La prima volta che abbiamo conosciuto Elena Ranonicich, anche se per pochi minuti, è stato nel 2016 al Giffoni Film Festival. Dopo quell’intervista ci era rimasta nel cuore la voglia di conoscerla meglio.
Roma, 2018.
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Qual è quell’emozione, quella spinta, che ti fa amare quello che fai?
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Le arti performative hanno tutte dentro di sé l’adrenalina, è una cosa fisica che ti prende e ti dà molta paura e molta gioia. Quindi c’è questo aspetto quasi di droga che ha quell’emozione della performance, soprattutto se dal vivo. Anche quando c’è un’azione sul set, quando si dà un ciak, da un punto di vista proprio fisico.
L’emozione è un’emozione che, specialmente quando faccio cinema e televisione, si spalma lungo tutto il lavoro, dalla preparazione al momento in cui si gira al momento in cui ci si rivede, che in realtà è il momento di sofferenza. Questo tentativo di cadere dentro ad un personaggio è una sensazione di empatizzare con qualcuno che è scritto nella sceneggiatura e che vive per fare cose che tu magari non faresti e non penseresti. È un’emozione di comprensione dell’altro. E questa cosa si rigenera sempre, non c’è possibilità che si esaurisca, visto che il genere umano è infinito nelle sue possibilità.
“È un’emozione di comprensione dell’altro”.
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Hai lavorato molto anche in teatro, cosa ti ha dato?
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Ho iniziato in teatro, ho iniziato a studiare in una scuola teatrale, poi ho fatto degli spettacoli, ma la mia formazione è stata prevalentemente al Centro Sperimentale di Cinematografia e la mia esperienza è di gran lunga maggiore sul set che in scena. Quindi non sono una di quelle che viene da teatro in senso stretto, mi piacerebbe ma non è così.
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Ti piacerebbe tornare quindi al teatro?
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Certo, è un luogo in cui l’attore, quando poi recita in scena, è solo in un certo senso, mentre al cinema è sempre all’interno di una struttura modificata e stratificata. Probabilmente l’adrenalina di cui parlavamo prima si esprime in maniera più libera, più che esprimersi si palesa, ti dà emozioni più forti.
Ha più a che vedere con la vita, perché esprimi l’arte di un personaggio tutto insieme, mentre sul set vai avanti giorno per giorno con le scene scollegate, un continuo attaccare e staccare la spina. Mentre il teatro no, è come se fosse un flusso, una corsa di uno sportivo, un momento. Mi piacerebbe parecchio tornare, recentemente ho fatto qualche laboratorio per cercare di sperimentare qualcosa di diverso di me. È un luogo dove forse si sperimenta di più. È molto difficile per me trovare da spettatrice un teatro che mi appaghi mentre per il cinema è più semplice, e come attrice vorrei fare quel teatro che mi piacerebbe guardare.
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Qual è la sensazione che provi quando, dopo aver lavorato sul set, ti vedi per la prima volta sullo schermo?
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Purtroppo, non so se riuscirò mai veramente a far pace col fatto di vedermi dall’esterno, che è paradossale perché facendo questo lavoro capita continuamente. Però è un po’ come quando risenti la tua voce registrata, in un certo senso è quasi grave se ti abitui, perché vuol dire che ti abitui a vederti da fuori e questo può renderti meno naturale e spontaneo.
D’altronde un personaggio è di per sé una costruzione e, grazie a Dio, perché sennò faremmo sempre gli stessi personaggi e basterebbe essere se stessi e quello non ha niente a che vedere con la recitazione, anche se può essere usata come recitazione. Quello che provo dipende da quanto metto a fuoco il personaggio, da com’è l’opera, dipende da tante cose. In generale la prima sensazione è molto disturbante, mi guardo e provo imbarazzo, disagio, orrore, però questa cosa per fortuna nell’arco delle visioni, cambia.
