Ci sono libri, serie tv, storie che sono ben più di questo.
Ti parlano per davvero, non in quanto lettore o spettatore, ma essere umano: rivelano cose, di quello che sei, che sei quasi spaventata nel realizzare quanto siano vere, quanto siano parte di te. Questa epifania, questo struggente viaggio attraverso la mia persona e personalità, è avvenuto con “Tutto chiede salvezza“, il bellissimo romanzo di Daniele Mencarelli che ha vinto il Premio Strega Giovani 2020 e che è stato poi adattato in un altrettanto valida serie tv da Netflix (di cui è stata appena annunciata la seconda stagione).
Quando ho poi avuto tra le mani “Fame d’aria“, l’ultimo romanzo di Daniele, sapevo che, seppur in modo diverso, sarebbe stato un altro viaggio emozionante attraverso quello che ci rende umani, o quello che ci manca per essere veramente tali. E che viaggio che è stato: attraverso i gesti di Pietro, gli occhi di Jacopo, le mani tese degli abitanti di Sant’Anna del Sannio, scopriamo ancora, con più forza, l’emozione più viscerale di tutte; quella della famiglia, dei padri e delle madri che lottano ogni giorno per i loro figli e dei figli stessi, che ai genitori sanno dare tanto, ogni giorno. Il tutto, attraversando il tema dell’autismo, dei sentimenti che porta con sé e della totale indifferenza dello stato italiano di fronte a chi ha bisogno, ogni giorno.
Quando poi ho avuto l’occasione di parlare con Daniele al telefono di questo romanzo, della sua esperienza di vita, di poeta e scrittore, e di come “esistere” ed “esistere in quanto esseri umani”, capaci di ascoltare, di supportarsi, di incontrarsi ed emozionarsi siano due concetti indissolubilmente legati tra loro, ho realizzato, ancora una volta, che la salvezza non è un concetto, non è una destinazione: è una persona. Tutti noi chiediamo, ma ancor di più, siamo salvezza.
In “Tutto chiede Salvezza” leggiamo: “Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri” e in “Fame d’Aria”, a fare da protagonista è proprio un padre: come descriveresti la ricerca di salvezza che Pietro porta avanti, più o meno consapevolmente?
Pietro è un uomo che probabilmente non vuole più salvezza, è un uomo che ha cercato salvezza nel miracolo, che poi non è avvenuto, e oggi sconta al presente soltanto una grande rabbia per quello che non è stato, per quello che il figlio è e lui non riesce ad accettare. È un uomo che verrà reintrodotto alla salvezza grazie alla compassione di questi tre personaggi di questo paesino, saranno loro a reintrodurlo a una possibile salvezza passando ovviamente e finalmente per l’elaborazione di quello che è accaduto e di quello che il figlio è e sarà per sempre, perché l’autismo, a differenza di una malattia, non ha una dinamica che è quella della guarigione. Il bambino, il ragazzo, l’uomo autistico con le terapie possono migliorare, ma l’autismo resta una forma pervasiva che rimarrà tutta la vita.
Per Pietro, la salvezza passa sicuramente attraverso l’accettazione del figlio.
Leggendo il titolo, ho pensato a come a volte si utilizzi l’espressione “fame d’amore” e, nel corso della lettura, Pietro ci mostra le conseguenze e le caratteristiche del suo “disamore”. Credo fortemente che sia la presenza che l’assenza dell’amore (in qualsiasi declinazione) abbiano delle conseguenze sulla nostra vita: in che modo affronti i momenti di “disamore”? E quando invece l’amore ha rappresentato il tuo “porto sicuro”?
Negli esseri umani, soprattutto quando parliamo di amore consanguineo, c’è questo strano scollamento tra quello che diciamo e quello che facciamo, e in fondo lo vive anche Pietro, questo scollamento; è un uomo che a parole, ma anche nei fatti, dimostra ormai un distacco, un disamore, una stanchezza, una rabbia. Dimostra tutto questo verbalmente in modo acuto, però poi nei fatti non smette mai di essere l’unico supporto per il figlio. Spesso, nelle nostre relazioni, noi siamo proprio questo distacco, siamo qualcosa che a parole dice e afferma una stanchezza, se non proprio un disamore, e poi però continuiamo nella pratica dell’amore. Questo lo ritrovo in Pietro ma lo ritrovo anche se penso all’infanzia con i miei genitori, e anche a me come genitore: spesso la stanchezza viene espressa, ma poi rimaniamo in qualche maniera fedeli ai nostri ruoli. Forse il fatto di poter parlare della stanchezza e il fatto di tirarla fuori attraverso momenti di sfogo è l’unico modo che abbiamo per continuare a fare quello che è il nostro dovere, da genitori o da figli. A una certa età, infatti, i figli diventano genitori dei propri genitori in questo gioco che è il gioco dell’esistenza.
Da dove prendono vita i personaggi di quest’opera corale? Come hai dato loro forma e voce?
