Uscire dalla realtà senza perdere la connessione con sè stessi: Daniele Rienzo trasforma la recitazione e la musica in veicoli che lo aiutino a mettersi in dubbio e, di conseguenza, a crescere. Attraverso quella cecità nell’atto creativo che gli permette di essere veramente ed esclusivamente focalizzato su quello che sta facendo, Daniele ha esplorato la fragilità di Raimondo in “Parthenope”, ricordandosi e ricordandoci l’importanza delle scelte di cuore che possono crescere e portarci alla grandezza, come fossero dei semi. E ancora, la forza necessaria per stare nel presente, la bellezza della generosità e il sapersi specchiarsi negli altri attraverso la musica… Daniele rappresenta una forza poetica e comunicativa incredibilmente umana e ricca di sfumature, tutte da scoprire attraverso i suoi mezzi di espressione. E questo, è solo l’inizio…
Qual è il tuo primo ricordo legato al mondo del cinema?
Il mio primo ricordo è Sabaudia, quando avevo 18 anni appena compiuti e stavano girando un film, di cui non ricordo il titolo, in cui ho fatto la comparsa. C’era questa scena sulla spiaggia con Alessandro Gassman e altri attori che erano insieme a cena, e lì è successo qualcosa di magico; in quell’istante, ho deciso che volevo fare questo mestiere. Ricordo un momento preciso in cui gli attori scherzavano tra di loro, proprio da amici, ma a un certo punto, quando hanno chiamato il motore, è come se tutti si fossero silenziati e chiusi in una bolla magica per iniziare a girare la scena. Io ho pensato: “Come hanno fatto ad uscire dalla realtà in questa maniera? Io voglio fare questo lavoro, qualcosa che mi riesca ad estraniare totalmente dalla realtà quando voglio”.
E questa magia riesci a ritrovarla anche adesso?
Sì. Adesso mi aiuta tanto anche la musica, che sotto questo punto di vista ti guarda in faccia. Nel momento in cui suoni, devi per forza trovare una magia, una solitudine, una bolla per poter esprimere e per poter essere connesso a quello che fai.
Io dico sempre che per fare qualcosa bene, in qualsiasi lavoro, bisogna essere ciechi: quando arrivi a una cecità nell’atto creativo vuol dire che sei connesso, un po’ come se mettessi un pilota automatico che ti guida per fare la scelta giusta.
“Io dico sempre che per fare qualcosa bene, in qualsiasi lavoro, bisogna essere ciechi: quando arrivi a una cecità nell’atto creativo vuol dire che sei connesso”
Come se ti estraniassi da te stesso, ma allo stesso tempo ti interiorizzassi.
Sì, sei connesso con te stesso in quel momento, in una forma di connessione più alta.
C’è un mio amico che fa box a livelli altissimi ma ha anche un ristorante, e in un periodo in cui era indeciso su cosa fare, in che direzione andare, io gli ho detto, “Secondo me tu dovresti fare ciò che ti rende cieco. Cos’è che ti rende cieco quando la fai?” e lui mi ha risposto, “Combattere” e io gli ho detto, “Allora è quello che devi fare nella vita, quella è la tua chiamata”.
È molto semplice capire cosa sei chiamato a fare. Certo è anche giusto avere dei dubbi rispetto a quello che si fa ed è anche molto costruttivo: se non ti metti in dubbio, non è detto che tu riesca a crescere.
Guardando “Parthenope” ho avuto quasi l’impressione che Raimondo e Parthenope, pur essendo fratelli, siano due facce della stessa medaglia di emozioni, dove il tuo personaggio vive più “all’interno” delle emozioni mentre Parthenope cerca di viverle a pieno per dar loro un senso. Come è stato affrontare la costruzione di un tale personaggio?
Sicuramente tutto è partito dalla scrittura incredibilmente talentuosa ed empatica di Paolo Sorrentino. Paolo scrive meravigliosamente; io amo la lettura, e quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, è stato come se fosse entrato dentro di me il seme di tutto quello che serviva per costruire il personaggio.
Devo molto a Paolo, ai discorsi che abbiamo fatto con lui rispetto alla paura del mettersi in discussione. Questo mi ha permesso di lavorare con enorme dedizione sul fisico, sulla psicologia e sulle abitudini del mio personaggio, che è molto delicato e complesso. Mi sono quindi inserito nell’abitudine quotidiana, nella modalità adatta a poter vivere quell’emozione lì, lavorandoci per mesi.
Penso che tu sia riuscito efficacemente a trasmettere la fragilità o la forza “diversa” che Raimondo ha rispetto ad un carattere che spicca di più come quello di Parthenope.
