Se c’è una persona che intervisterei ogni mese, quella è Daniela Collu.
Non solo perché tramite le sue parole si aprono spunti di riflessione non scontati, non solo perché mi piace ritrovarmi a parlare con lei (che sia davanti ad uno schermo o con un bicchiere di vino in mano), non solo perché penso che sia una delle persone più influenti in questo momento nell’entertainment italiano e che con la sua influenza faccia del bene, ma quello vero. Mi piace intervistarla perché i suoi progetti sono sempre i più interessanti, per cui mi è impossibile pensare di non farlo.
Questa volta infatti abbiamo parlato del suo podcast “Sigmund” per Il Post, in cui tratta, insieme a dei professionisti, di psicoterapia, dell’effetto che i social hanno su ognuno di noi, della tecnologia, della depressione, del corpo, del futuro ma tanto anche del presente. Un vero servizio pubblico per chi non sa cosa voglia dire andare in terapia, per chi ci vuole andare ma non sa come funziona e per chi ci va già e vuole essere ancora più consapevole del mondo che gli gira intorno.
Perché, come ha detto Daniela stessa, con questo progetto nessuno voleva raccontare delle verità assolute, ma sottolineare che tutti noi attraversiamo un percorso e che quel percorso è umano e quindi soggetto a fraintendimenti: “però è vivo, è come noi”.
Intanto devo dirti che sono molto contenta perché non so se ti ricordi che qualche anno fa abbiamo fatto con te una delle nostre prime interviste in cui parlavamo di psicoterapia e che poi è diventato una sorta di format nel nostro magazine. Quando ho visto il progetto di “Sigmund” che stavi facendo con Il Post mi sono emozionata, non vedevo l’ora di sentirti ancora parlare di cose così importanti e fondamentali. E quella volta che ti ho fatto quella intervista mi hai detto delle cose che mi ripeto spesso ancora oggi, che sono importanti. Quale è la cosa più importante che forse ti è stata detta in questo nuovo percorso, facendo il podcast? Che ti ha aiutata anche con te stessa? Se ce ne è una in particolare.
Guarda, c’è una specie di filo rosso che poi si ritrova in maniera più o meno manifesta in tutte le puntate, ed è il vivere il cambiamento, in ogni fase della vita in cui ti trovi. Abbiamo parlato di depressione, uscita dalla depressione, disturbi mentali, condizioni psicofisiche che riguardano anche situazioni che magari non guariscono e che quindi diventano a tutti gli effetti una tua condizione di vita con cui devi semplicemente imparare a convivere; abbiamo parlato di terapia familiare, abbiamo parlato di crescita, abbiamo fatto una puntata sugli adolescenti, e mi sembra di capire che la cosa a cui siamo sempre meno abituati è percepire il cambiamento, accettare il cambiamento, concepire il cambiamento. Quindi, pensare che siamo in evoluzione, e che non si tratta di un’evoluzione che va necessariamente in salita, verso un traguardo, ma che a volte ci si può anche arrotolare, sbagliare, infilarsi in un vicolo cieco, comunque fa parte di un nostro percorso interiore che non si può ignorare.
Noi non possiamo pensare di proseguire dritti verso il traguardo, verso l’obiettivo finale senza pensare al passo che abbiamo, al ritmo che abbiamo, alla stanchezza che sentiamo, alla fatica che sentiamo, a chi ci accompagna, a come è fatta la strada. Di conseguenza, la cosa più importante di “Sigmund” per me è che tutti si siano presi del tempo per stare a sentire una parola saggia, lucida sulle questioni che abbiamo affrontato. Insomma, mi sembra che molte di queste questioni abbiano a che fare con il concetto del cambiare.
Non siamo pronti a cambiare, non siamo preparati a cambiare.
“…a volte ci si può anche arrotolare, sbagliare, infilarsi in un vicolo cieco, comunque fa parte di un nostro percorso interiore che non si può ignorare”.
