Alieni, alberelli e Vitangelo Moscarda.
No, non stiamo parlando di uno dei romanzi di Pirandello in un immaginario mondo postapocalittico. Parliamo di Eduardo Valdarnini che vorrebbe interpretare un personaggio di quelli pazzi, come Vintangelo Moscarda, un folle che non potrebbe mai esistere nella realtà ma che è assolutamente credibile.
Eduardo immagina situazioni irreali (alieni compresi) seguendo il metodo Meisner, e il suo primo ruolo importante nel mondo della recitazione è stato quello di un alberello durante una recita scolastica di Natale.
Lo abbiamo incontrato a Parigi, dove vive e scrive ormai da 4 anni, e qui abbiamo avuto l’occasione di parlare della sua ultima serie Netflix “Suburra 2“, del lungometraggio che sta scrivendo e quanto il potere della parola e la sua naturalezza siano importanti.
Hai sempre saputo che volevi fare l’attore?
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No, non l’ho sempre saputo, anche se c’è un aneddoto che viene fuori ogni tanto, me l’ha raccontato mia madre poco tempo fa. A nove anni, nelle classiche recite di Natale nel quale facevo l’alberello, quando mi chiesero cosa volessi fare da grande ho detto…
Che volevi fare l’alberello!
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Esatto, voglio fare l’alberello, voglio essere parte della natura quindi ad oggi sto facendo dei trapianti per far si che le mie gambe siano radici… [ride]
In quel momento dissi: “voglio fare l’attore”, ma credo fosse solo perché stavo facendo quella cosa e in quel momento pensavo a quello. Ma la realtà è che l’ho scoperto verso i 18 anni, perché ho lavorato con una mia amica ad un cortometraggio che stava facendo con la sua accademia, mi è piaciuto, mi hanno spronato a continuare e ho continuato.
Dopo gli studi del liceo ho iniziato sociologia perché non sapevo cosa fare, ma in realtà sapevo che volevo fare qualcosa di diverso come scrittura creativa o sceneggiatura.
Hai detto di Suburra “un progetto immenso che mi ha stregato e mi ha spinto a scoprirmi”. Cosa hai scoperto di te con questo progetto?
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È stato piuttosto il percorso che mi ha fatto scoprire qualcosa di me. Scoprire è quello che studi anche accademicamente parlando, ti insegnano la vulnerabilità, l’apertura, l’essere disponibile all’altro. Sono tutte bellissime frasi ma finché non provi non puoi sapere.
L’avevo già provato prima però i toni e i tempi sono diversi: trattandosi di una serie c’è tantissimo tempo e questo vuol dire mettersi costantemente alla prova con tutto quello che riguarda il set al di là della scena, tutti quelli che sono gli umori del set, degli altri attori in scena e fuori dalla scena, le relazioni che si creano, tutto fa parte dello scoprirmi. Questa è una possibilità enorme, al di là del risultato della serie, questo è il lato che a me ha toccato di più.
Il risultato finale è relativo, ciò che conta è il percorso.
Per l’attore non c’è la magia nel risultato finale: il trucco, il parrucco, il montaggio, alcune battute che vengono tagliate. Il bello è vedere i commenti dal pubblico, per il pubblico c’è la magia nel risultato, per me è nel percorso.
“Politica, famiglia e religione: niente è più sacro”. Quanto questo diventa ancora più vero nella seconda stagione?
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Devo dire che c’è stata un’evoluzione nell’affrontare le tematiche. Nella prima stagione vengono esposte molte tematiche interessanti ma a volte tralasciate o non approfondite adeguatamente. Nella seconda stagione secondo me si entra molto più nel vivo e anche alcune parti che potevano essere meno accattivanti prendono molta più importanza, come la parte della politica e della religione che si prendono uno spazio e un peso maggiore e soprattutto si intrecciano molto bene con tutta la parte della criminalità che si era già sviluppata adeguatamente nella serie precedente. Secondo me c’è un intreccio più riuscito in questa stagione.
“Il risultato finale è relativo, ciò che conta è il percorso”.
Il tuo personaggio, Gabriele, si trasforma molto, diventa più convinto, sicuro di sé. Come hai lavorato a questo cambiamento?
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Il suo salto quasi “magico” da studente di diritto a viceispettore di Ostia lo motiviamo con la presenza di Samurai. La durezza l’ho acquisita perché ho avuto l’opportunità di conoscere alte cariche della polizia di Roma con cui ho avuto il piacere di passare una mezza giornata e che mi hanno mostrato e raccontato degli aspetti che ti fanno capire che bisogna indurirsi in un mondo del genere. Sembrava quasi un film quello che mi raccontavano. Mi sono immaginato come uno di loro 30 anni prima, alla mia età, cosa l’aveva portato a diventare così.
