Daniela è un abbraccio.
Un abbraccio sincero, che ti dice la verità, che ti fa fare i conti con te stessa e che ti “costringe” ad amarti un po’ di più.
Ogni volta che ho il piacere di parlare con Daniela mi rendo conto di quanto mi piacerebbe avere alcune sue parole e frasi registrate da qualche parte, da risentire ogni volta in cui ne ho bisogno. Ma non si tratta di belle parole di per sé, intendo quei discorsi che ti mettono in gioco, facendoti scoprire qualcosa di nuovo (o di nascosto) e ti fanno dire “possibile che io questa cosa non la veda?”. A volte queste parole sono “schiaffi” sulla realtà ma è tutto a fin di bene e, chi partecipa alle sue terapie di gruppo, lo sa.
Daniela è la nostra Cover di marzo e con lei abbiamo parlato di salute mentale, di lontananza, solitudine, gioia e amore per sé stessi, ma anche di quanto questo sia difficile. E di come, in questo momento felice della sua vita la domanda “Perché no?” sia diventata per lei la più importante, proprio come dimostra il suo ultimo libro.
Io le parole di Daniela me le sono scritte in un post it, da guardare quando ne sento il bisogno e mi fanno sorridere di gioia. Daniela ti fa capire il potere di ciò che non vediamo di noi stessi e lo restituisce in forza. Proprio come lo fa un suo abbraccio. Ecco il potere di Daniela.
Parli spesso del tuo percorso terapeutico, lo consigli sempre, e poi fai anche le tue sedute di gruppo; io, quando vedo queste cose, tutte le informazioni che dai, mi sento così grata che ci siano delle persone come te, che facciano informazione su un argomento così importante. Ci sono dei cambiamenti che ti piacerebbe vedere riguardo questo tema, anche sulla normalizzazione del discorso? Oppure cambiamenti che lo Stato e/o la società, secondo te, dovrebbe fare?
Beh, sai, nell’anno in cui è successo anche che si sia messa in dubbio l’approvazione del bonus psicologi, a differenza della facilità con cui sono stati approvati i vari bonus terme, monopattini, rubinetti, eccetera, credo che quella dovrebbe essere una priorità indipendentemente dal resto: dovrebbe rientrare nella questione sanitaria di un Paese, soprattutto di un paese che, banalmente, ha visto i suoi cari dentro a delle bare portate via dai carri armati. È vero che noi Italiani, forse storicamente o biologicamente, abbiamo la tendenza a rialzarci subito e far finta di niente, ma io non credo che ci lasceremo così facilmente alle spalle i segni di questi due anni, e credo che questa pandemia poi ci presenterà il conto di quello che è successo sulla nostra psiche, prima o poi. Quindi, vorrei che ci fosse un modo per tamponare quest’emergenza e anche per essere un po’ lungimiranti, perché se pensiamo che i quindicenni/sedicenni di oggi che sono da due anni in casa, tra due anni saranno in università o al loro primo impiego, ci rendiamo conto che c’è bisogno di curare l’equilibrio di un intero Paese, ed esattamente come lo fai con le mascherine, col vaccino, con i tamponi, lo devi fare per la testa di 58 milioni di persone, perché abbiamo affrontato una cosa enorme.
Qualcuno l’ha paragonato allo stress post-traumatico delle guerre, quello dei veterani del Vietnam; secondo me, noi siamo ancora molto immersi in questa realtà, tanto da non riuscire a capire quali saranno gli effetti, e forse non riusciamo neanche a riconoscere il trauma, la “guerra”, in questo momento, perché ci ripetiamo: “Ma intanto stiamo bene”, “La gente non muore più come prima”, “Le terapie intensive sono meno cariche”. Però, c’è una parte di malattia invisibile che rimane, ed è quella che riguarda lo stato mentale delle persone.
La seconda cosa che vorrei è che fosse fatta chiarezza e normalizzazione.