Penso anche che quello che hai fatto con “Sigmund” sia anche una sorta di “servizio pubblico”, utile a comprendere tantissime cose, anche perché i punti di vista delle varie puntate erano spesso diversi.
Me l’hanno detto in molti, e un po’ ce lo siamo detti anche al Post.
La prima puntata è una puntata strana, davvero quasi “di servizio”, in cui sgomberiamo il campo e spieghiamo che cosa significa avere a che fare con uno psicologo, uno psicoterapeuta, cosa significa entrare in quell’universo lì, come ci si districa in questo mondo che è abbastanza misterioso. Andare dall’analista non è come andare dal gastroenterologo, c’è una privacy, un’intimità, una protezione di quello che succede in terapia, il che è anche giusto, si tratta di un percorso che le persone devono affrontare privatamente, personalmente. Però è vero che a volte questo è anche il primo scoglio: tu non sai bene che cosa ti troverai davanti e quindi è come se fossi sempre un po’ restio ad iniziare, e ti chiedi: “Da dove comincio, chi cerco, come faccio, come lo faccio?”.
L’ho chiesto io di impostare quella prima puntata così, che poi è stata molto diversa dalle altre; ho voluto dire, come prima cosa, che “questo è il modo in cui si fa, non abbiate paura, è più facile di come sembra”. Ci siamo fatti spiegare da qualcuno che sa perché lo fa, quali sono i dubbi, i misteri e le ambiguità, le zone d’ombra di tutto questo ambito e poi siamo entrati più in profondità, nell’interiorità di ciascuno. Quello è stato il servizio pubblico, perché in effetti oggi è un tema di cui si parla tantissimo.
Tutti dicono che bisogna fare formazione nelle scuole, che bisogna avvicinare i ragazzi al tema della salute mentale, però è anche vero che è un tema molto difficile da trattare, perché ha a che fare con le singolarità di ognuno, con l’individuo, con le differenze, con le unicità.
Quindi è anche difficile tirare fuori una legge, o delle regole, motivo per cui io ho sempre tenuto a spiegare che ogni puntata di “Sigmund”, ogni ospite, ogni singola parola di ogni singolo ospite di “Sigmund” non ha la pretesa di essere una legge della fisica, perché ovviamente stiamo parlando di una scienza umana che ha a che fare con gli umani, che ha a che fare con le persone, che è in continua evoluzione, in continuo cambiamento.
Volevamo anche porre l’accento sul fatto che non c’è una verità, non c’è l’oro colato, ma c’è un percorso che tutti facciamo sapendo che è un percorso di umanità, quindi è soggetto a fraintendimenti, però è vivo, è come noi.
Sì, e ho trovato geniale il fatto che tu abbia voluto cominciare così, proprio spiegando tutto. Poi, posso dire che la canzone che c’è nell’intro e nei vari momenti di stacco mi piace moltissimo? Mi fa pensare ad un momento catartico, ma anche alla libertà, forse mi emoziona proprio, mi viene da piangere, non so, ascolterei una canzone di 15 minuti così.
A proposito di momento catartico, la sigla di “Sigmund” è un pezzo che si intitola “Gosh”, di Jamie XX. Per me è il pezzo catartico per eccellenza perché il mio ricordo legato a quella musica è un Primavera Sound in cui alle sei del mattino c’erano un milione di persone che ballavano su quel pezzo lì e che lo ascoltavano insieme; lì ho proprio pensato che siamo tutti connessi, che a volte esistono delle atmosfere, delle linee, delle energie che poi veramente ti legano alle persone. Quindi, quando poi ci siamo messi a pensare a quale potesse essere la sigla di “Sigmund”, ho pensato che fosse giusto usare quel pezzo. Non a caso, i miei amici hanno capito. Poi è un pezzo abbastanza inquietante ma c’è un’energia molto solida che proviene da quella canzone.