Come Gabriele avevo già una certa durezza portata dagli eventi della prima stagione in cui questa cosa si deve andare ad unire con le nuove esigenze che sono quelle di un ruolo non meritatissimo e quindi deve dimostrarsi anche di essere più duro di quello che è.
La durezza poi diventerà un richiamo a non voler più vivere nella paura com’era nella prima stagione.
Invece la scena più intensa che hai dovuto girare quale è stata?
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Non voglio fare spoiler. La sesta puntata è quella che mi ricordo con maggiore intensità, date le condizioni in cui giravamo, ma devo dire che forse quella più dura in tutti i sensi, che mi ha messo più alla prova e che ci ha più toccati a noi ragazzi, è stata l’ultima scena della stagione.
Com’era invece il mood sul set?
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Il mood era meraviglioso, ci conoscevamo già tutti. Abbiamo integrato nuovi membri del cast e della troupe ma ritrovarsi è stato un piacere. Un ambiente di lavoro che penso ti capiti una volta nella vita, la coesione e l’alchimia su questo set sarà tosta da ritrovare.
“…la coesione e l’alchimia su questo set sarà tosta da ritrovare.”
Come ti senti a fare parte anche di un fenomeno così globale come Netflix?
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Dico che ho avuto la fortuna di poterci lavorare. Ha un potenziale grande, dici “cacchio”, ma lo dici come essere umano che si trova davanti a dei numeri impressionanti. Detto ciò, per me è un risultato professionale importante che mi ha fatto entrare in una produzione grande ma non mi cambia nulla se mi avesse preso un’altra produzione.
Certo che ad oggi ha un livello commerciale importante, ma nel cinema: come entri, ne esci.
Hai mai pensato di scrivere qualcosa di tuo?
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Sto scrivendo ora. Sto imparando a gestire i tempi morti ed è da 5 mesi che sto lavorando alla sceneggiatura di un film con un mio amico francese. Lui mi sprona e mi spinge dandomi delle scadenze. Tra una passeggiata e l’altra con il cane mi dedico alla scrittura di questo lungometraggio.
Sono comunque 10 anni che scrivo. Ho scritto un libro ma è a casa mia, sta là e sta bene così.
Un epic fail sul lavoro?
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Guarda mi è successo proprio poco tempo fa con il montatore di “Suburra 2”. Io l’avevo scambiato con un’altra persona e quando l’ho visto mi ha chiesto: “Allora ti è piaciuta la serie?”, e io ho risposto “Ammazza, bella bella! Tu invece, l’hai vista tutta?”, e lui: “Eh l’ho montata”.
Vabbé io vado a bere eh, ciao [ride].
Un personaggio che ti piacerebbe interpretare?
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I personaggi più fighi sono quelli usciti da Pirandello. Non voglio fare uno di loro, ne hanno fatti tanti. Mi piacerebbe piuttosto fare un personaggio pirandelliano, sullo psicologico onirico, quei personaggi che potrebbero esistere nella realtà ma che non esisteranno mai nella realtà e quindi inserire degli elementi completamente fantastici e credibili nella realtà. Vitangelo Moscarda, in “Uno, Nessuno, Centomila” è un personaggio fondamentalmente pazzo ma si crea delle fantasie che normalmente troveresti in un folle per strada o in nessuno. Sono personaggi credibilmente reali.
Se potessi andare a cena con tre persone del passato o del presente, chi sceglieresti?
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Del passato mio nonno, non l’ho mai conosciuto, per me è molto famoso perché me ne parlano sempre e vorrei avere uno scambio con lui. Poi se fosse attore direi Mastroianni ma vedi tu chi tra mio nonno o Mastroianni è più importante [ride]. Anche solo per chiedergli come fa a fare il suo lavoro e cosa gli passa per la testa.
Del presente, forse Will Smith perché mi sta simpatico. Un altro attore che mi piacerebbe tanto incontrare è Michael Fassbender o Woody Harrelson, che l’ho appena visto in “Larry” ed è sempre pazzesco. Lui ha avuto la possibilità di fare dei ruoli che partono dalla normalità ma che ad un certo punto deviano e diventano folli. A lui mi piacerebbe chiedere: “Che pigna hai nel cervello?”.
Futuro, io da grande. Per chiedermi come sono arrivato là.
“Mi piacerebbe fare un personaggio pirandelliano, sullo psicologico onirico, quei personaggi che potrebbero esistere nella realtà ma che non esisteranno mai”.
L’ultima serie tv che hai visto che ti è piaciuta?
