Un senso di responsabilità, una forte determinazione, una legittima paura del rifiuto. E soprattutto, il desiderio di vivere senza rimpianti: Elia Nuzzolo ha recentemente interpretato due giganti del panorama italiano, Max Pezzali in “Hanno Ucciso l’Uomo Ragno” e Mike Bongiorno in “Mike”.
Due lavori di immedesimazione diversi, entrambi di ampia risonanza, che vedono il tema della ricerca di equilibrio tra persona e personaggio, e tra personalità forti, rilevanti: Elia si trasforma, cerca i suoi punti di appiglio, studia le differenze e si lascia guidare dalla grande passione per la recitazione. Proprio quella stessa passione e volontà che utilizza per abbattere i muri e andare lontano: senza mai smettere di imparare, sempre con la fiducia in sé stesso.
Che poi, è proprio l’atteggiamento che lo porteranno ovunque: Nord, Sud, Ovest ed Est…
Qual è il tuo primo ricordo legato al mondo del cinema?
Il ricordo che ho più impresso è una delle prime volte che sono andato al cinema, con mia mamma, a vedere “Le cronache di Narnia”. Fu abbastanza traumatico: ricordo la scena in cui uccidono il leone e lo torturano anche, gli strappano la criniera, e io, che ero piccolino, mi coprii gli occhi per diverso tempo. Quel film comunque l’ho sempre amato, anche se fu un battesimo di fuoco.
Quest’anno hai interpretato due icone del panorama italiano, Max Pezzali e Mike Bongiorno. Come ti sei preparato alle rispettive interpretazioni e come hai vissuto il senso di responsabilità che portano con sé due prove attoriali di questo livello?
Il senso di responsabilità c’era ed era forte, perché sono entrambi personaggi amatissimi. In entrambi i casi, il primo approccio è stato leggere le loro autobiografie; contemporaneamente, ho dovuto fare i conti con la loro grandezza. Alla fine, la soluzione che ho trovato è stata quella di considerarli e studiarli come se fossero due ragazzi di vent’anni con i loro sogni, le loro paure, le loro ambizioni, cercando di non badare troppo a chi sono diventati, piuttosto avvicinarmi a loro come se fossero miei coetanei.
“Ho dovuto fare i conti con la loro grandezza”
Hai trovato dei tratti in comune tra la tua esperienza e quella di Mike e Max per portare sullo schermo una rappresentazione così autentica e sincera, per renderli “tuoi” come personaggi?
Sì. Nel caso di Mike, mi ha colpito molto la sua determinazione nel voler realizzare un sogno, la sua grande passione per qualcosa di specifico, ovvero comunicare con le persone, cosa che io condivido con lui e che ho ritrovato anche in Max. Per lui, c’era la musica e la scrittura, prima di tutto. In tutti e tre i casi, me incluso, la forte passione per qualcosa riesce ad abbattere muri esterni e quelli psicologici, fenomeno e bisogno che tutti e tre possiamo condividere.
Nel caso di Max, è evidente la sua timidezza e la sua riservatezza: anche io sono un po’ come lui, e uso la recitazione per abbattere quel tipo di muro.
Max e Mauro sono un po’ gli “sfigati” della provincia che da un giorno all’altro diventano un fenomeno nazionale che, ancora non sanno, risuonerà nel tempo e tra le generazioni. È un po’ la dimostrazione che tutti possono fare cose straordinarie, che volere è potere anche se qualcosa non va al primo tentativo: cosa rappresenta per te questo sentimento lungo il tuo percorso attoriale?
Nel mestiere dell’attore, questo è un meccanismo che si ritrova costantemente, il desiderio di volercela fare ma l’impressione e la paura di non riuscirci mai veramente. In una fase di provini per un film, per esempio, l’attore prima di tutto deve far pace con l’idea della possibilità di un rifiuto, del fallimento. Quando non si trova il “semaforo verde”, come dice Matthew McConaughey nella sua autobiografia, bisogna rialzarsi, riprovarci: l’abilità sta nel rimanere in piedi anche durante periodi meno positivi.
Come vivi personalmente il fallimento?
Nel corso degli anni, dopo la mia esperienza al Centro Sperimentale e poi cominciando a lavorare sui set, il fallimento è diventato da “qualcosa di inevitabile” a “qualcosa da ricercare”. Quando stai provando una scena, per esempio, o preparando un personaggio, se vai sul sicuro è molto probabile che farai il “lavoretto fatto bene”, ma non ci aggiungerai quel tocco speciale che deriva degli imprevisti o quei plus che riusciresti ad ottenere se ti sbilanciassi un po’ di più, pur rischiando di cadere. È quella precarietà lì, però, che dà vita alle cose più belle.
“È quella precarietà lì, però, che dà vita alle cose più belle”
E com’è stato invece immergersi negli anni ’90? Tu sei nato nel 2000, ma c’è qualcosa di quegli anni che ti piacerebbe aver vissuto e che fosse ancora attuale o disponibile oggi?
Ho amato l’assenza totale di social network. Non è il mio mondo, i social non mi fanno impazzire, quindi quello è un lato che ho amato molto vivere degli anni ’90. La fantastica scenografia, poi, mi ha aiutato ad immedesimarmi nell’epoca della storia.