E in questo momento della tua vita cosa sta facendo per te la musica?
Io mi sono resa conto di una cosa, che non mi aspettavo di realizzare: prima ero tanto in silenzio, ma da quando sto con un musicista sono tanto con le persone e sono tanto con la musica. Gli ultimi anni sono stati pieni, gonfi di musica, ma di musica come elemento di aggregazione: tanti festival, tanti concerti, tante feste con amici stretti. Penso che la musica sia un legante fortissimo, ma d’altra parte chissà quante altre volte magari passiamo attraverso altri canali, no? A volte magari è lo sport, a volte è stare all’aria aperta, però penso che frequentare musicisti ti faccia conquistare tanto, ti faccia capire che la musica per loro è come avere una mano in più, è un linguaggio altro con cui tu sai e puoi comunicare, ed è un regalo enorme. Quella mano in più è veramente preziosissima.
“La musica per loro è come avere una mano in più, è un linguaggio altro con cui tu sai e puoi comunicare, ed è un regalo enorme”.
C’è una puntata in cui tu dici che il “compito a casa” non lo hai mai fatto, che la tua terapeuta non te l’ha mai dato. Che “compito” vorresti darti in questo momento, se ce n’è uno?
Allora, ce n’è uno che ogni tanto mi impongo di fare e che non faccio mai:
vorrei essere più brava a ricordare.
Io li capisco quelli che tengono un diario, che fanno il famoso “journaling”, anche se non è proprio un mio strumento. Però è anche vero che tutti noi stiamo tanto sul momento, un po’ perché il momento è molto affollato e un po’ perché è come se fosse enormemente faticoso, mentalmente parlando, pensare al futuro. Allo stesso tempo al passato ci hanno detto che non ci dobbiamo mai più pensare, che non dobbiamo mai guardarci indietro, mai tornare indietro neanche per prendere la rincorsa, e di conseguenza è come se potessimo scegliere soltanto tra presente e futuro. Il presente nessuno è veramente in grado di goderselo, e per il futuro, come si dice a Roma, “Beato chi c’ha un occhio”.
È come se io non riuscissi più tanto a manovrare il tempo.
Quindi, ogni tanto mettere nero su bianco mi è utile: ricordare che cosa abbiamo fatto, che cosa abbiamo pensato, da dove siamo partiti, qual è una cosa che desideravo un anno fa e che poi effettivamente si è realizzata, e io neanche me lo ricordo più che magari l’ho desiderata. Sai quando cammini in montagna, per esempio, ogni tanto è bello girarsi e dire: “Guarda siamo partiti da laggiù, guarda com’è piccola la casa ora”. Mi piacerebbe riuscire a fare quella cosa, raccogliere di più, fare di più il punto. Non sono brava.
No, neanche io. Nessuno lo è, temo, però sarebbe bello. Sarebbe come un superpotere.
Nella prima puntata parlate anche di imbarazzo, di come questo possa inficiare il percorso, a volte proprio nell’avere la difficoltà di dire quello che si pensa. Quante volte hai provato imbarazzo? Ti ha impedito di fare qualcosa nella vita?
Persino a me che parlo come una macchinetta è capitato di stare zitta in una condizione particolare, cioè durante il lockdown. Durante il lockdown ero depressa, tristissima, mi ero disabituata a parlare. Me ne stavo lì e pensavo: “Io non voglio parlare, non c’è un cazzo da dire”. Era come se fossi un po’ alienata al confronto, alla chiacchiera al racconto, era come se vivessimo questa specie di giorno della marmotta e non è che ci fosse poi così tanto da raccontare.
In più, le cose che dovevo raccontare erano probabilmente cose in quel momento troppo dolorose, troppo faticose anche da mettere a fuoco e quindi mi convincevo che non c’era niente da dire. Mi ricordo che la mia psicoterapeuta mi guardava quasi giudicante, i suoi occhi mi dicevano: “Sì, sì, certo, non hai niente da dire, come no, ti piacerebbe…”.