C’è ancora in Italia uno stigma gigantesco per cui se vai dallo psicologo sei matto o hai problemi; io ricevo tantissimi messaggi da ragazzi e ragazze e anche da persone meno giovani che mi dicono: “Ma io non ne ho mai avuto bisogno, adesso vorrei andare, però che gli dico? Che faccio?”. Si fa prevenzione e informazione su un sacco di cose, per esempio uno va a farsi le analisi per il diabete anche se non ha i sintomi; invece, sulla salute mentale, finché non è conclamato lo stato di malattia, nessuno ci va, ma bisognerebbe imparare a maneggiare i sintomi, gli strumenti del nostro benessere, capire come siamo fatti dentro oltre a come siamo fatti fuori, quindi vorrei che ci fosse un sempre più fluido avvicinamento a quella sfera lì, al punto che di fronte a un’emergenza, o una necessità, nessuno si sentisse realmente lontano e distante da un’effettiva soluzione, o da un’effettiva terapia.
“…bisognerebbe imparare a maneggiarne i sintomi, gli strumenti del nostro benessere, capire come siamo fatti dentro oltre a come siamo fatti fuori”.
Assolutamente. Io sono in terapia da circa 12 anni e, all’inizio, c’era la paura del giudizio, perché ero “piccola” quando ho cominciato e quasi mi vergognavo a dirlo ai miei amici e amiche; però i miei genitori l’hanno reputata una cosa normalissima e me ne hanno sempre parlato come una cosa naturale e mi hanno insegnato che non c’era nulla di cui aver paura. Però ho sempre visto, anche quando sono diventata più grande, che la normalità non era un valore associato alla cura o alla prevenzione della salute mentale. Ma mi chiedo: se hai l’influenza e ti prendi una Tachipirina per fartela passare, non è la stessa cosa, di avere un attacco di panico (che è comunque una “brutta malattia”, peggio dell’influenza) prenderti il tempo per andare da un terapeuta, che magari ti dà anche delle medicine? Anche le medicine, a proposito, sono un po’ viste come una vergogna…
Infatti, e poi noi abbiamo questa tendenza a sviare e sottovalutare, ci diciamo, “Adesso passa da solo”, ed è quello che crea il problema, perché le persone poi si aspettano che una necessità, un disagio, anche minimi e anche prima che si trasformino in attacco di panico, passino da soli, e se non passano, sono loro a non essere in grado di farli passare. Questo è un messaggio tremendo da dare alle persone, perché invece le cose non passano da sole. Io posso avere l’influenza e decidere che sto a casa, mi riposo un po’, sto due giorni sotto le coperte e mi passa da sola, ma se non mi passa, prendo una Tachipirina, e sta tutto lì, nel capire l’entità della necessità e porre rimedio. Sulla salute mentale, invece, è tutto un “ma fatti una risata!”, e non c’è niente di peggio di dire ad una persona depressa “fatti una risata”, non c’è niente di peggio di dire ad una persona impaurita “ma dai, non è niente”, perché non solo non riconosceranno il disagio, ma non riconosceranno neanche il proprio sentimento e il proprio stato d’animo rispetto a quel disagio, è come delegittimare qualcuno nel provare quello che prova.
“Non c’è niente di peggio di dire ad una persona depressa “fatti una risata”, perché non solo non riconosceranno il disagio, ma non riconosceranno neanche il proprio sentimento”.
Sì, ed è una cosa purtroppo molto radicata. Vedo generazioni intere che agiscono così. Tu ti sei mai sentita giudicata all’inizio, quando hai deciso di intraprendere il tuo percorso?
Guarda, io il mio primo attacco di panico l’ho avuto a 15 anni; mi capitava di averne a scuola, ed era una cosa bruttissima, se ci penso adesso mi faccio una carezza da sola, mi abbraccio da sola, perché a 15 anni secondo me nessuno è in grado di gestire una cosa del genere. Infatti, allora mi sono molto spaventata; gli attacchi mi tornavano molto ravvicinati, sono arrivata ad averne uno a settimana. Mi succedeva una cosa molto brutta, mi si addormentavano le mani, i piedi e la bocca, non riuscivo a parlare e non riuscivo a muovermi, piangevo fortissimo e mi mancava il respiro, credevo veramente che sarei morta, pensavo: “adesso mi si ferma il cuore”. Gli attacchi di panico possono essere molto spaventosi. I primi a cui l’ho raccontato sono stati i miei familiari, e la mia è una famiglia che invece la viveva al contrario di me, in cui nessuno era mai andato in analisi, nessuno sapeva neanche bene come funzionasse, quindi la risposta che mi è stata data è: “ma ti pare che ci vai, mica sei matta?”.