Qual è il ricordo più bello che porti con te di questa esperienza e c’è una canzone che useresti per descrivere il viaggio nei panni di Max fino ad ora?
Io la musica la ascolto tantissimo e la utilizzo per la preparazione dei personaggi. Un brano che mi viene in mente, per rispondere alla tua domanda, è di Max Pezzali ed è “Nessun rimpianto”. Questa canzone mi ha aiutato molto nel senso che mi piace molto il messaggio che trasmette, lo condivido, ma anche perché fa capire molto di Max.
Le sue canzoni sono state la mia fonte principale per capire chi fosse.
“Max, ma io questa come la ballo?” è l’ultima domanda che fa Mauro alla fine della serie quando Max gli fa ascoltare “Come mai”. Cosa ti aspetti che emerga dalla appena annunciata “Nord, Sud, Ovest, Est”? Perché parlerà dei grandi successi, ma anche della crisi tra Max e Mauro per dare un degno “finale” alla loro storia.
Io in primis non ho ancora letto niente, quindi anche io faccio ipotesi. A me, chiaramente, piacerebbe un sacco un “lieto fine”, mi piacerebbe se riuscissero a chiudere bene questa storia anche se è difficile, perché non sappiamo effettivamente com’è andata a finire nella realtà. Sono molto curioso e spero che riusciranno a chiudere con una nota positiva, soprattutto considerando che la prima stagione, invece, si conclude in modo piuttosto negativo.
Come è stato invece scoprire Mike Bongiorno? Qual è l’aspetto che più ti ha sorpreso di Mike interpretandolo? Considerando che nella serie si approfondiscono in particolar modo le difficoltà che ha affrontato nella vita sia prima della fama che dopo.
Di Mike sapevo pochissimo e conoscere la sua storia è stato illuminante per me. Un aspetto che mi è rimasto impresso e da cui ho imparato qualcosa anche io è la sua determinazione nel vero e proprio senso della parola, quella spinta per cui quando vuoi una cosa, te la vai a prendere. Insieme a questo, la capacità di dire di no, di far rispettare il proprio volere. Su questo, dopo aver girato questa serie, ho riflettuto molto, perché è un aspetto su cui devo lavorare e Mike mi ha dato tanti spunti su cui ho potuto imparare.
“…quella spinta per cui quando vuoi una cosa, te la vai a prendere”
Fare l’attore immagino implichi una continua ricerca di equilibrio tra quel che sei come persona e il personaggio che stai interpretando, ma anche tra la solitudine dell’affrontare questo lavoro e la collettività che porta con sé. Come costruisci e vivi questo equilibrio personalmente?
Quello che provo a fare, quello che mi hanno insegnato, è cercare una via di mezzo tra me stesso e il personaggio che devo interpretare. Di solito si cerca di andare verso il personaggio e non di portare il personaggio verso di te, il che significa di non cercare di appoggiare il personaggio su di sé, piuttosto di prendere noi qualcosa di lui. È un processo durante il quale riconosci via via delle particolarità o delle caratteristiche del personaggio, il loro modo di reagire a qualcosa, per esempio, e confrontarlo con il tuo modo di reagire.
È un lavoro nel dettaglio mirato ad allineare il più possibile due personalità.
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stesso tramite il tuo lavoro?
Quando ho iniziato a lavorare, la mia idea era: “Io faccio l’attore, poi di tutto il resto se ne occupano altri”. Invece, col tempo mi sono accorto che serve anche far sentire la propria voce, far presente il proprio volere. Io tendo sempre ad essere passivo in questo, cerco di adeguarmi, il che in parte è giusto, viene anche apprezzato, però ho capito che se questa cosa si estremizza, ne risento io professionalmente.
Motivo per cui devo riuscire a trovare un equilibrio, far sentire la mia voce in ciò che conta.
Il tuo più grande atto di ribellione fino ad ora.
Il mio più grande atto di ribellione è quello di non farmi travolgere dai social, piuttosto cercare il giusto equilibrio tra vita privata e pubblica.
In altre interviste online ho visto che hai menzionato diversi libri, al di fuori di quello di Max Pezzali: cosa stai leggendo ora?
Ora sto leggendo “Trilogia della città di K”, un romanzo di Ágota Kristóf, molto bello. Prima di questo, invece, ho letto la biografia di Al Pacino, appena uscita. Mi piace molto conoscere la visione del mondo delle icone che stimo, sbirciare la loro vita e prendere spunto.
Cosa significa per te sentirti a tuo agio nella tua pelle?
Significa sapere di star dicendo la verità, non parlare per “sentito dire”, ma parlare dicendo la mia verità, che col tempo ho scoperto non essere così scontato. Mi sento a mio agio nella mia pelle quando sono fedele a me stesso.
Di cosa hai più paura?
Del rimpianto. È ciò che mi spaventa di più.
E invece qual è la tua isola felice?
La mia isola felice è il cinema, è un bel film.
Qual è stato l’ultimo film che ti ha fatto sentire “in un’isola felice”?
“Truman Capote – A sangue freddo”, con Philip Seymour Hoffman. Quel tipo di film mi fa proprio stare bene.
Photos by Johnny Carrano.
Grooming by Sofia Caspani.
Thanks to Giuseppe Corallo.
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