Dici in una puntata: “Non è necessario tenersi aggrapparti ai propri pensieri, si può andare avanti e averne altri”… Ti è mai sembrato impossibile? A me sicuramente sì, io mi ossessiono.
Certo, Il mio amico Orange una volta mi ha detto una frase che gli è stata detta e me l’ha ripetuta con la stessa tranquillità con cui l’hanno detta a lui, ovvero: “Non è niente, sono solo emozioni, poi passano”. Per me, è come se si fosse aperto il cielo, capisci? Poi ne ho parlato alla mia psicologa, e ricordo che lei mi aveva detto, “È esattamente così”.
Dovremmo imparare a dare alle emozioni positive la stessa importanza che diamo alle emozioni negative: se ci pensi, noi passiamo settimane intorno a un’emozione negativa e poi invece è molto facile dimenticarsi che sei stato felice per sei ore, no? Ti sei divertito tantissimo un giorno, ma il giorno dopo quell’emozione se la mangia lo stress, la tristezza e tutto il resto. Quindi si tratta anche di un invito a riflettere sul peso specifico che diamo alle nostre emozioni, su quanto è più spaventoso e quindi “vampiresco” il lato negativo di quello che viviamo, quanto la paura succhia di più rispetto alla felicità, sul rimanere appiccicato ad un pensiero e non riuscire mai a staccarsi.
Io più volte nella vita ho pensato, “Starò male per sempre”, ma poi ho anche pensato che era un pensiero che non avrei mai voluto fare e l’ho voluto interrompere, ho provato a interromperlo. Sono stata fortunata, ci sono riuscita.
“Dovremmo imparare a dare alle emozioni positive la stessa importanza che diamo alle emozioni negative”
Mi è piaciuta anche tantissimo la parte in cui con lo psichiatra Giovanni Foresti parla di intelligenza e dice che è la più sopravvalutata tra le funzioni celebrali. “La si idolatra. Si suppone che un alto quoziente intellettivo sia capace di cose che agli altri sono sconosciute, come un semidio”. Forse l’intelligenza emotiva è più importante?
In realtà è una cosa a cui, quando ero più piccola, non ho mai pensato. Non ho mai pensato che potesse essere apprezzato il mio modo di essere in un certo modo: per esempio, io sono una persona molto empatica, ma a scuola ero una sega. Però io dovevo andare bene a scuola, perché il nostro è un sistema che ti insegna ad andare bene a scuola, non ad essere empatico. Eppure, ora mi rendo conto che è come se avessi puntato su un cavallo sbagliato per tutta la vita.
“Sii vincente”, ci dicevano, e poi ci siamo ritrovati con generazioni di vincenti tossicodipendenti, depressi, infelici, soli, spaventati, spaventosi, e allora la domanda sorge spontanea: “Ma siamo sicuri?”. Abbiamo deciso che quello è il punto d’arrivo, ma non so se ci stia andando tanto bene.
Penso che la scoperta, oggi, sia realizzare che esiste un’intelligenza creativa che io non ho assolutamente coltivato negli anni.
Oggi, se hai a che fare con ragazzini con la ADHD, con ragazzi che sono nello spettro autistico, quella viene considerata una forma di intelligenza. Noi della nostra generazione, invece, abbiamo puntato sull’intelligenza del risultato scolastico, in un sistema scolastico che tutti questi aspetti della personalità non li prendeva minimamente in considerazione.
In una puntata si parla anche di quanto il cibo sia importante per noi, anche come atto sociale, di quanto questo influisca su di noi, sul nostro corpo, a volte anche troppo. Tu sei in grado di liberarti di questa emozione o sensazione, dell’importanza di questo aspetto?