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L’ultima è stata “Patrick Melrose”. Più che altro è l’ultima che ho visto che mi ha davvero toccato. Poi ho cominciato a vedere quella di Ted Bundy su Netflix o “Il Metodo Kominsky”, mi piace tanto Micheal Douglas ma ancor di più Alan Arkin che lo ricordo da “Little Miss Sunshine”. Parla di due uomini anziani che si ritrovano e della loro amicizia a 75 anni.
E invece un film?
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“Ralph Spaccatutto”. Il secondo non è bellissimo come il primo. Però non era questo il film che volevo dire [ride]. Mi devo anche sostenere un attimino.
L’ultimo film che non mi sono visto ma rivisto è stato “Full Metal Jacket” e il giorno prima avevo rivisto “American Beauty”. Questo è il bello e il brutto di Netflix: ti impigrisce un po’ e ti fa riguardare le stesse cose.
Un film invece che ho visto al cinema che mi è piaciuto è stato “Diamantino”, un film portoghese completamente folgorante. Parla di un giocatore di calcio che è stupido ma che ha delle visioni e si trova immerso in questo dubbio. Se siete amanti di cose improbabili, guardate questo film.
Parigi e Roma. C’è qualcosa che ti manca dell’una e dell’altra?
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In entrambi i casi mi manca la mia famiglia. Quando sono a Parigi mi mancano gli amici d’infanzia, la famiglia. Quando sono a Roma mi manca casa mia, cioè la mia casa davvero, quella in cui investo perché sia casa mia ad oggi, dove vivo con la mia ragazza, il mio cane, il mio quartiere.
Cos’è la recitazione per te?
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Ti rispondo con una citazione che mi ha stregato quando l’ho letta al tempo. È di Sanford Meisner, uno dei maestri della recitazione americana che ha creato appunto il metodo Meisner, uno degli adepti di Stanislavskij che si è separato da Strasberg e ha creato una sua corrente di recitazione e di insegnamento. Il concetto base si riassume in questa frase: “Recitare è vivere onestamente delle situazioni immaginarie”. Secondo me è fondamentalmente quello, non puoi prescindere da un contesto come dice lui che non è il contesto in cui sei fisicamente.
Noi oggi siamo qui, su questo tavolino, possiamo partire con un delirio e io potrei proiettare su questo tavolino le insicurezze che ho avuto da piccolo. Sì, posso farlo, ma tu devi prendere il tavolino e devi prima rapportarti al tavolino per quello che è.
Il concetto è che la circostanza fa sì che tu debba vivere realmente quello che hai nella realtà che ti circonda. E questa è una filosofia bellissima secondo me: stare attento a quello che ti circonda in scena e fuori dalla scena. Perché così fuori dalla scena puoi cogliere degli elementi che puoi riportare e che fanno apprezzare la realtà della vita e nel set devi avere occhio non su te stesso, ma semplicemente su quello che hai intorno per creare e dare veridicità a quello che stai dicendo e quello che sta succedendo.
Basta anche la cosa più improbabile del mondo, se siete in due o da sola a dirla, puoi crearla in un contesto: io posso immaginare che tra un secondo piovano dal cielo 8 alieni. È improbabile, ci vuole del lavoro per realizzarlo ma io, nel momento in cui vivo questa realtà, posso dire che in questo luogo possono succedere delle cose anche non per forza reali. Poi, è usando la realtà delle cose che puoi trascendere dalla realtà stessa.
“Recitare è vivere onestamente delle situazioni immaginarie.”
Prossimi progetti?
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Per ora nessuno in particolare.
Ora sto scrivendo e si riparte su un filone di provini e sto cercando con fatica di trovare a Parigi un’agenzia, perché volevo aspettare un po’ di tempo per la lingua, non volevo avere le tipiche inflessioni dell’italiano nel francese. È solo negli ultimi 4 anni che ho davvero vissuto la lingua francese e sto facendo un grande sforzo, come aspirante attore francese, di pulire la lingua il più possibile dagli accenti romani.
Una lingua la devi vivere, perché le parole devono avere un collegamento diretto con le emozioni. Se per esempio dico “amore”, ha un legame nella mia testa con i ricordi della prima volta che ho detto la parola “amore”, non a “love” o “amour”. Amore ha un significato e si riempie di significato. Dicendo “love”, non sento la stessa cosa che sento dicendo “amore”. Il processo in testa è più lungo perché devo prima prendere quella parola, dirla, tradurla e sentirla. E quindi in camera hai già perso l’occasione mostrare quelle emozioni.
Dare naturalezza alla parola è un processo lungo.
“…le parole devono avere un collegamento diretto con le emozioni.”
Photos & Video by Johnny Carrano.
Location Les Chouettes, Paris.
Styling: Sara Castelli Gattinara / Factory4
Look BIKKEMBERGS – (scarpe Converse)