Elio Germano presenta a Venezia 76 l’adattamento in VR dell’opera teatrale “La mia battaglia”, scritta a quattro mani con Chiara Lagani. Questa volta, collabora con Omar Rashid, il fondatore del progetto multimediale Gold, per ricreare in realtà virtuale il suo spettacolo e fare un tour dei principali teatri italiani.
In occasione della 76esima Mostra del Cinema di Venezia, abbiamo fatto quattro chiacchiere con loro: ecco cosa ci hanno raccontato Elio e Omar sulla nascita del progetto, sulla loro esperienza, sui loro auspici e sul ruolo che la realtà virtuale ricopre nella nostra società e nel nostro tempo.
Da cosa è nato questo progetto, l’idea ti trasformare una tua opera teatrale in versione realtà virtuale e non in un classico lungometraggio, per esempio?
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E: Sperimentiamo un po’ di tutto e diciamo che questo spettacolo in particolare, proprio per sua natura, è molto difficile da rappresentare (non che non ci abbiamo provato) a livello 2D, in una classica ripresa video, perché è uno spettacolo che avveniva e quindi avviene, anche, nella sua forma virtuale, mano a mano sempre più tra il pubblico, e quindi non in platea.
Lo spettatore stesso era portato a guardarsi intorno, piuttosto che a guardare soltanto quello che accadeva sul palco. Quindi, la possibilità di voltarsi, la visione a 360° ci dava proprio questa possibilità, cioè, di essere più aderenti all’esperienza del teatro. In più, ci siamo da subito resi conto che questo aggiungeva una tematica, una questione in più molto forte all’interno dello spettacolo, cioè lo spettacolo diventava anche una critica al mezzo stesso e lo stato coercitivo al quale si tende, un po’, come sensazione, perché poi lo spettacolo diventa quasi uno spettacolo horror, con questo tipo di apparecchiatura viene calcata ancora di più, perché è un’esperienza individuale dalla quale non si può fuggire e si sprofonda nel nero veramente in solitudine, senza l’appiglio di nessun altro. Abbiamo quindi trovato il mezzo adatto, tant’è vero che ha una durata estrema per il VR, cioè dura un’ora e dieci, mentre con il VR di solito dopo dieci minuti o un quarto d’ora non ce la fai più; invece con la nostra la gente rimane, proprio come fosse a teatro.
“La visione a 360° ci dava proprio questa possibilità, cioè, di essere più aderenti all’esperienza del teatro”.
Con quale messaggio o lezione vorreste che gli spettatori tornassero a casa dopo aver vissuto questa esperienza?
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E: Mah, rispondo con una battuta sul fatto che nessuno ti deve dare una lezione, men che meno il nostro spettacolo, però ci auguriamo che lo spettacolo serva un po’ da elettroshock, sia un tentativo di rianimazione delle coscienze individuali, nel senso che poi tutto questo individualismo produce, per paradosso, una omologazione di pensiero per cui nessuno poi ragiona con la propria testa. Quello che cerchiamo di far capire è che il segnale d’allarme che lanciamo è sul pericolo della mancanza di pensiero personale, per cui la lezione che diamo è che le lezioni ognuno se le fa da solo, speriamo il più possibile.
A proposito, pensate che questo progetto possa essere un primo step di una lunga serie di progetti simili, dato anche il fatto che la realtà virtuale è in grado di coinvolgere gli spettatori in maniera così fisica oltre che emotiva?
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O: Sicuramente, diciamo oltre il primo step, dato che già da un po’ di tempo stiamo sperimentando questa cosa e ne abbiamo anche altre in cantiere che stiamo sviluppando. Ciò che ci piace sottolineare è che comunque abbiamo pensato anche all’aspetto distributivo: proprio perché si tratta di un nuovo linguaggio, proprio perché è qualcosa di molto individuale, la nostra sfida è quella di renderlo un’esperienza collettiva molto più vicina a quello che era il cinema dei suoi esordi, che fosse un’esperienza sociale. Quindi, diciamo che non pensiamo solo al contenuto ma anche alla fruizione, quindi in questo caso ci piace ricreare proprio l’ambiente teatrale, nel senso che le persone, prima di indossare il visore, hanno la sensazione di essere già in una situazione frontale, cioè dove succede qualcosa davanti a te, e nel momento in cui si mettono il visore si ritrovano con altre persone accanto, virtuali, però questo aiuta anche a immergersi ancora di più nell’esperienza.