Quindi il mio primo psicologo è stato lo psicologo della scuola: fortunatamente avevano attivato questo servizio nel mio liceo e io potevo andarci durante le mie ore scolastiche, e quindi mia madre non lo sapeva, anche perché io non mi sentivo libera di raccontarlo. Sono andata lì, un po’ mi ha aiutato, e l’ho subito riconosciuto come uno spazio mio di apertura, di racconto, di bilancio su come stavo gestendo una cosa e come avrei potuto gestirla meglio, quali erano gli aiuti di cui avevo bisogno anche oltre l’analisi.
Se ci penso adesso, che ho più del doppio di quegli anni, perché sono passati 25 anni, e anche io mi sono fatta 10 anni di analisi, non interi ma a più riprese, io a quella ragazzina di 15 anni devo dirle: “Genio! Sei stata mitica! Sei stata bravissima perché sei riuscita a identificare un bisogno” e ad andare in terapia nonostante la mia educazione non fosse orientata in quel senso, ma in tutt’altro. Vorrei essere anch’io la voce che dice, “ma certo che ci vai, che problema c’è” ad un sacco di persone, perché magari una famiglia o amici che li prendono in giro e non li capiscono non sono il posto giusto in cui cercare conferme; però, è necessario trovare quelle conferme e liberarsi dalla paura e dalla vergogna.
“Vorrei essere anch’io la voce che dice ‘ma certo che ci vai, che problema c’è’ ad un sacco di persone”.
Ci sono dei momenti in cui hai pensato che fosse troppo difficile, che volevi mollare il percorso che stavi facendo? Oppure il tuo è stato un percorso abbastanza liscio?
Ci sono quelle sedute in cui ti rendi conto che il terapeuta ti ha sventrato [ride]. Poi, nonostante io vada matta per la mia psicologa e vorrei darle un Nobel per la pace (mia e delle persone intorno a me), con lei ho imparato a riconoscere quanto il lavoro che si fa in analisi sia un lavoro che fai tu, oltre al tuo terapeuta; in quel senso lì, la frase immediatamente successiva a “mi ha sventrata” è “mi sono sventrata”, e allora quando riconduci il lavoro che fai a te stesso, riesci immediatamente a capire l’entità di quello che stai facendo e anche un po’ del miracolo di maieutica che stai facendo: stai partorendo una parte di te che magari poi lascerai andare o che invece terrai sempre con te. Da quel punto di vista, mi è sempre sembrato che valesse la pena anche faticare tantissimo o distruggere delle certezze e ritrovarsi smarriti, a pensare: “Basta, io non ci vado più perché è troppo faticoso, è un peso che non voglio sostenere, sono stanca, non mi va, in fondo va bene così”.
Però ci sono i momenti di stallo anche in terapia, i momenti in cui ti illudi o anche, giustamente, fai una pausa, perché a volte serve anche un momento di elaborazione di quegli strumenti lì. Io non sono una di quelle persone che pensano che il lavoro di analisi sia una linea retta e che arrivi dal terapeuta che sei acciaccato e te ne vai che sei splendente; credo che avere quello spazio di autonomia, di racconto, sia importantissimo, anche per non rompere le palle agli altri: io a un certo punto mi sono resa conto che andavo volentieri in analisi perché non volevo essere una persona tossica per chi mi stava intorno, e quando non serviva direttamente a me, serviva per sgravare gli altri da me. Ci sono tanti modi per stare sul lettino dell’analista: abbiamo ritmi diversi, tempi diversi, ognuno fa il suo percorso, e tutto è possibile, tutto è rivedibile e trasformabile nel tempo.
A me, all’inizio, dopo alcune settimane che avevo iniziato ad andarci, la mia psicoterapeuta mi disse “Guarda, Valentina, per me possiamo chiuderla qui”, perché secondo lei dicevo un sacco di bugie, ed era vero, perché non dicevo le cose fino in fondo. Mi sono spaventata talmente tanto per il fatto di non poter più avere quello spazio lì, anche se non lo stavo utilizzando in modo giusto, che ho pianto per un’ora. Poi, dalla volta dopo, ho cominciato ad ingranare. Lei è stata abbastanza forte, perché io avrei potuto diventare permalosa, ma per fortuna ho reagito in quel modo lì e mi è servito tantissimo. È facile dirsi e dire bugie, anche a loro.