Ti ringrazio. Io credo che la fragilità e la tenerezza siano rivoluzionarie. Viviamo in un mondo dove ci insegnano a diventare grandi ogni volta, il che è correlato a mettere una corazza, degli scudi, mettendo da parte la fragilità, le lacrime. Secondo me però, la sensibilità e l’empatia sono rivoluzionarie e ogni artista dovrebbe farci i conti e avere il coraggio di guardarsi in faccia per poter creare la rivoluzione in un mondo che ti dice di fare il contrario, di non avere cuore in determinate situazioni perché tanto le cose vanno così.
Per me è stato un onore poter interpretare un personaggio con una così grande fragilità.
“Io credo che la fragilità e la tenerezza siano rivoluzionarie.”
Cosa diresti a Raimondo se potessi?
Gli direi di fare sempre scelte di cuore.
Una delle frasi più belle del film è la domanda: “tu ami troppo o troppo poco”, come risponderesti personalmente?
Non ci avevo mai pensato! [ride] Secondo me non c’è una vera e propria risposta: delle volte si ama troppo, altre si ama troppo poco, ma la verità è che l’amore è solo un grande lasciare andare, quindi non c’è tanto o poco, è accettazione, condivisione e comunicazione con l’altro, che sia in un’amicizia, in una comunità o in una relazione.
“…delle volte si ama troppo, altre si ama troppo poco, ma la verità è che l’amore è solo un grande lasciare andare”
Quella malinconia tipica della gioventù fa un po’ da filo conduttore di tutta la storia e tra Raimondo, Parthenope e Sandrino quanto meno. Quali sono i sentimenti che assoceresti nel pensare rispettivamente a passato, presente e futuro?
Personalmente cerco di stare nel presente il più possibile; detto questo, cerco di avere meno sentimenti possibili verso il futuro, meno sentimenti possibili verso il passato, per quanto sia difficile, perché io sono molto affezionato al sentimento della nostalgia, che per me è rivoluzionario.
Cito una cosa che ha detto Gary Oldman in conferenza stampa a Cannes: “spesso e volentieri le persone fanno un passo e in quel passo stanno con un piede nel passato e un piede nel futuro, e devono pisciare sul presente”. L’ho trovata un’immagine molto precisa, di denuncia rispetto a quello che raccomanda la società, ovvero pensare al lavoro, al correre costantemente, al fatto che il passato non abbia valore e la nostalgia non vada indagata più di tanto perché ti fa perdere tempo da impiegare invece per costruire il futuro. Alla fine, così, ci scordiamo del presente, di come potremmo approcciarci all’amore stesso che va inserito nel presente e che è già totalizzante di suo.
Ho letto che un insegnamento che ti ha lasciato Paolo Sorrentino è l’importanza del coraggio di essere generosi. Come pratichi questo nella vita di tutti i giorni?
Io di base, sin da quando sono piccolo, sono molto generoso, non credo molto nella proprietà privata. Tutto quello che ho lo condivido sempre con i miei amici e con i miei familiari, mia madre mi diceva sempre, “Non regalare tutto quello che hai!” [ride]. C’è stato però un periodo della vita in cui mi sono molto spaventato perché ho dato veramente più di quello che potevo dare, rimanendo un po’ senza energie. Hai presente quando ti svuoti un po’ troppo? È successo giusto prima di questo film. Vedere Paolo lavorare sul set, ricordarsi i nomi di tutti anche in ordine gerarchico, conoscere qualcosa di ognuno di noi, dare lavoro a dei ragazzi che altrimenti a Napoli non avrebbero lavorato perché provenivano dalla strada, ed erano sul set fieri di essere dove si trovavano, vedere come con generosità e rischio ha scelto persone come me o Celeste [Dalla Porta] che non avevano mai lavorato più di tanto in questo mondo, è stato di grande ispirazione. L’organismo del set era gestito da un’enorme generosità ed empatia da parte di Paolo e osservarlo lavorare ed interagire con tutti sul set mi ha dato fiducia, mi ha fatto pensare che forse è giusto aprirsi anche se a volte ci si fa male. Per questo ho ringraziato Paolo.
“forse è giusto aprirsi anche se a volte ci si fa male”
Hai menzionato Napoli, che è la tua città di origine e due dei tuoi ultimi progetti, “Parthenope” e “Uonderbois”, la vedono protagonista. Che rapporto hai con Napoli, come si è sviluppato nel tempo grazie anche al tuo lavoro?
Io sono stato quasi 10 anni lontano da Napoli e ho avuto amici che provenivano da tutte le parti del mondo: Giappone, Germania, Inghilterra, Francia, America.
