Per esprimere se stessi basta poco.
Basta la passione. Basta crederci.
E, per l’attrice Eleonora De Luca, basta questo: la recitazione, la danza, una penna e l’amore.
Con Roma a fare da scenografia sullo sfondo, e noi a fare da spettatori, Eleonora ci ha accompagnati, passo dopo passo, parola dopo parola, emozione dopo emozione, in una sorta di coreografia che racchiude in sé tutto quello che è stata, che è e che vuole diventare. Dalla meravigliosa esperienza sul set di “Le sorelle Macaluso” e “Padrenostro” alle sfide affrontate per interpretare Maria, dal concetto di libertà al dimenticarsi del suo aspetto per sentirsi sé stessa, quel che Eleonora ci ha mostrato è di una bellezza espressiva disarmante.
Proprio come le storie che sogna di raccontare, dove l’infinitesimamente piccolo e l’immensamente grande hanno lo stesso, importante valore.
In un momento storico in cui la mancanza del cinema, come luogo fisico ed esperienza collettiva, si sente più che mai, qual è il tuo primo ricordo legato a quell’universo?
È buffo, ma ricordo di essere andata al cinema per la prima volta a 5 anni a vedere “A Bug’s Life”. La prima cosa che ho visto sullo grande schermo, in sostanza, era il mondo piccolo. Il cinema è un luogo in cui l’infinitesimamente piccolo può essere visto e vissuto tanto quanto l’immensamente grande.
Nel film “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, presentato in concorso all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, interpreti il personaggio di Maria, la maggiore tra le cinque sorelle. Qual è stata la tua prima reazione quando hai letto la sceneggiatura? E qual è stata la prima domanda che hai rivolto alla regista e a te stessa?
Già da lettura della sceneggiatura, ho percepito subito come le sorelle Macaluso prendessero spazio attraverso i piccoli gesti, le parole non dette e gli oggetti della loro casa. “Le sorelle Macaluso” è a tutti gli effetti una storia sul tempo. Mi piace pensare come Ungaretti che il tempo sia un sentimento, che gioca a ad intrecciarsi e a slegarsi di continuo con gli affetti della nostra vita.
Uno dei primi interrogativi di interpretazione affrontati con Emma Dante è stato quello di domandarci quale fosse il ritmo interno di Maria, il mio personaggio, dentro al tempo del film.
“Il cinema è un luogo in cui l’infinitesimamente piccolo può essere visto e vissuto tanto quanto l’immensamente grande“.
“Mi piace pensare come Ungaretti che il tempo sia un sentimento, che gioca a ad intrecciarsi e a slegarsi di continuo con gli affetti della nostra vita”.
Qual è stato il tuo approccio al personaggio di Maria? Conoscevi e hai fatto affidamento sulla pièce teatrale da cui il film è tratto per comprenderlo, conoscerlo e interpretarlo? Riconosci qualcosa di te in Maria?
Avevo già visto emozionandomi fortemente lo spettacolo teatrale da cui è tratto il film e del quale ad onor del vero è rimasto anche nel riadattamento cinematografico il cuore pulsante, sebbene la storia per il grande schermo poi sia diversa sotto molto aspetti.
Quindi lo spettacolo ha avuto per me principalmente un’influenza di moto iniziale, di spinta emotiva, diciamo. Maria per me è stata un’epifania. Interpretarla ha in modo misterico riaperto una porta sul mio passato e contemporaneamente ne ha spalancata un’altra verso l’ignoto. Tutto ciò è risultato amplificato grazie allo splendido lavoro di simbiosi e di sintonia trovato con Simona Malato, l’attrice che interpretava il mio stesso ruolo in fase adulta e spezzata. Io ero l’idealizzazione, i sogni in divenire, il primo volo, lei la caduta, il buio, l’assorbimento.
C’è molto di me in Maria, ma anche tanto altro che invece da me è lontanissimo. Non so dire bene perché, ma per la prima volta, riguardandomi sullo schermo, in molti momenti ho davvero dimenticato di riconoscermi.
Quali sono state le difficoltà e le sfide dell’interpretare il tuo personaggio e come le hai affrontate e superate?