E poi, pensa anche a quante volte le persone intorno a te si sono accorte che stavi dicendo una bugia ma, per proteggerti e coccolarti, non ti hanno mai detto: “Valentì, ma che cazzo stai a dì”. Quindi, pensa a quanto a fin di bene alcune nostre dinamiche con noi stessi e con gli altri sono una specie di equazione che si ripete senza interruzione. Invece serve qualcuno di esterno che ti dica: “Guarda, questo giochetto forse lo puoi fare con altre persone, ma con me no, ed è veramente sciocco che tu lo faccia con te”. È un’epifania.
A proposito, qual è l’ultima bugia che ti sei raccontata?
Sono in una fase in cui mi sento abbastanza contenta della verità, ed è forse una delle prime volte nella vita. Riconosco le cose che dico e che mi dico come vere e forse questo accade perché gli ho dato lo spazio di esistere; quindi, in questa fase, non mi va di fare i lavori che non voglio fare, dico volentieri di no, sono meno disposta a scendere a compromessi sulle cose che in una parte un po’ remota del mio cervello e del mio cuore so che invece sulla lunga mi faranno più soffrire, voglio stare un po’ più nella verità. Poi le bugie sono anche difficili da staccare dalle abitudini, dalla protezione degli altri.
Non lo so qual è l’ultima bugia che mi sono detta, però forse fa pure bene ogni tanto, perché a volte le bugie sono delle verità che aspettano di uscire fuori; so, però, e questo posso dirlo con chiarezza, che non mi sto più dicendo bugie sulle cose importanti, e infatti sto abbastanza bene! Sono capace di dire ad alta voce “questo mi interessa e questo no”, “questo mi piace e questo no”, “questo ho voglia di farlo e questo no”, e anche di dire alle persone che ho vicino, al mio fidanzato, alle persone con cui lavoro “raga, così non mi piace, troviamo un altro modo”, senza preoccuparmi di infiocchettare la verità né per loro né per me, che non significa che sono una stronza ma significa che vivo in un contesto di verità e questo mi sta salvando molto.
Saper dire di no è un qualcosa di così liberatorio.
Sì, e poi ciò che costruisci in uno spazio autentico resta, invece quello che costruisci di te e della tua relazione con gli altri e col lavoro quando sei in uno spazio di finzione, purtroppo ti mangerà, perché non sei tu, perché ti costerà sempre fatica. Nessuno riesce a lungo andare a stare nella finzione, nella bugia, nel compromesso che non ti rende felice: è un vuoto a perdere quello.
“Voglio stare un po’ più nella verità”.
Invece, anche rispetto a quello che abbiamo detto prima sul periodo che abbiamo passato negli ultimi due anni, tu ti sei mai sentita sola? Non solo in rapporto a quello che ci è successo, ma in generale.
Io durante il primo lockdown ero a Milano da sola, ero appena stata lasciata in malo modo, ed ero arrivata a Milano perché avevo pensato di ricominciare una vita. Ero rimasta senza casa, perché dopo la fine di questa relazione non avevo più casa a Roma, e quindi avevo pensato di ricostruirmi a Milano. Sono arrivata il 29 febbraio e il 7 marzo ci hanno chiusi in isolamento, e io ero da sola in una casa e in un quartiere che non conoscevo. Non ho toccato una persona per 76 giorni, e la prima volta che ho di nuovo avuto un contatto fisico con qualcuno è stato per errore, perché una mia collega in radio mi ha fatto sentire che aveva le mani fredde, e in quel momento ho avuto una scarica elettrica, di adrenalina o qualcosa del genere.