Il tema dell’autismo parte da un’esperienza diretta. Mio figlio ha avuto una parabola positiva, benigna rispetto all’autismo, ma negli ultimi 12 o 13 anni, io e mia moglie abbiamo frequentato tanti luoghi della neuropsichiatria in Italia. Pietro nasce da un incontro che mi ha messo a contatto con un uomo che, esattamente come Pietro, viveva quella stanchezza indicibile, che sembra veramente non lasciare via di scampo. Il paesino, invece, nasce da un’altra esperienza ancora. Io ho lavorato in Molise, tanti anni fa, da ragazzo, e mi sono rimasti nel cuore questi paesini microscopici che vivevano il rischio dello spopolamento già tanti anni fa. Io dico sempre che uno scrittore è un accumulatore seriale, conserva tutto perché poi quel tutto si rivelerà essere quello che gli serviva, il motivo per cui magari lo ha ricordato, il motivo per cui è rimasto nel suo immaginario alla fine gli si svela e magari va a finire dentro una storia.
“Forse il fatto di poter parlare della stanchezza e il fatto di tirarla fuori attraverso momenti di sfogo è l’unico modo che abbiamo per continuare a fare quello che è il nostro dovere, da genitori o da figli. A una certa età, infatti, i figli diventano genitori dei propri genitori in questo gioco che è il gioco dell’esistenza”.
Pietro si trova in quella zona grigia, quella terra di nessuno che si posiziona tra “umanità” ed “eroismo”, tra “pietà” e “coraggio”, dove anche la morale non segue le stesse convinzioni sociali. Dove si trova secondo te il limite tra questi due elementi?
Si è da poco celebrata la Giornata mondiale dedicata all’autismo: io ho incontrato un’associazione a Minturno, al confine tra Lazio e Campania, e si parlava proprio di questi temi. Un genitore non dovrebbe essere un eroe, nel senso che spesso queste categorie vengono utilizzate in mala fede da chi, e mi riferisco soprattutto alle istituzioni, non fa tutto quello che dovrebbe fare. Invece, un genitore, come ogni essere umano, ha delle risorse, anche l’amore. Però, se nessuno mai sostiene quel genitore dentro quella relazione che è così dura per mille motivi, a partire dal problema fisico e dal sostegno economico, se mai nessuno corre in aiuto per poi coprirsi dietro questi termini, “eroi”, “guerrieri”… Ma non c’è nessun eroe, non c’è nessun guerriero, ci sono famiglie che vivono abbandonate dallo stato. Quindi, io riporto sempre tutto al dato umano: evidentemente, se noi giudichiamo Pietro e partiamo da un giudizio morale, Pietro è ampiamente rivedibile, ma la storia di Pietro non chiede un giudizio morale, chiede compassione, chiede condivisione dentro un destino difficile come quello di chi deve curare e avere a cuore un figlio gravemente autistico che non può farcela da solo. Sennò diventa tutto sempre troppo affidato a questi presunti eroismi che in realtà sono semplicemente la cartina al tornasole per chi non fa nulla e si nasconde dietro a queste belle parole.
Questo è il messaggio che mi è più rimasto nel cuore. E il tuo è un libro che parla anche di comunicazione, su più livelli: quello che si tiene dentro Pietro, e che sfoga poi in modo eccessivo, quella che Jacopo cerca di esprimere a modo suo, quella che Agata e Gaia cercano di portare avanti… In un mondo che sembra sordo di fronte a chi è lasciato solo ad affrontare una situazione come quella descritta in “Fame d’amore”, cosa può fare, ciascuno di noi, ma soprattutto chi ha potere, per dare uno spazio d’ascolto a chiunque?
Questo è un problema enorme, nel senso che qui ci sono due fattori che devono ritrovarsi: da una parte, l’umanità in quanto tale nella capacità di riscoprirsi come comunità e come rete, e questo è un lavoro che riguarda tutti. Poi, c’è invece il bisogno, la necessità che l’istituzione riconosca, a partire dalla parte economica, dei soldi che oggi non riconosce a tutti quelli che lavorano nell’ambito della neuropsichiatria infantile. Purtroppo, in Italia vive una grande emergenza nazionale relativa alla mancanza di fondi rispetto a tutti quei luoghi che dovrebbero essere di sostegno a chi vive un momento di difficoltà come genitore e come individuo.
Immagino che ogni libro, con il suo processo di ricerca, scrittura, pubblicazione e ricezione da parte del pubblico, abbia un impatto, sia sulla vita di chi lo scrive che di chi lo legge. Cos’ha rappresentato per te “Fame d’aria”, in che modo ti ha cambiato?
Mi ha cambiato insieme a tutto quello che ha preceduto l’esperienza concreta, le testimonianze di tanti genitori, ma anche questi due mesi e mezzo da quando il libro è uscito. Se vogliamo, l’uomo che parla oggi è molto più arrabbiato dell’uomo di 20 o 30 anni fa e questo è abbastanza particolare, perché di solito uno riconosce ai giovani il diritto di essere arrabbiati; io, però, sono un adulto molto arrabbiato per tutte queste mancanze da parte dello stato, perché tante famiglie sono veramente lasciate in una condizione di abbandono totale, e poi non ci stupiamo se le nostre cronache sono piene di gesti terribili di chi toglie la vita di chi ha messo al mondo. Purtroppo, queste sono storie di abbandoni, e l’Italia è una terra di vita e di abbandoni, di tante forme diverse di abbandoni.