Per interpretare Maria, la maggiore di cinque sorelle senza genitori, ho innanzitutto cercato dentro di me un senso di sorellanza sanguigna con delle donne (mai sperimentata nella vita), di riconoscimento in una tribù femminile. Le mie colleghe piccole e grandi sono state splendide nel cercarlo con la stessa forza, insieme.
La sfida maggiore però per me è stato il dover scardinare il mio passato di ballerina al quale avevo chiuso per diversi motivi da tempo le porte del ricordo. Una volta scardinato, un’anta del cuore che era rimasta bloccata per tempo senza che me ne accorgessi, è stata finalmente aperta. Questo film per me è stata un’occasione liberatoria.
Se riesci ad essere libero nel passato, sei libero ovunque.
Come descriveresti “Le sorelle Macaluso” in una sola parola?
Corpo.
“Se riesci ad essere libero nel passato, sei libero ovunque”.
In che modo e da cosa nasce la chimica tra te e il resto del cast? Come hai costruito la relazione tra Maria e gli altri personaggi, in particolare le sue sorelle?
Emma Dante ci ha fatto lavorare moltissimo insieme. Abbiamo preso un periodo di tempo laboratoriale per capire come si muovesse il “branco” delle sorelle, che ruoli avesse ognuna, per specchiarci con le alter-ego adulte e anziane, per concentrarci sui gesti, sui ritmi, sui respiri, per prendere confidenza con la casa, gli oggetti e lo spazio in generale. Questo tempo speso insieme ci ha fatto sincronizzare e ragionare come un organismo unico, un corpo, appunto, in cui ogni parte collabora al funzionamento totale ma ha le sue singole complessità e funzioni.
Il rapporto di Maria con le sorelle è nato spontaneamente dalle improvvisazioni e dalla scrittura, ad un certo punto per me ad esempio è stato chiaro che i suoi compiti nel gruppo fossero da mediatrice, da torre di vedetta per le più piccole e da organizzatrice economica, salvo poi le esplosioni di indipendenza e di erotismo nei momenti in cui inizia a danzare e quando si innamora. Diverse scene del film in cui interagiamo tra noi sorelle sono nate dalle nostre improvvisazioni.
Hai recitato nel dramma “Padrenostro” di Claudio Noce, al fianco di Pierfrancesco Favino e Barbara Ronchi. Com’è stato condividere il set con veterani del loro calibro? Hai portato a casa qualche nuovo insegnamento o segreto una volta finite le riprese?
In generale, ho avuto sempre una grande fortuna sui set e in teatro. Quasi sempre ho lavorato con artisti di cui stimavo profondamente la professionalità e la bravura. Il set di “Padrenostro” di Claudio Noce è stato una conferma di questa fortuna. Barbara è un’attrice dalla grande sensibilità scenica e Pierfrancesco Favino riesce a trasformarsi radicalmente facendola sembrare la cosa più facile del mondo. In generale ho avuto molto tempo per guardarmi attorno e ho assorbito ciò che poteva essermi utile da tutti, dal primo all’ultimo attore e da ogni singolo reparto. Questo è quello che amo fare di più quando entro a far parte di una bella produzione.
Non sei solo un’attrice di cinema, televisione e teatro, ma anche una ballerina: come cambia il tuo approccio a questi diversi tipi di sfide?
In realtà ho avuto una formazione da ballerina di danza classica a livello semi-professionistico per molti anni, che poi ho di colpo interrotto. I miei maestri volevano prepararmi per La Scala.
Ho iniziato a trasformare quell’impulso iniziando a fare teatro, a 16 anni. Non lavoro prettamente come ballerina, ma danzo spesso in teatro in funzione degli spettacoli. Al Teatro Greco di Siracusa per esempio è quasi impossibile che le produzioni non prevedano grandi momenti coreografici.
Per la prima volta ultimamente mi è successo anche al cinema, nel film della Dante. I passi di danza di Maria li ho creati io in fase di provini. È stato come rimettere su una collanina che non indossavo da tempo. Danzare per me è un momento di massima libertà espressiva.
L’ultima serie che hai divorato?
“The Handmaid’s Tale”. Ho visto tutte e tre le stagioni in sei giorni, aspetto la quarta. Ma sono una delle più grandi divoratrici di serie, in generale. Le guardo di continuo e faccio maratone infinite. Ho una passione per quelle orientali e quelle a tema distopico e ucronico. Ho finito da poco la prima stagione di “The Man in the High castle”, tratto dal romanzo “la svastica nel sole” di Philip K Dick, uno dei miei scrittori preferiti. Quella che ho nel cuore più di tutte, invece, è “Sherlock”.