Ho bisogno di un tempo per abituarmi al fatto che ho quella faccia lì, sto dicendo quelle cose lì, e rifare pace con quello che ho fatto e col fatto che mi vedranno altre persone, ma soprattutto che io magari non mi riconosco, che dovrebbe essere anche una cosa positiva il non riconoscersi, ma c’è un momento in cui dici “Cazzo, aspetta un attimo, sono brava, no?” e la percezione di quello che fai è sempre tanto diversa da quello che ti appare. Un po’ come quando pensi di essere una persona simpatica, poi te ne vai e dicono “Ammazza però quanto era stronza”, e quindi questo ovviamente avviene anche rispetto ad un lavoro, rispetto alle aspettative che avevi su un lavoro, pensavi di aver fatto delle cose bene o di averle fatto in un certo modo e poi risultano in un altro.
Una volta ho letto un’intervista di un’attrice che ha detto una cosa che ho pensato essere bellissima e qui la ripropongo come se fosse mia [ride]: Tu ti piaci, e sei bello nel senso che ti apprezzi, anche se non sei bello rispetto ai canoni, quando sei coerente col tuo personaggio. Quando quello che fai è giusto, allora emani bellezza. Quando quello che fai è sbagliato, storto, fuori tempo e fuori synch, allora la tua interpretazione, e quello che emani, quindi la tua bellezza, cambia e può diventare disturbante, e non solo ai tuoi occhi ma anche a quelli del pubblico, che è assai più importante ovviamente.
Quando quello che fai è giusto, allora emani bellezza.
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Riguardo invece il film “Fabrizio De André – Principe Libero”, quanta responsabilità hai sentito nel recitare quella parte e come hai approcciato il personaggio?
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La responsabilità l’ho sentita nei riguardi della storia, non tanto nel personaggio quanto nel film proprio, che era un sentimento che ammantava un po’ tutto il set, questo desiderio di fare qualcosa che fosse onesto. Non ti dico all’altezza perché non lo so, però che fosse onesto nei riguardi di una figura che in qualche modo, oltre ad essere un gigante del ‘900, è anche qualcuno di importante per buona parte degli italiani. È un’icona che ognuno di noi si porta dentro e che significa delle cose, quindi se tu tradisci quella cosa lì, tradisci in qualche modo anche il piccolo ricordo di ciascuno. C’è questo rischio per lo meno, poi non tutti hanno visto il film, non tutti si identificano con quello che abbiamo fatto, però mi sembrava che la cosa importante fosse questa: avere rispetto.
Per quanto riguarda la preparazione è stato un momento molto bello di questo film in cui siamo stati tutti insieme, abbiamo lavorato insieme agli sceneggiatori, al regista Dori Ghezzi, ci siamo molto confrontati, aiutati. Io interpretavo un personaggio realmente esistito ma non più in vita, la cui storia è stata raccontata, oltre ovviamente che dalla sceneggiatura, da Dori, quindi da un punto di vista. Io mi sono messa in ascolto.
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Ti è capitato, per dei ruoli in particolare (“Alaska” “Fabrizio De André – Principe Libero”) di interpretare la parte della donna un po’ più razionale. Elena invece nella vita è più passionale? Ti senti di rispecchiarti in questi ruoli?
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Spero tanto che la mia vita non assomigli a quella di queste due donne [ride], che comunque per quanto abbiano due modi diversi di affrontare le situazioni, hanno una similitudine. Io sono molto impulsiva, molto drammatica. Mi piacerebbe che lo dicesse un amico come sono, perché magari uno si fa un’immagine di sé più romantica del necessario. Comunque sì, penso di essere decisamente passionale.
Ci sono stati blocchi della mia vita in cui sono stata obnubilata da quello che provavo, e la gestione di queste cose non ha mai seguito dei canali che avessero un senso profondo…non sono capace di fare grandi ragionamenti sui sentimenti. Anche se la mia parte razionale sostiene con orgoglio che la volontà ci salverà tutti, non il sentimento. Il sentimento è sopravvalutato perché uno può anche sentire di voler picchiare una persona per strada o di rubare un portafoglio, quello che ci contraddistingue è la cultura. Ed è una cosa in cui credo tantissimo, la volontà di voler bene, dire “io voglio voler bene” e non “ti amo”, che è chiaramente una cosa bellissima, ma è una cosa che ti arriva in testa “ti amo, non posso farci nulla, ti ho visto ieri al bar e ti amo”.