“Non c’è nessun eroe, non c’è nessun guerriero, ci sono famiglie che vivono abbandonate dallo stato. Quindi, io riporto sempre tutto al dato umano“.
Anche rispetto a questo concetto del ruolo di chi genera e di chi è stato generato, cosa vorresti che il libro lasciasse al lettore, soprattutto alle nuove generazioni visto che è Jacopo, il figlio, a salvare il padre alla fine?
Vorrei che il libro desse anche quest’idea, che i genitori, anche quelli che non vogliono ammetterlo, sono individui fallibili, che spesso hanno bisogno dei propri figli per sopravvivere. Questa idea, invece, che i genitori siano sempre e comunque forti e bastanti al loro destino secondo me, per l’idea che io ho da genitore, non è la mia proposta educativa. Vorrei dare ai ragazzi questa testimonianza che i genitori, spesso, sono talmente innamorati dei propri figli, da cadere anche in crisi profondissime rispetto alla vita dei figli, quando loro attraversano un momento di difficoltà, per non parlare della malattia. Un uomo o una donna, nel momento in cui diventa padre o madre, antepone la salute, felicità, il benessere del proprio figlio alla sua, e questo anche per dire quanto un genitore spesso sia fragile di fronte a certi destini.
Ad un certo punto, Gaia sottolinea l’importanza del “Prendere il buono che c’è dentro ogni cosa”: dove hai trovato l’ultima cosa buona?
Per me questi libri sono stati un grande moltiplicatore di incontri che per me sono la grande arte della vita dell’uomo. L’arte dell’incontro, il poter condividere certi temi e viverli assieme: senza incontri, l’uomo si impoverisce, rischia di impazzire, secondo me.
Oggi, con tutto il tuo percorso alle spalle, che cosa significa per te sentirti a tuo agio nella tua pelle?
Significa accogliere anche quella parte più dolente e sofferente che continua, per paradosso, ad essere quella più propulsiva rispetto alla scrittura, quella che interroga di più. Significa accettare questa parte di me che continua ad essere visceralmente attaccata a certi temi, a chiedere certe cose, a proporre certi interrogativi. Oggi, difendo anche quella parte di me che è quella che provoca più dolore nella mia vita.
Che libro stai leggendo attualmente?
Al momento, ne ho tanti sul comodino perché vengo da una settimana in Toscana dove me ne hanno regalati di bellissimi. Sto leggendo un libricino di un autore per metà romano e per metà pisano, che racconta, partendo da un’intervista di Pasolini, il rapporto tra Pasolini e la madre. Per me è molto bello perché le poesie dedicate alla figura materna sono quelle che mi hanno più invogliato e portato a scrivere poesie, perché anche io ho questa figura di riferimento. Questo libro racconta come Pasolini, dalle poesie dialettali in poi, abbia sempre sentito nella madre questo grande elemento di congiunzione col sacro.
“Senza incontri, l’uomo si impoverisce, rischia di impazzire, secondo me”.
Quale storia non ancora raccontata vorresti raccontare tu prossimamente?
Il prossimo libro, che in parte ho già in mente, racconterà un altro tema che ho molto a cuore, un tema diciamo più archetipico, ovvero il rapporto dell’uomo con la sua origine. Per origine, intendo dalla famiglia, all’habitat socio-culturale, tutto quello che noi consideriamo la nostra origine.
Tutto chiede salvezza 2: c’è qualcosa che puoi già dirci?
È interessante perché la serie, essendo ambientata al presente rispetto al romanzo, entrerà in una zona di piena invenzione in cui però Daniele resterà il Daniele del romanzo e della prima stagione, quindi questo ragazzo che è sempre combattuto tra il sentire e il sentire troppo. Rimarrà lo stesso protagonista alle prese con vicende nuove che lo metteranno molto alla prova.
Una curiosità: a te personalmente come fa sentire tornare a questa storia dopo questi anni, con l’adattamento temporale, considerando che sarà una nuova forma di scrittura rispetto al romanzo da cui è tratta la prima parte? Come ti senti in questo momento, con questa prospettiva?
Io la vivo con la forte responsabilità di raccontare il mondo del disagio psichico. Ormai, non è più tanto la mia storia, quanto semplicemente, o drammaticamente, la volontà di mettere in scena chi oggi vive il disagio psichico o psichiatrico, e costruire una narrazione che sia il più possibile fedele e vera rispetto a chi effettivamente vive questi temi. Al di là della mia storia c’è il grande rispetto per questi temi che vanno raccontati, un po’ come l’autismo, con grande attenzione e rispetto.
Thanks to Mondadori