Mi ero così disabituata ad avere contatti con le persone, e mi ricordo che la mia psicologa mi aveva dato come compito per casa quello di accarezzarmi tutte le sere, accarezzarmi i capelli, le spalle, tenermi le mani una con l’altra, accarezzarmi le gambe, dormire abbracciata con me, perché quella è una cosa su cui il corpo basa il suo equilibrio, toccarci, essere toccati, è una forma di accudimento spontaneo che abbiamo. Io non ho toccato una persona per 76 giorni, se ci penso adesso, e poi per come sono fatta io, mi vengono i brividi, perché io tocco tutti, abbraccio tutti, per me la prima forma di contatto con le persone è quello fisico. A pensarci mi fa ancora venire i brividi, e mi fa pensare: “Mamma mia, che cazzo abbiamo passato…”.
Mi sono sentita molto sola ma ho anche imparato molto, perché imparare a prenderti autonomamente cura di te quando sei solo un po’ ti torna utile, poi, per quando sei con gli altri. Per esempio, quando nella terapia di gruppo mi chiedono “non ti senti mai sola?”, io rispondo che sì, mi capita, però mi piace stare sola, mi piace sapere che ho a disposizione una situazione di silenzio, di autonomia, di indipendenza, anche perché quello spazio vuoto non è uno spazio senza qualcosa, ma è uno spazio bianco per me, che posso abitare come voglio, e mi sembra una conquista grande.
Ricordo che durante la nostra ultima intervista abbiamo parlato molto di arte, e di quanto ti abbia aiutata nel tuo percorso, sia a livello di carriera sia di vita. Anche la scrittura rappresenta un momento importante nella tua quotidianità, oppure un momento che ti prendi per te, quasi terapeutico?
Sai, io ormai mi rendo conto che agisco come parlo. Capisco che comunicare le cose per me è veramente una forma di sopravvivenza, di respiro, e poi a volte ha un senso anche per gli altri, e a volte solo per me. Non sono una che scrive tutti i giorni, però quando succede è un modo per rimettere tutto in linea: mettere una cosa dietro l’altra nero su bianco e capire quali sono soggetto, verbo, predicato, causa e conseguenza delle cose. Mi rendo conto che scrivo come parlavo in seduta, nel senso che ho bisogno di raccontare le cose per capirle, e ho questo culo immenso di poterle raccontare agli altri e magari renderle comprensibili per qualcuno o innescare una scintilla di riflessione o di comprensione, e quindi mi sembra un’attività utile, imperdibile per me e magari vagamente utile per gli altri. Quindi, non mi prendo sempre tutti i giorni lo spazio per la scrittura, ma quando me lo prendo è come se fosse un insieme di spazi di riflessione, di parola, di comprensione miei, interiori, che a un certo punto assumono una forma logica.
Rispetto invece al tuo ultimo libro “Perché no? Il libro delle domande”, qual è la domanda che ti stai ponendo più spesso e con quale domanda ti sei risposa?
Sai perché sono molto contenta di aver intitolato il libro “Perché no?”? Perché continua ad essere la mia domanda jolly nella vita, e continuo a pensare che sia una domanda veramente potente, ma non solo perché il “perché no” significa “ma sì, dai”, ma perché il “perché no” ti obbliga a riflettere sul perché non puoi fare questa cosa, perché non pensi che sia giusto fare quella cosa. Nei “no” si trovano le paure, le sindromi dell’impostore, la sfiducia nei confronti degli altri, la convinzione di che cosa è giusto per noi, che sono robe importanti nella vita da mettere a fuoco. Quindi, quando io dico “perché no?” non è soltanto da pensare come un “ci rasiamo i capelli a zero e partiamo per il Madagascar?”. Perché no è anche un “lo faccio questo lavoro? – Perché no?”, perché non mi si addice, perché non c’è uno spazio di crescita per me, perché non mi piace il modo in cui verrà fatto, perché non mi piace il modo in cui verrà compreso… I no sono importanti tanto quanto i sì, e chiedersi il perché dei no e dei sì secondo me è sempre giusto, è per forza il primo anello di una catena virtuosa, nel senso che alla fine arrivi e qualcosa in più di te la sai. Mi sembra sempre un miracolo quando riesco a chiedermi “perché non c’ho voglia di fare questa cosa?”, “perché sto dicendo no a questo lavoro?”, sono sempre contenta di scoprire i perché e i perché no.
Invece cos’è che ti fa incazzare di più?