È difficile liberarsi di questa sensazione. Noi siamo ossessionati dal cibo, dall’effetto del cibo sul nostro corpo e dall’effetto del corpo sulla socialità, che è una specie di catena orrenda che abbiamo creato negli anni. Noi sul cibo appoggiamo tantissime cose, ed è vero che gli italiani mangiano parlando di cibo e che tutto l’affair gastronomico per noi è cultura, storia, patrimonio, però è anche vero che io non conosco nessuna donna sopra i 65 chili che si sia trovata proprio agio a mangiare un panino in spiaggia in bikini. Anzi, mettiamola così, non conosco nessuna donna che abbia una relazione sana con il cibo. Questo ha a che fare con i modelli, ha a che fare con il fatto che per anni ci siamo detti che le donne mangiano solo un’insalatina, che non hanno fame davvero, che possono rinunciare al dolce e tutte quelle cose lì, perché il modo in cui il corpo resiste al cibo è più importante del modo in cui il corpo si gode il cibo.
Quindi, purtroppo quella che dici tu è non tanto una sensazione o un’emozione, piuttosto credo che sia l’effetto di un condizionamento sociale che le donne in particolare hanno vissuto. Purtroppo, oggi è uno stereotipo che si è allargato molto anche agli uomini, ma per fortuna tutta la lotta che fortunatamente si sta portando avanti contro grassofobia, stigma e tutto il resto, un po’ lo indebolisce.
“Noi siamo ossessionati dal cibo, dall’effetto del cibo sul nostro corpo e dall’effetto del corpo sulla socialità”
C’è una bella frase che viene detta a proposito, ovvero “Il desiderio umano si nutre, oltre che del cibo, del desiderio dell’altro”. Di cosa ti nutri tu?
Io mi nutro dell’altro in termini di curiosità, di desiderio di relazione, di vicinanza, di parola, di scambio. Io sto molto bene da sola, nel senso che sono una persona che è abbastanza abituata anche a stare fisicamente da sola, però mi piace anche stare con le persone, mi piacciono gli esseri umani tantissimo. Ieri sera abbiamo festeggiato l’inaugurazione di VARSI a Trastevere, e c’erano 500 persone intorno a me che ballavano e io in quel momento ho pensato che era quella la mia condizione ideale.
Io voglio partecipare alle cose delle persone: mi servono gli esseri umani.
Ho imparato anche a sorbire il meglio e il peggio degli esseri umani, e non sempre sono brava a resistere agli effetti, però, per rispondere alla tua domanda, credo di nutrirmi dello scambio, dell’essere con le persone.
Si parla spesso di “proteggersi e curarsi”. Da cosa ti senti protetta in questo momento?
Mi sento un po’ più protetta rispetto a prima dagli attacchi esterni, e per “esterni” intendo “lontani da me” ma che, per il lavoro che faccio, hanno un canale privilegiato per arrivare sulla mia pelle. Se ci pensi, essere online oggi significa stare col coltello tra i denti, parare i colpi, avere molta voglia di sferrarne di tuoi a tua volta, litigare, giudicare, essere giudicati, essere attaccati. Adesso sento di essere un po’ più protetta da tutta quella serie di cose.
Certo, ci devo ancora lavorare su, nel senso che devo ancora rifinire gli ultimi dettagli, però ho sicuramente imparato a proteggermi meglio.
Oggi, nulla di quello che è veramente importante per me è online, e nulla di quello che è veramente poco importante per me è online; ciò significa che ho rinunciato e rinuncio volentieri al commento gratuito, alla stronzata fuori posto, al Tweet estemporaneo che poi sappiamo che “esce male”. Ho iniziato a fare pulizia e quindi mi sento più protetta perché ho diminuito drasticamente le occasioni di vulnerabilità e svalutazione delle cose che vivo. Non voglio più che le mie cose siano online, perché lì purtroppo è molto difficile manovrare le cose con cura, con attenzione e dando il giusto valore a quello che l’altro scambia con te.