Vi consiglio di vedere “Corpo e anima” che è un film pazzesco in cui ad un certo punto lei si siede ad un tavolo e dice “Non ci posso fare niente, ti amo, da quattro minuti”. Ed è vero, perché a volte uno prova dei sentimenti che sono enormi, improvvisi anche, e completamente senza senso. Non lo so, sarebbe bello riuscire a vivere sul filo di queste due cose, ma la verità è che nella vita alterno molto questi due momenti.
“…la mia parte razionale sostiene con orgoglio che la volontà ci salverà tutti, non il sentimento”.
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C’è un personaggio che hai interpretato con cui hai avuto un feeling particolare, che ti è piaciuto particolarmente?
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Non ragiono mai in termini di un personaggio se mi somiglia o no, perché faccio molta fatica a definirmi, mi sembra di essere in continua evoluzione e quindi in contraddizione perpetua, non ti parlo di etica. Tra l’altro non mi diverte neanche, nel senso che quando leggo un personaggio non penso mai “ah vedi, io avrei fatto uguale”, non me ne frega niente.
Però ci sono tanti personaggi nei quali trovo quelle famose strade che io non ho preso, ma non le ho prese per caso, forse perché ho avuto la fortuna di nascere in un determinato ambiente e con determinate persone. Quindi ad esempio per Puny, che è un personaggio che ho amato tantissimo, benché non credo mi capiterebbe di vivere questa situazione (o quantomeno me lo auguro), mi sono riconosciuta come un essere umano a cui ipoteticamente sarebbe potuto capitare. Cioè se la mia vita fosse andata diversamente, dentro di me la frustrazione che prova quella donna lì esiste, esiste il tentativo di tenere tutto insieme quando le cose vanno male, esiste il desiderio di apparire felici quando non lo si è, esiste il gusto in estetica dell’esistenza, esiste una certa superficialità, tutte cose che esistono ma che non coesistono dentro di me in contemporanea e che quindi fanno sì che io non sia quella persona lì.
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C’è qualcuno che ti ha dato un consiglio sulla tua carriera che ricordi o che ti è stato particolarmente utile?
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Purtroppo non ho l’abitudine di seguire i consigli perché me li dimentico, però me ne hanno dati tanti e adesso sto cercando di metterne in pratica uno. Una persona che mi conosce molto bene e che mi vuole molto bene mi ha detto che dovrei recuperare un po’ di violenza, e credo che sia molto pertinente con la fase della vita che sto vivendo. Come dire, di non essere troppo attratta dall’ordine, spesso si fa l’errore di pensare che ciò che è ordinato e comprensibile, sia rassicurante e quindi generi più amore. Se io sono una persona linda e limpida, ordinata, questo inevitabilmente creerà intorno a me un ambiente più sicuro di persone che più facilmente si sentiranno a proprio agio con me. Questo nella vita può avere senso, perché poi ha a che vedere col crescere, col diventare più accomodanti sotto certi aspetti, nella recitazione però non ha nessun senso. Ed io è un errore che, a causa di un po’ di pigrizia, di interlocutori non illuminati e di abitudine, ho fatto. Adesso sto cercando di seguire questo consiglio e di recuperare la mia violenza interiore, che non significa prendere a bastonate le persone, ma riprendere la propria spudoratezza.
E poi un altro consiglio che mi è stato dato, che è un mantra, è che non bisogna mai smettere di studiare, e quello vale per tutti e per tutta la vita.
“…sto cercando di recuperare la mia violenza interiore, che non significa prendere a bastonate le persone, ma riprendere la propria spudoratezza”.
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Qual è il progetto dei tuoi sogni? Un personaggio ti piacerebbe interpretare?
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Non ne ho uno in particolare, perché ho capito che i sogni cambiano. Io so come mi voglio sentire e non quello che voglio fare; sogno di potermi sentire in possesso delle mie capacità, questo è il mio sogno e credo che in futuro possa trasformarsi in un qualche fatto concreto.
Quello che penso sia il primo obiettivo del lavoro in generale è questo: essere liberi. E per ricollegarmi al discorso sulla violenza, essere liberi di essere violenti, e soprattutto consapevoli. Consapevoli inteso come ‘in grado di usare le proprie capacità’. Tutto si esercita: si esercita la volontà, si esercita la libertà, si esercita l’amore…tutto.
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Quali sono i prossimi progetti?
