si sopportano [ride].
Quali sono le prime tre canzoni della tua playlist in questo periodo?
Sto ascoltando Ezio Bosso a iosa ultimamente. Ma non mancano mai le mie voci di sempre: Ella, Whitney, Aretha, Nina, per citarne alcune.
E la canzone che descrive questo preciso momento della tua vita?
“Big dreams and faded jeans” di Dolly Parton.
Qual è il primo DVD/VHS che hai comprato?
“La bella e la bestia”. Anche se me lo hanno comprato i miei. Quello comperato autonomamente, sinceramente non lo ricordo… ma se non sbaglio: “Once upon a time in America” e “Nuovo Cinema Paradiso”, mi pare di averli comprati insieme. Ad ogni modo, sono stati tra i primi. E poi “Umberto D”, di cui ho una vecchia registrazione in VHS, quando si potevano copiare dalla TV, quando li mandavano in onda. Magari non era legale… Ma vabbè, erano i tempi di Mixed by Erry ancora…[ride].
Il tuo eroe musicale?
Senza dubbio Whitney Houston. Sono cresciuta con le sue canzoni e la sua voce perfetta e graffiante. Quando è scomparsa, ho pianto come fosse scomparsa una parte di me che credevo non potesse morire mai.
Un personaggio realmente esistito che ti piacerebbe interpretare in un biopic?
Ho avuto la fortuna di interpretare Francesca Cabrini, in un film che dovrebbe uscire a breve. Un’italiana che negli Stati Uniti e non solo, ha aiutato gli immigrati ad integrarsi, lottando perché avessero pari diritti e opportunità.
Chi o cosa ti ispira nella vita privata e professionale?
Mi rivolgo spesso alla filosofia, alla letteratura. Sono un’avida lettrice. Autori e personaggi di storie che sanno stravolgermi e rovesciare i miei punti di vista. Da loro traggo ispirazione. Trovare conferme è troppo facile, lo facciamo quotidianamente senza accorgercene. Ma testarci sulle tesi contrarie alle nostre, è lì che vive l’ispirazione, l’evoluzione e l’arte.
“Testarci sulle tesi contrarie alle nostre, è lì che vive l’ispirazione”
Il libro sul tuo comodino in questo momento?
“Tyll: A Novel” di Daniel Kehlmann.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Mi verrebbe da dire: inseguire i miei sogni.
Ma poi penso che con la bicicletta da cross, sono scesa lungo la Ruta de la muerte, un percorso a strapiombo che parte da 4000 metri e in discesa ripida contorna una montagna alle porte di La Paz, in Bolivia. Ecco, diciamo che ho fatto una cosa bella coraggiosa quella volta. Non si chiama Ruta de la muerte per un motivo così a caso.
Di cosa hai paura?
Come Harry Potter, della paura stessa.
Se ne avverto una, dovessero anche tremarmi le gambe, mi ci lancio dritta dentro e provo ad affrontarla.
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Non dover costantemente subire il giudizio degli altri, poter essere liberi di essere chi vogliamo, come lo vogliamo. Averne il diritto ed esercitarlo, senza dover stare lì a combattere col pregiudizio della gente. Che spesso corrompe il giudizio che abbiamo di noi stessi. Ecco liberarsi di questo costante termine di paragone credo renderebbe tutti molto a più a proprio agio nella propria pelle.
L’ultima cosa o persona che ti ha fatta sorridere?
Un collega e regista con cui sto lavorando in questo momento. Siamo un trio scoppiettante e durante le prove ci siamo reciprocamente ridotti in lacrime, dalle risate.
Qual è la tua isola felice?
Non te la dico. È roba privata.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup & hair by Francesca Naldini.
Styling by Sara Castelli Gattinara.
Assistant styling Bianca Giampieri.
Thanks to Location Hotel Donna Camilla Savelli.
Thanks to Other srl.