Ora non mi fregano più.
Brava!
Poi c’è la puntata sul narcisismo. Il narcisismo si confronta con una quasi totale mancanza di empatia. Questa è una cosa che mi spaventa molto se ci penso. A volte penso di averne troppa io, di essere dall’altro lato, ma non per vantarmi, anzi non penso sia sano. Allo stesso tempo credo che se tutti avessero empatia il mondo sarebbe salvo o quasi. In un certo senso è come se i narcisisti avessero il mondo in mano, considerato anche il loro modo di vedersi sempre “grandiosi” e di non poter concepire un fallimento. Tu che rapporto hai con il fallimento?
Io lo metto in conto ancora prima del successo [ride]. Per me si parte dal fallimento. Tra l’altro, è divertente perché se non sei narcisista, hai la sindrome dell’impostore, ma spesso quelli che dicono di avere la sindrome dell’impostore in realtà sono narcisisti, quindi è tutto molto complicato.
Insomma, per me le cose “vanno male”: io per qualunque progetto parto dicendo, “Vabbè, non piacerà a nessuno, non lo leggerà nessuno, non lo ascolterà nessuno, andrà male”. In realtà, questa cosa mi aiuta anche a pensare che tanto se devo andare male almeno faccio una cosa che piace a me, e così almeno sono contenta di farlo. Poi è ovvio che sono consapevole che ci siano tante persone incuriosite dal mio lavoro, affezionate a me o a quello che ho fatto, alla mia faccia, alla mia voce, e lo so che poi c’è un riscontro, una risposta da parte loro, però io metto in conto che le cose possano anche essere sbagliate, possano venire male.
Ormai per me il fallimento non è più uno spettro, capisci?
Non è più un fantasma, un satana. Anche perché chiunque abbia lavorato nell’ambiente in cui ho lavorato io, quindi la televisione, è circondato da persone che il fallimento lo vivono veramente molto male.
Si parla anche di luoghi chiusi, che rinchiudono. Ti sei mai sentita rinchiusa?
Io so di aver fatto un favore a me stessa moltiplicando le stanze in cui potevo chiudermi. Ho sempre fatto tante cose, sono sempre stata tante cose, ho cambiato tante volte direzione, quindi quella di “sentirmi rinchiusa” non è una cosa che sento molto. Però, capisco che è una tendenza, anche perché secondo me in questo paese i social hanno un’etichetta. Penso che a volte ti rinchiudano in un contenuto o in una serie di contenuti che fai con gli altri. Ti ci rinchiudono loro o ti ci rinchiudi tu, perché inevitabilmente quando vedi che un certo contenuto ottiene like, alle persone piace e tu hai quel ritorno, quel feedback così piacevole, pensi: “Mi amano, gli piaccio, io questo lo so fare e lo rifarò”. Però, magari poi a te quella cosa che hai fatto una volta non piace più, e realizzi che non è particolarmente aderente a te; quindi, ogni tanto bisogna fare un lavoro di pulizia rispetto all’idea che gli altri hanno di te o che tu hai avuto di te. Anche questo ha a che fare col cambiamento: dobbiamo imparare a domandarci, “So che gli altri vogliono questo da me, però io lo voglio da me?”.
“So che gli altri vogliono questo da me, però io lo voglio da me?”
Nella puntata in cui si parla di social si parla del fatto che non siamo più capaci di attendere: qual è l’ultima volta in cui ti sei sentita capace di attendere?
Bella domanda: temo di non avere la risposta. Io non sono molto brava ad attendere, non ho molta pazienza, non mi piace l’attesa, la inganno, ci infilo altre robe in mezzo.