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È in uscita il film di Cosimo Messeri “Metti una notte” che abbiamo già presentato al Festival di Roma. Poi a breve uscirà -anche se non so ancora dove- un film ambientato in Germania diretto dal regista tedesco Ulrich Köhler dal titolo “In my room” che è stata un’esperienza straordinaria e al contempo stranissima.
Ora sarò impegnata nelle riprese di “La porta rossa 2” e probabilmente di “1994”. E a Milano ho finito di girare “Palloncini” di Ilaria Chiossone.
Hai molti progetti…
Sono fortunatissima.
Tutto si esercita: si esercita la volontà, si esercita la libertà, si esercita l’amore…tutto.
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All’estero recentemente è molto apprezzato, oltre ad essere premiato, il cinema indipendente. Pensi che in Italia possa esserci un livello di cinema indipendente così consistente?
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Io credo di sì e penso dipenda dalle storie.
Ho fatto molti film indipendenti; ho amato ognuno alla follia perché all’interno c’è un desiderio, una voglia e una fantasia incredibili. Penso che il cinema indipendente in Italia – anche se non conosco bene tutto- arriverà ad essere considerato dal pubblico soltanto nel momento in cui comincerà a creare delle storie che interessino al pubblico. Il pubblico è sovrano e nonostante tu autore sia obbligato ad essere onesto con te stesso, non bisogna dimenticare di intercettare il pubblico in una qualche dimensione (il che non significa diventare mainstream perché altrimenti che cinema indipendente è!?).
Pensiamo a “Lady Bird”: è un cinema indipendente che strizza l’occhio al pubblico, perché molto dipende da chi è l’interlocutore e non bisogna stupirsi se un certo tipo di cinema non incontra il pubblico se non è stato pensato per lui. Per intenderci, bisognerebbe rivedere il pensiero che abbiamo sul pubblico, perché viene identificato spesso come una massa di rincoglioniti con nessun strumento intellettuale e nessuna voglia di fare. Quindi il pubblico è sia molto sottovalutato sia molto sopravvalutato. Non esiste nessuno che possa chiedersi “A me da spettatore, piacerebbe vedere questa cosa?”.
Ed è lo stesso sentimento che provo quando scrivo: certe volte delle lettere d’amore che ho scritto, quando ero giovane mi sembravano “Wow, ci ho messo tutta me stessa, tutta la mia vita”, poi nel momento in cui le rileggevo “Ammazza che rottura”. Quindi anche se tu pensi di essere pieno di buone intenzioni, anche se pensi di esserti fatto un mazzo così, non ti viene il sospetto nel momento in cui rileggi, che forse la cosa ora non possa più interessare né te né quei quattro come te?
È una bella cecità, perché è una domanda che ad un certo punto della vita tocca farsi.
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È vero! Bisogna pensare a chi vede il film…Altrimenti si creano e fanno le cose per se stessi.
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Infatti, bisogna avere una percezione reale del pubblico. Chi è il pubblico? Altrimenti, come hai detto, fai le cose per te e per il tuo circolo di intellettuali oppure per quella famosa massaia di Voghera, che vorrei tanto incontrare perché rappresenta il prototipo del pubblico medio.
Ci sono stata a Voghera; sono scesa dal treno per poi doverlo cambiare e appena ho letto Voghera mi è salita una tristezza nel cuore. Perché alla fine ti viene in mente questa donna con 5 figli che mentre gira la zuppa, con una mano si toglie un calzino, allatta, apparecchia e intanto gira deve però anche seguire quello che le stai proponendo: questo è l’interlocutore medio.
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Come hai detto, non si riesce a recepire il pubblico con la giusta via di mezzo, ma ci sono due modi estremizzati di percepirlo…
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Beh, ci sono esempi ottimi che ci sono riusciti e hanno avuto successo: per esempio “Lo chiamavano Jeeg Robot” che non è un caso isolato perché ne esistono molti altri. Poi è giusto dire che dal punto di vista delle maestranze, delle istituzioni, il tutto andrebbe supportato perché se tu che rappresenti il cinema in Italia vedi una pellicola indipendente italiana in grado di parlare a molte più persone dovresti essere in grado di dargli la possibilità di essere visto.