E: Sì, perché poi, come tutte le cose, manca una dimensione distributiva. Siamo pieni di contenuti ma nessuno sa dove guardarli, noi stessi, che abbiamo i visori a casa… non ti viene voglia di guardarlo perché, appunto, come diceva Omar, è un’esperienza completamente individuale. Abbiamo inventato questa roba qua, cioè il fatto di portare noi, com’era una volta il cinema, cioè la contemporaneità della visione in un ambiente che ti riporta a quell’atmosfera, quindi ti viene voglia di andare a fare questa esperienza.
Cos’è che si aggiunge? Appunto l’esperienza collettiva, il fatto che non te lo vedi a casa da solo, ma quando ti levi il visore puoi discutere con le persone che erano accanto a te. Siccome questo spettacolo era uno spettacolo che, per sua natura, apre a delle discussioni, c’era un’altra mezz’ora, dopo teatro, in cui non facevo i selfie, ma facevo discussioni col pubblico, già durante le repliche dello spettacolo; e questo avviene anche nella realtà virtuale, con nostra sorpresa. Quindi, due cose: risolvere la questione distributiva, portando in giro lo spettacolo, e restituire la visione collettiva, criticando fortemente il pericolo di questo mezzo che è quello dell’alienazione, a livello proprio massimo rispetto a tutti gli altri strumenti, perché appunto mette una cuffia e una maschera, quindi ci manca che ti tappino la bocca…[ride]
“Risolvere la questione distributiva, portando in giro lo spettacolo, e restituire la visione collettiva”.
Vi viene in mente un film che vi piacerebbe vedere in versione VR o che vi piacerebbe trasformare in VR?
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E: Cioè, per esempio con gli horror io già mi cago addosso solo al pensiero… Perché con la realtà virtuale basta che uno ti faccia “buh!” da dietro e che salti in aria, perché è la cosa più spaventosa che si possa vedere…
O: Mah, se devo dire un film, mi piacerebbe “Matrix” in realtà virtuale, magari per il quattro, chissà [ride].
E: Madonna… Cameron sicuramente lo farà! No, la cosa per cui invece è molto forte la realtà virtuale, parlando seriamente, è proprio il giornalismo. Nel momento in cui nasce questa cosa per cui si distribuisce la realtà virtuale in maniera collettiva e viene voglia di andarla a vederla, ecco, a quel punto infiliamo subito quello che succede nelle parti del mondo, ché vederlo dentro uno schermo ti protegge, è sempre un quadretto di qualcosa, immergercisi dentro, per qualsiasi cosa, ti fa mettere in quei panni, in quel contesto. Perché portare le persone in Siria o su una barca di chi fugge dalla Siria, farebbe capire a livello emotivo delle cose che è molto difficile far piovere dall’alto, le farebbe raccontare non sentendole come qualcosa che ti piove dall’alto, uscendo dal pietismo delle cose.
Lì, ci vuole poco, basta un visore e sei là dentro senza bisogno di parole, è la più grande forma di svelamento per recuperare quella coscienza emotiva che si è persa coi ritmi del linguaggio contemporaneo. Nessuna cosa che vediamo in televisione ci emoziona più, anche donne con bambini, nessuno pensa più che potresti essere tu; questa roba qui, con la realtà virtuale, è molto più violenta, ti metti nel posto di guerra e senti le bombe sotto il culo! Quindi forse qualche ragionamento in più puoi farlo, quindi io spero del gran giornalismo in realtà virtuale; in quel caso sarebbe la virtualità reale, come l’abbiamo chiamata noi, tra le nostre cazzate da tavolino… Scusate il turpiloquio [ride].
“Basta un visore e sei là dentro senza bisogno di parole, è la più grande forma di svelamento per recuperare quella coscienza emotiva che si è persa coi ritmi del linguaggio contemporaneo”.
Photos by Johnny Carrano.