Questo si ricollega un po’ al discorso sul tempo che ti facevo prima. È vero che siamo molto bravi a stare “qui e ora”, che sembra ormai l’imperativo categorico: essere nel presente, vivere nel presente. È difficile aspettare, perché è proprio difficile darsi un tempo di realizzazione delle cose, abbiamo una frustrazione di serie ormai. Io, per esempio, mi sento molto frustrata nell’attesa e non a caso, appunto, la riempio di cose da fare e di robe da fare. Io più che attendere vorrei saper rallentare, dilatarli un po’ questi tempi e sapere che ci sto un po’ più comoda dentro.
Sempre nella puntata dedicata ai social, si dice: “La tecnologia lavora sulle emozioni ma non sa trasformarle in sentimenti”. Per te è totalmente vero?
Abbastanza. Diciamo che secondo me è possibile che si trasformino in sentimenti, ma ho imparato a pensare che quei sentimenti non siano dati dalla tecnologia, ma dalla costruzione umana che ci abbiamo messo. Io lavoro sulle emozioni, però è anche vero che noi siamo molto più abituati alle emozioni che ai sentimenti, cioè a questa specie di geyser emotivo delle cose che ci arrivano e quindi ci indigniamo, ci arrabbiamo, ci disperiamo per Gaza, ci innamoriamo di uno, ci avveleniamo per la politica, però quella cosa poi diventa sentimento. Diventare sentimento prevede un’elaborazione e io non so se abbiamo sempre il tempo e le energie, le risorse, l’attenzione per rielaborare le cose che abbiamo vissuto emotivamente.
Sono abbastanza d’accordo con quella frase, soprattutto perché ricordo che nel podcast quella frase racconta il contesto di “povertà” che ci rimane poi alla fine di tanto utilizzo di tecnologia, che poi in fondo non è basato su umanità veramente formate, su personalità veramente solide; quindi, è come se ci caricassimo emotivamente, come se la pancia fosse sempre in movimento, però poi la testa, il ragionamento, il pensiero, l’anima, la rielaborazione di quelle cose secondo me resta molto povera. Ho pensato che serve un lavoro extra tecnologia, molto grosso, e ho capito che quel lavoro lo puoi fare con qualunque altra cosa: con quello che vedi per strada, con quello che leggi, con quello che le persone ti dicono, con le cose che sogni, con le cose che immagini…
Se abbiamo tutti quegli strumenti, allora perché stiamo con questo cazzo di telefono in mano 18 ore al giorno?
Si è parlato anche di social network in relazione con la rabbia. Come ti senti adesso nei confronti dei social e della rabbia?
Mi sento ancora molto in colpa e mi vergogno molto della rabbia che ho esternato. Non è successo spesso, però se ripenso alle volte in cui è successo mi faccio tenerezza e quasi pena a guardarmi col senno di poi. Mi chiedo cosa pensavo di riversare su un perfetto sconosciuto, quale forma di frustrazione o annientamento pensavo di voler dare a quello sconosciuto. Mi è dispiaciuto per me, oltre che per loro. Quella forma di non curanza, di non controllo delle emozioni mi ha fatto molta paura, soprattutto perché poi l’ho vista negli altri: se averla vista in me mi ha un po’ terrorizzata e quasi disgustata, ora quando mi capita di assistere a questa cosa da spettatrice, non posso che chiedermi, “Ma ce la facciamo tutti quanti a non arrivare a quel punto lì, a capire prima che nella vita vera le emozioni si possono gestire?”.
Quella dei social è una comunicazione falsata per sua natura: comunichi con gente che non conosci, che non hai davanti, non sai il tono di quello che si sta dicendo, non sai il pregresso. Ad una cena tu non litighi con quello del tavolo accanto, sui social invece funziona in modo diverso, lì mandi a fanculo la gente senza pensarci troppo, o almeno a me è capitato. Allora mi sono sembrata molto piccola rispetto alla gestione della rabbia, mi sono sentita un po’ indifesa, come se mi avessero lasciato una pistola in mano nel giorno più brutto della mia vita, quando è chiaro che poi spari. Io però non voglio essere una che spara perché ha passato il giorno più brutto della sua vita, non sono quella persona lì. Penso che bisognerebbe fare alcuni passi indietro e ritarare i confini delle cose che si considerano importanti.