Infatti, alla radice troviamo un discorso “distributivo” che è alla base di tutto questo ed è drammatico; proiettano film in un giorno e mezzo e ti chiedono quanti soldi hai fatto altrimenti sei fuori…Quindi ci sono più problemi; non c’è solo l’autore chiuso nella propria stanza o del pubblico, c’è anche questo…e alla fine penso che il primo problema sia proprio questo, anche perché qui in Italia quando qualcuno riesce a sfondare con un’opera e una produzione indipendente e “rompere il muro” ed arrivare al grande pubblico, tutti si eccitano e il ragionamento che vige è “Vedi che con 5 euro i film puoi arrivare al grande pubblico!” e così tutti danno 5 euro.
Invece se tu, come accade in America, investi dei soldi in un’industria, la alimenti e la finanzi e fai sviluppare tanti progetti. È chiaro che vengono sviluppate trenta sceneggiature tra cui solo una verrà selezionata per un pilot che forse non verrà nemmeno girato. In Italia stai fresco…
I soldi per finanziare le possibilità non ci sono o vengono investite male o non lo so francamente. È chiaro che è una questione numerica; non stiamo dicendo “noi siamo sfigati, gli altri sono fighi”, è una questioni di soldi.
Ho fatto molti film indipendenti; ho amato ognuno alla follia perché all’interno c’è un desiderio, una voglia e una fantasia incredibili.
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Un film che hai visto ultimamente…
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Mi ha cambiato la vita il film di Guadagnino “Chiamami con il tuo nome”. Mi ha sconvolto molto.
È un film che rimane…
Mi ha sconvolto molto; è una sintesi incredibile di potenza e di grazia e soprattutto perché dice molte cose vere sia su chi le ha provate e chi non le hai mai provate. La ritengo un’opera magica che mi ha cambiato e, come hai detto tu, è rimasto con me ed è un film che si ripresenta nei pensieri, nelle immagini…le immagini di questo film le porterò per tutta la vita dietro. È indubbiamente arricchente.
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C’è un regista o un attore con cui ti piacerebbe collaborare?
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Non posso rispondere a questa domanda, sono troppi. In verità cerco qualcuno che voglia veramente lavorare con me.
“La ritengo un’opera magica che mi ha cambiato, è rimasto con me, ed è un film che si ripresenta nei pensieri, nelle immagini…”
Must have sul set: Forse dei buoni snack, del cioccolato. Ho girato il film “Banat” tra la Romania e la Macedonia ed è stata la fine! Io ero incinta e mi comprai tonnellate di Milka. Alla fine, il cibo è un conforto -non dovrebbe esserlo, ma lo è- quindi adoro avere persone amorevoli e socievoli che mi porgono del cibo e questo è uno dei privilegi dell’essere attore a cui non riuscirei a rinunciare per ora: il venire a chiedermi cosa desidero mangiare.
La tua isola felice: Non c’è…O forse la stazione Termini; quando arrivo a Termini sono felice che ci vorrei vivere…o forse meglio di no.
Parola preferita: Non è una parola, ma “non sopravvalutarsi”.
Film preferito da bambina: “Il tempo delle mele”.
Superpotere: Svegliarmi bellissima. Non è intelligente come superpotere, ma utile…per combattere meglio la giornata! Non intendo truccata, ma svegliarmi fresca e riposata, pelle rosata…che sogno! È da una vita che mi sveglio che sembra che mi abbiano dato dei pugni in faccia, non so perché.
Alzarsi e guardarsi allo specchio e dire “Wow che bella! È stata proprio una bella dormita!”.
L’ultimo binge-watch: Ora sto guardando “Love” a manetta e devo dire che mi piace molto…anche se ne ho guardate così tante.
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Cosa vuol dire fare l’attrice per te?
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É fare un lavoro privilegiato, un non dover passare troppo tempo con gli occhi verso sé stessi che è una grande tentazione per chi fa questo mestiere, ma invece è il contrario; bisogna estroflettersi e guardare fuori e imparare dal fuori ciò che ti serve per il tuo lavoro, non solo quello che c’è dentro.
E quando riesci a farlo bene, con umiltà, con coraggio -ovvero riuscire a fare cose non semplici- significa avere il lusso di poter far provare qualcosa agli altri, hai insomma la responsabilità di una piccola gioia, di una gioia superficiale, ma il divertissement è importante nella quotidianità delle persone.
É quindi avere una responsabilità piccola, ma necessaria.