A livello antropologico, quando hai a che fare con culture così diverse, ti spezzetti e ti spersonalizzi un po’.
Tornare a Napoli ha creato una colla con quelle che sono le mie origini, mi ha fatto capire l’importanza della frase: “Non puoi andare da nessuna parte se non sai da dove vieni”. Quando sono tornato a Napoli, ho avuto la sensazione di profondissima comprensione del tessuto sociale che è impossibile da descrivere, ma è possibile da comprendere e sentire.
Il rapporto che ho con Napoli è un rapporto di enorme rispetto, soprattutto artistico, poiché a Napoli ci sono un sacco di realtà sperimentali, cose che ho visto solo in Inghilterra o Germania. Napoli è speciale perché lì ci sono persone che fanno arte senza voler arrivare da nessuna parte e fanno scelte sperimentali in quanto pregne di tanto coraggio. Napoli mi ispira, mi comunica tanto, mi fa venir voglia di crescere.
Parlando di musica invece, quali sono i progetti su cui stai lavorando, se puoi dirci qualcosa?
Io ho due progetti musicali, uno si chiama Bravodemian, dal romanzo di Herman Hesse “Demian”, e un altro si chiama F.M.C.P. Il secondo è un progetto sperimentale, abbiamo fatto musica super sperimentale che abbiamo suonato durante gli anni del Covid anche in gallerie d’arte contemporanea. Anche Bravodemian è un progetto sperimentale, ma che racchiude diversi generi anche classici, pescando dalla musica anni ’60, Beatles, Pink Floyd, Joy Division, quindi c’è della New Wave, della psichedelia, della sperimentazione, insomma. È un progetto in napoletano e in inglese, quindi ci auguriamo di suonare a livello internazionale, di portare un po’ di musica del “passato” rivisitata in chiave moderna anche all’estero, portando fuori il napoletano accompagnato con la lingua che si parla in Europa. Con Bravodemian abbiamo fatto anche musica per dei film, uno in particolare che si chiama “Animali randagi” di Maria Tilli, che è stato un’esperienza molto bella.
Per quanto riguarda i progetti futuri, dopo non aver suonato per un anno per lavorare a “Parthenope”, adesso abbiamo appena ricominciato, stiamo andando in radio, suonando, scrivendo, e cercando una quadra a livello di poetica e comunicazione. È un work in progress, abbiamo tante cose scritte che dobbiamo far uscire il prima possibile.
Cinema e musica sono due canali che usiamo sia per comunicare con gli altri che per scoprire sé stessi. Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stesso grazie anche a questi due elementi?
Ho messo a fuoco, più che scoperto, che è necessario avere un nucleo di persone che ami per poter essere libero nel processo e nell’atto creativo. È importante creare una base solida di relazioni, dove ci si può specchiare nell’infinito. Non serve conoscere tante persone, serve conoscere persone con cui avere un’ottima comunicazione per poter capire e delineare quello che succede anche nel mondo. Perché ognuno è specchio di tutti gli altri, e questo è un concetto che sto cercando di mettere a fuoco con il film e con il mio progetto musicale.
“È importante creare una base solida di relazioni, dove ci si può specchiare nell’infinito.”
Un brano che rappresenta questo tuo momento nella vita.
“Floe” di Philip Glass, dall’album “Glassworks”.
Qual è l’ultimo libro che hai letto?
Sto attraversando uno di quei periodi in cui compro e accumulo tanti libri, ce li ho tutti sulla scrivania e sto leggendo un po’ tutto “a mozzichi e bocconi”: “L’alba del tutto” di David Graeber e David Wengrow; “Brevemente risplendiamo sulla terra” di Ocean Vuong, un libro di una potenza contemporanea infinita; per assecondare il mio lato romantico di cui non posso fare a meno, “Gli autonauti della cosmostrada” di Carol Dunlop e Julio Cortázar, sul viaggio a tappe fatto dagli autori nel loro furgone Volkswagen da Parigi a Marsiglia, scritto l’anno prima della morte di Carol e qualche anno prima della morte di Julio; “Siddharta” di Herman Hesse, che non ho mai letto e penso sia arrivato il momento di leggere.
Il tuo più grande atto di ribellione fino ad ora?
Vorrei tenere nascosti il più possibile i miei atti di ribellione, altrimenti non sarebbero così potenti [ride].
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Io sto bene con me stesso, a mio agio nella mia pelle, quando suono.
Qual è la tua isola felice?
La mia isola felice è la musica.
Photos & video by Johnny Carrano.
Grooming by Sofia Caspani.
Styling by Sara Castelli Gattinara.
Assistant Styling Ginevra Cipolloni.
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