“Penso che bisognerebbe fare alcuni passi indietro e ritarare i confini delle cose che si considerano importanti”.
Dipendenze tecnologiche: ti sei mai chiesta se ne hai avuta una? Io ci ho pensato spesso perché credo sia stato con lo shopping online, sia che avvenga che no, ma il costante “cercare qualcosa”. E anche qui, se decido di non acquistare, come la maggior parte delle volte, altrimenti non avrei i soldi per mangiare, mi arrabbio perché ingrandisco il gap di quello che Valentina vorrebbe essere con quell’abito o quell’oggetto e quello che è davvero Valentina.
Lo capisco. Purtroppo, il meccanismo di proiezione della nostra testa fa sì che tutte le donne che tu vedi su Instagram, per esempio, possono essere una Valentina con quella cosa là, con quella vacanza, con quella casa, con quel vestito, con quel corpo, con quel fidanzato… È quello il problema: se ci pensi, noi tutto il giorno proiettiamo noi stessi negli altri, il meccanismo di proiezione nel cervello è il più basico che esista nella relazione con gli altri.
Se pensi a quanti noi abbiamo moltiplicato negli altri, è il minimo che tu sia arrabbiata, perché non sei tutte quelle cose e non hai tutte quelle cose.
Ti dicono che sei invidiosa, ovviamente, ed è vero, lo siamo, vogliamo che gli altri ci vedano con la stessa ammirazione con cui noi guardiamo loro, e se per ottenere questo basta comprare una borsa, allora che ci vuole? Compriamo tutto, ed eccoci qua, povere [ride].
Quando il dottor D’Avenia spiega che le piattaforme di social network sono strutturate com’è strutturato il gioco d’azzardo, o le slot machine, o tutte quelle cose che portano alla ludopatia, è vero, ha ragione. Io posso stare un’ora su TikTok e quando lo chiudo voglio mille cose diverse, e mi chiedo: “Possibile che in un’ora ho avuto tutti questi desideri?”. È un po’ strano, soprattutto calcolando che finora ho vissuto bene anche senza tutte quelle cose. Ci hanno fottuto il cervello e mi viene da dire che non è colpa nostra, però purtroppo ci dobbiamo lavorare noi.
Immagino e spero che ci saranno altre stagioni e puntate di “Sigmund” ma, se potessi fare un’altra puntata ora, su cosa la faresti?
Forse la farei sulle relazioni amorose, che sono un mondo tutto fatto di archetipi, desiderio di essere visti, finte generosità, finta spinta che invece è tutta voglia di ricezione, è tutto fatto di modelli.
Tornerei al mio primo vero amore, cioè le chiacchiere amorose.
Domanda che ti faccio in tutte le nostre interviste: che libro mi consigli?
C’è un libro che voglio consigliare a tutti che si intitola “Storie di mia vita” di Janek Gorczyca edito da Sellerio. È un libro straordinario che ho letto quattro giorni fa. Me lo porterò in valigia per farlo leggere a chi verrà in vacanza con me.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup and Hair by Elisabetta Distante.
Styling by Sara Castelli Gattinara.
Assistant stylist Ginevra Cipolloni.
Thanks to Other srl.
LOOK 1
Coat: Rotate
Shoes: Suede Store Roma
Jewelry: Argentoblu
LOOK 2
Total look: LADOUBLEJ
Jewelry: LadoubleJ
Cardigan: Gio Gerosa
LOOK 3
Trench: Federica Tosi
Shorts and shirt: Sandro Paris
Shoes: Suede Store Roma – Adidas Gazzelle
Jewelry: LadoubleJ
LOOK 4
Total Look: The Frankie Shop
Jewelry: Argento Blu
Shoes and hat: Suede Store Roma