Ci sono tantissime cose. Sono ancora un bel po’ vittima delle aspettative, non degli altri, ma le mie sulle cose, e quindi quando mi aspetto che una cosa vada in un certo modo e poi non funziona, sono una che facilmente si scontra con la realtà, infatti mi lamento tantissimo, mi sembra sempre una catastrofe, odio tutto e odio tutti, mi lascio molto prendere dall’ “eh vabbè, e allora moriremo!”. Ho delle piccole incazzature quotidiane che mi fanno anche un po’ sorridere, perché mi incazzo sempre per le stesse cose, per i macro temi, cose che nella mia testa sono basi di civiltà e quindi mi incazzo per il dibattito pubblico, mi incazzo per questioni politiche, mi incazzo perché un critico televisivo dice a Emma Marrone che ha le gambe troppo grasse per indossare delle calze nel 2022, a una che ha riempito i palazzetti, sconfitto il cancro, recitato in film, fatto X-Factor ed è milionaria.
Mi incazzo quando ci costringiamo alle piccolezze, quella roba lì mi fa diventare matta, perché sembra che combattiamo contro la nostra stessa evoluzione, come se ad un certo punto ci fosse l’homo erectus e 50 stronzi intorno che gli dicono: “Ma no, ma piegati, si sta tanto bene!”. Mi incazzo quando mi sembra di aver capito che potrebbe essere meglio di così e non riesco a farlo, ecco. Più che incazzarmi, mi frustro, sono una che si frustra facilmente.
Ricordo che una volta avevamo parlato del fatto che la tua psicoterapeuta ti faceva fare l’esercizio di guardarti allo specchio nuda perché era una cosa che tu non facevi. Adesso, cos’è il tuo corpo per te? C’è stata un’evoluzione nel vostro rapporto?
La mia psicoterapeuta mi faceva fare quell’esercizio e poi me ne faceva fare un altro che io per anni non sono riuscita a fare e invece adesso mi riesce facile come bere un bicchier d’acqua, e infatti mi fa molto ridere questa cosa; lei mi diceva di guardarmi allo specchio, negli occhi, e dirmi: “Sei bella, ti amo”. Io all’inizio le dicevo: “Sei matta, non lo farò mai, cos’è questa cosa da mitomani, col cazzo che mi dico ‘sei bella’, qual è il problema dell’essere cessi?”. Adesso, me lo dico nello specchietto della macchina, mi faccio delle sviolinate, ma non è una situazione del tipo “fai cacare e ti dici che sei bella perché non te lo dice nessuno”, è proprio un momento di cura, faccio una carezza a me stessa e mi dico che vado bene, e mi sembra meraviglioso.
Io non riesco ad avere il controllo del mio corpo; per esempio, adesso ho dei chili in più perché quest’estate mi sono fratturata e mi sono lasciata andare, perché non riuscivo a muovermi e mangiavo tanto, e mi rendo conto che avere dei chili in più ancora mi crea qualche problema; però, allo stesso tempo, il mio corpo che sembra bello funzionale, comodo per me, mi piace, mi piace come sto con gli altri, mi piace come sto coi vestiti, mi piace la mia immagine allo specchio, quindi è una specie di lotta costante tra il desiderio che il mio corpo fosse perfetto e la consapevolezza che non solo il mio corpo non è perfetto, ma non lo è nemmeno il mio carattere, il rapporto con la mia famiglia, con il mio fidanzato, con il lavoro, con le persone che collaborano con me, la mia intelligenza non è perfetta. Eppure, mi rendo conto che il fatto, per esempio, di non saper parlare perfettamente le lingue me lo concedo molto più facilmente rispetto ad avere quattro o cinque chili in più, e da quello capisco quanto mi hanno fottuto il cervello, perché con quante cose che riguardano la mia intelligenza, il mio saper stare al mondo mi concedo il lusso di non essere perfetta, ma poi sto là a guardarmi la pancia e a dirmi: “Eh, Daniela, fai schifo”?