“Danzare per me è un momento di massima libertà espressiva”.
Quali storie sogni di raccontare?
Sogno di raccontare storie belle. Storie che possano arrivare al cuore di chiunque, non scritte per i soliti salotti borghesi, storie genuine, piene di fantasia, che non puntano il dito o che non raccontano necessariamente bruttezze dell’anima nel tentativo di sembrare reali, storie che ti cambiano lasciandoti di un umore illuminato, senza prenderti a picconate il cuore solo per il gusto di straziarti.
L’ultimo film o serie tv che ti ha fatto scoprire qualcosa di nuovo su te stessa?
Scopro di continuo, ma una delle cose più belle e strane che ho scoperto ultimamente è che quando cucino sono come guidata da una forza misteriosa, entro in uno stato meditativo profondo. Mi fa stare bene e sento estremamente naturale mischiare gli ingredienti senza mai assaggiare, come se fosse una specie di rituale magico o alchemico di cui conosco -non so come- la formula.
Cosa vuol dire per te sentirti a tuo agio nella tua pelle?
Per me vuol dire dimenticarmi dell’aspetto che ho e dell’impressione di me in terza persona, in qualunque situazione mi trovi.
“Sogno di raccontare storie belle, (…) che ti cambiano lasciandoti di un umore illuminato, senza prenderti a picconate il cuore solo per il gusto di straziarti”.
Il tuo must-have sul set?
Una penna. Una penna serve sempre. Bisogna riscrivere di continuo le scene. Le matite non mi piacciono perché sono reversibili, mi piace assumermi il rischio di annotare male.
Un epic fail sul set?
Una volta sono riuscita a mettere in moto un cinquantino e a salirci sopra (con tanto di passeggero) senza togliere il bloccasterzo. Vi lascio immaginare il seguito.
Il personaggio del cinema che vorresti come amico?
Jack Sparrow. Ho da sempre una fascinazione per la vita piratesca. Nasconderei tutte le scorte di rum in quel caso.
Il primo dvd che hai comprato?
“Matrix“! Credo che l’avesse portato mia madre. Il mio primo film distopico! L’ho amato. Rivisto un sacco di volte. Iniziai a farmi un sacco di domande filosofiche sulla vita, da lì in poi l’apertura di una voragine di interrogativi.
“Una penna serve sempre.
Bisogna riscrivere di continuo le scene”.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Il mio coraggio mi sembra sempre piccolo ed effimero rispetto a quello delle persone che stimo. Io so amare coraggiosamente, profondamente, pubblicamente e senza vergogna, non ho paura di essere fragile, di aprire tutto il mio cuore a chi amo.
Qual è la tua isola felice?
L’isola felice in cui sono nata è davvero un’isola. Vengo dalla Sicilia e quella terra culla sempre i miei pensieri. Col tempo ho capito che la mia isola felice si sposta ovunque ci sia chi ha il mio amore.
Cosa ci puoi svelare dei tuoi progetti futuri?
Mi vedrete nella prossima stagione de “Il Cacciatore”. Un ruolo romantico. È stato bello sia perché la direzione di Davide Marengo e di Fabio Paladini è elegante, essenziale e concreta, ma soprattutto è stato molto divertente, perché finalmente ho recitato non in un siciliano generico con cadenza, ma proprio in palermitano stretto stretto.
Del resto dei progetti ancora posso parlare. C’è sempre questo grande silenzio misterioso nel nostro lavoro. Mi fa un po’ ridere, è come una di quelle buffe regole dei giochi da tavolo.
“La mia isola felice si sposta ovunque ci sia chi ha il mio amore”.
Photos by Johnny Carrano.
Thanks to The Fifteen Keys Hotel.
Thanks to Other Srl.
Makeup by Chantal Ciaffardini.
Styling by Sara Castelli Gattinara.
LOOK 1
Dress: Amotea
Headband: UNDICIVENTI
Shoes: Jimmy Choo
Jewels: Flaminia Barosini
LOOK 2
Abito: Amotea
Scarpe: Jimmy Choo
Gioielli:Giuliana Mancinelli Bonafaccia