Sento che sto sprecando l’odio, sto sprecando il fastidio. Un po’ mi aiuta pensare che ho un corpo che mi serve a fare le cose, che mi serve per esistere, e va bene così com’è, non sarà perfetto come forse non lo è il mio carattere, come non sarà perfetta la mia pazienza, come non sarà perfetta la mia lucidità, come non sarà perfetta la mia creatività; quindi, a questo corpo chiedo sempre di meno, ma cerco di dargli sempre di più, mi alleno, cerco di non strapazzarlo, mi prendo degli spazi di relax. Ho lasciato la radio perché iniziava ad essere troppo, faccio una vita strana perché ho tanti impegni sempre diversi, non ho mai una settimana uguale all’altra, e mi sono resa conto che quell’impegno quotidiano per me, invece di essere un perno, era diventato un po’ avere delle catene che mi rendevano difficile il movimento – sto tutto il giorno a parlare di salute mentale, di prendersi cura del proprio equilibrio, e poi non sono in grado di riconoscere che invece devo organizzare meglio le mie risorse? Quindi, l’ho fatto e devo dire che sto bene, non me ne sono pentita, perché so che posso respirare, fermarmi un attimo, e non devo sovraccaricarmi.
“Mi incazzo quando ci costringiamo alle piccolezze”.
Io amo il mio corpo, gli voglio bene, e so che anche lui mi ama e mi vuole bene perché mi ha tenuta in piedi quando non credevo di farcela, mi ha fatto fare un sacco di cose: mi ha fatto ballare tutta la notte, non è svenuto quando ero ubriaca, mi ha dato le gambe per camminare, per correre, per riuscire ad arrivare dove voglio; quindi, gli devo fare un sacco di carezze a questo corpo, e va bene così e lo devo ringraziare moltissimo. So che lo sguardo degli altri su questo corpo sarà sempre un po’ qualcosa di non fluido per me, di non comodo, e dovrò spesso fare un lavoro di riorganizzazione delle risorse e dell’energia che concedo a questa cosa.
Okay, gli altri possono anche pensare che ho un corpo che non va bene, ma cosa significa questo per me? Che cosa mi fa pensare, che cosa mi fa provare? È un lavoro di riassestamento, riallineamento costante, perché quando fai il lavoro che faccio io è normale che le persone ti guardino, ti giudichino, fa anche parte del gioco, un gioco che a me interessa sempre di meno, però fa parte del gioco.
È bellissimo quello che hai detto, e quello che stai riuscendo a fare nei tuoi confronti. Personalmente, io ho smesso di offendermi allo specchio da poco, ma non sono minimamente arrivata a quello che dici tu. Mi rendo conto anche di quanto a seconda di con chi sto, quindi conoscendo la persona e il giudizio che ha del suo stesso corpo e del corpo degli altri, è incredibile come cambia il mio stato d’animo, quanto mi senta male a volte e altre invece mi senta più tranquilla, a mio agio, però è assurdo quanto ancora, per quanto riguarda me, mi influenzi così tanto quello che potrebbero pensare gli altri.
Però posso dirti una cosa? Io l’ho imparato anche perché ho osservato come guardo le persone e mi sono chiesta: ma io che tipo di giudizio applico sugli altri? Volevo capire quanto fosse pesante il mio sguardo sugli altri. Le persone non giudicano il tuo corpo in maniera solo estetica. Su di te, per esempio, io non saprei dire se sei magra, grassa, se hai chili in più o in meno, e ti ho vista con una guaina poco fa, però so che per me tu hai un corpo con un’emanazione non estetica ma sensoriale: io ti trovo luminosa in un modo che quando penso a te penso alla luce sulla tua faccia, e questa è una roba da non sottovalutare.
Gli effetti del corpo non sono soltanto come ti sta un vestito, ma anche quelli sugli altri; tu hai una sensualità elegantissima, sei luminosa, ti muovi in un modo bellissimo, hai dei colori che si armonizzano perfettamente, una pelle che è tattile anche per chi ti guarda; quando ti faccio i complimenti per la pelle, mica te li faccio per i 10 passi della skincare coreana che magari segui, te li faccio come lo farei per una cosa che esiste nella natura.
Ho un’amica che è dichiaratamente in sovrappeso, che non sa cosa sia una messa in piega, e si veste con la moda di 10 anni fa, è esteticamente fuori da qualunque circuito: io non conosco una sola persona che non dica di lei che è una dea. Abituiamoci anche a guardare e vivere i corpi in un modo che non sia la moda, lo standard; dobbiamo goderci i corpi degli altri, e pensare che gli altri possono godere del nostro corpo in un modo che non è “come le sta bene quel vestito”, ma “minchia, che sguardo penetrante che ha”, “che pelle incredibile che ha”, “che bello guardarla mentre mangia”, “che bello come si muove”, “guarda la luce dei suoi capelli”.
Qualunque cosa contribuisce a creare un giudizio sul corpo, e invece noi di quella roba lì ci scordiamo. Adesso, quando mi dicono che ho un corpo materno, il mio primo pensiero è: ho un corpo post-partum? Ho la panza rilassata perché ho appena partorito, perché ho i chili in più che hanno quelle incinte? Poi mi viene da darmi uno schiaffo in faccia e mi dico: forse ho un corpo materno perché so abbracciare, perché sono accogliente, perché mi muovo in un modo che ti fa venire voglia di infilartici, perché sono florida… Però, cazzo, è una cosa bella!
Io quando ti vedo sento sempre la voglia e il bisogno di farmi abbracciare da te, questa cosa è verissima!
Amore! Ma io voglio molto abbracciarti, infatti! Non so, sono stanca di vedere solo attraverso quella lente lì. Una cosa strana che ho notato è che il mio fidanzato, per esempio, più sono goffa e buffa e più mi ama [ride]. Uno vorrebbe sempre essere Giovannona Coscialunga, una bomba sexy per il proprio fidanzato, e c’è anche quello naturalmente, ed è bello, però ti giuro che a me sapere che più il mio corpo è storto e non va bene per me o per i canoni estetici e più invece le persone ci troveranno un canale di apprezzamento, di comunicazione, di contatto, mi apre universi paralleli che non sono le taglie di Zara. Non me ne frega un cazzo di quella roba lì! Poi, mi sta bene un vestito per uno shooting e tutti mi dicono che mi sta benissimo? Okay, ci sta, però vorrei che avessero lo stesso peso specifico, per me, un vestito di Stella McCartney taglia campionario che mi entra e mi va a pennello, e Vale che dice “quando ti vedo ho sempre voglia di abbracciarti e “il tuo corpo fa venire voglia di starti addosso”. Sono scema se non metto tutto sullo stesso piano e sono scema pure se penso che sia meglio un vestito di campionario piuttosto che un abbraccio da Valentina.
Tu per me sei luce purissima, la luce ti ama, è incredibile guardarti, sei fatta di velluto, ci devo solo mettere le mani sopra per godermi la sensazione, sono molto invidiosa del tuo fidanzato!
Il mio fidanzato non mi ha mai detto una cosa del genere comunque [ride]…
Ma non glielo insegnano mica! Gli insegnano a dire “bel culo” e “belle tette”, e noi lì a pensare che il culo e le tette saranno l’unica forma di accettazione da parte di un uomo. Ma te pare? Secondo te gli uomini sanno parlare in questo modo? No, perché non è mai stato necessario. Ma tu vai da un uomo a dirgli “sei luminoso” e guarda quanto lo spiazzi, vai da un uomo a dirgli “il tuo corpo mi fa venir voglia di abbracciarti”, non lo sanno gestire neanche loro! La narrazione dei corpi va tutta ripensata. Infatti, nella creazione e accettazione di uno spazio fluido dei corpi, ancora non capiamo i corpi maschili che sembrano femminili, i corpi femminili che però vogliono essere maschili, perché finché procediamo per compartimenti stagni, della serie “un corpo maschile dev’essere così, un corpo femminile dev’essere così”, dove cazzo andiamo?
Tu prova a dire ad un uomo che una delle cose che ti fa più impazzire di lui è la sua luce, quello non capisce! Però io lo so che dentro invece questa cosa ti smuove, il calore di sentirsi voluti e accolti, perché è una cosa bella, però non vale come un “ah, fai palestra!”. Siamo cretini.
Sì, molto.
Ultima domanda. Quand’è che ti senti più al sicuro?
Al mare, con la testa sotto l’acqua.
Photos and Video by Johnny Carrano.
Makeup by Vanessa Vastola.
Styling by Sara Castelli Gattinara.
Set Design by Federica Castelli.
Thanks to Other.
Location: Assab One.
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